Giovanni Porzio – da Teheran (12.09.07)
L’apparenza inganna. Percorrendo le strade della sterminata capitale iraniana si ha l’impressione di attraversare una metropoli plumbea e trasandata, ingolfata da 15 milioni di abitanti e paralizzata dal traffico, intristita dai casermoni dell’edilizia pubblica e dai funerei murales che incombono sui congestionati viadotti: martiri aureolati che assurgono al paradiso islamico, ayatollah defunti che lievitano sulle facciate dei palazzi, lo sguardo fosco dell’imam Khomeini e la barba canuta del suo grigio epigono, la Guida suprema Ali Khamenei. Davanti all’ex ambasciata americana le donne, infagottate nel chador, lanciano occhiate furtive al dipinto che raffigura il volto della Statua della libertà, trasformato dal fervore rivoluzionario e antimperialista in uno teschio assetato di sangue.
Ma sotto l’opprimente cappa dei divieti, delle censure e delle interdizioni imposte dai mullah, Teheran vibra di fermenti culturali e di pulsioni sociali come poche altre città mediorientali ed europee. Gli iraniani sono abilissimi nell’esercizio della taghieh, la scienza persiana e sciita della dissimulazione, che schiude spazi imprevedibili nelle pieghe del sistema: consente di sfruttare le contraddizioni ideologiche del regime e le falle del suo apparato repressivo.
Se una galleria d’arte è sigillata dagli zeloti della milizia popolare, i famigerati basiji, un’altra viene subito inaugurata in un quartiere limitrofo. Se i film stranieri sono banditi, compaiono immediatamente sulle bancarelle abusive in dvd venduti a meno di un euro. Se alle boutique viene ordinato di segare i seni dei manichini femminili, il giorno dopo ricompaiono in vetrina con le forme posticce. Gli stilisti allestiscono sfilate di moda underground. E i pittori appena arrivati da Londra o da Parigi espongono dipinti erotici negli appartamenti privati, dove i Pasdaran non possono irrompere senza un mandato dell’autorità giudiziaria.
Due anni fa, l’elezione al vertice della Repubblica islamica dell’outsider ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad segnò la fine della “primavera di Teheran”. Il progetto riformista dell’ex presidente Mohammed Khatami, che aveva alimentato le aspettative dei giovani e degli intellettuali, è stato vanificato dall’ostilità del Rahbar enghelab, la Guida della rivoluzione, e dei centri di potere allergici a qualsiasi cambiamento: militari, parte del clero, commercianti del bazaar e Bonyad, le fondazioni nate per gestire i beni dello shah, che controllano la grande finanza, l’industria petrolifera, il mercato immobiliare, sono esenti dal pagamento delle imposte e rispondono del loro operato soltanto a Khamenei.
I margini di libertà individuali conquistati al prezzo di dure lotte si sono drasticamente ridotti. Decine di giornali e di siti web sono stati chiusi. In agosto è toccato al quotidiano Shargh, reo di avere pubblicato un’intervista sull’omosessualità (illegale in Iran e punibile con la morte) con la poetessa Saghi Ghahreman, in esilio in Canada. In luglio era stato bandito Ham Mihan, appena tornato in edicola dopo sette anni di ostracismo. Emadoldin Baghi, ex direttore di Jomhouriat, è stato condannato a tre anni di carcere per “attività contro la sicurezza nazionale”. Le facoltà universitarie sono state “purgate” dei professori troppo liberal e la prigione di Evin si è riempita di leader studenteschi e sindacali, giornalisti, femministe, difensori dei diritti umani.
Nel mirino della polizia islamica sono finite anche le antenne paraboliche, i 7,5 milioni di navigatori internettiani e i 100 mila bloggers che animano da alcuni anni in rete un acceso e stimolante dibattito politico e culturale. In nome della lotta all’immoralità e alla malefica influenza dell’Occidente, le autorità hanno bloccato l’accesso a dozzine di indirizzi elettronici e hanno censurato siti come YouTube, Amazon, Wikipedia, il New York Times e il link in farsi della Bbc. Nel tentativo di impedire agli utenti di scaricare film e musica “corrotta” online, i servizi a banda larga sono stati sospesi e ai provider è stato imposto di utilizzare una velocità massima di 128 kbp al secondo. “E’ una misura per ridurci al silenzio e per arginare il dissenso” spiega il blogger Parastoo Dokoohaki. “Ma è anche un segno di debolezza”.
La mannaia dei basiji si è abbattuta persino sui barbieri: accusati di proporre ai clienti tatuaggi, piercing, gel e tagli di capelli non islamici, venti figari della capitale si sono visti revocare la licenza. E il 6 agosto a Karaj, vicino a Teheran, la polizia ha ammanettato 230 ragazzi della buona società che si erano riuniti per un “satanico rave party” clandestino organizzato via internet: nel raid sono state sequestrate 150 bottiglie di alcolici, 20 videocamere e 800 cd di musica “decadente”.
Il giro di vite non sembra però sortire gli effetti sperati dagli inflessibili custodi dell’ortodossia islamica. Almeno sul piano dei comportamenti sociali e culturali. Pur tra mille incoerenze e battute d’arresto, la metamorfosi dell’Iran in un paese sempre più moderno e aperto al mondo esterno appare inarrestabile. Basta entrare in un ristorantino di Gandhi street frequentato dagli studenti o al caffè Shuka, fumoso ritrovo di intellettuali che inalbera dietro il bancone un manifesto di Andy Warhol, per ascoltare in sottofondo un brano di Miles Davis o dei Pink Floyd e sorseggiare un cappuccino all’italiana. Basta osservare le boutiques di Tandis, lo shopping center di moda tra la borghesia di Teheran, che al venerdì offre un luculliano brunch, per accorgersi che i prodotti occidentali hanno invaso la fascia alta mercato: da Chanel a Dolce&Gabbana, da Nokia alla Apple.
Le ragazze, costrette a coprirsi il capo, non rinunciano alla seduzione. Il roussarì, il velo, è sempre più sgargiante e sempre in bilico sulla nuca a mostrare, in segno di sfida, il kakol, la ciocca dei capelli. Il trucco è pesante, eccessivo, le unghie smaltate. Il chador è uno spolverino attillato e trasparente, sotto cui s’indovinano i jeans a vita bassa e la camicetta scollata. Gli stereotipi occidentali spingono un numero crescente di “malvelate” – così le bollano i giornali di regime – a rifarsi il naso in uno dei 28 centri di chirurgia estetica della città: una rinoplastica costa 1.500 dollari, 500 un intervento laser agli occhi. Le cliniche private si sono specializzate nella ricostruzione dell’imene: è indispensabile che le nubili siano vergini il giorno del matrimonio. E nel cambio di sesso: il Corano – e un pronunciamento di Khomeini – non lo vietano.
Certo, nelle campagne e nei distretti poveri a sud della capitale tutto ciò è impensabile. Scendendo sul Vali Asr, il viale del Maestro del Tempo che dalle alture dove sorgono le lussuose ville della vecchia aristocrazia imperiale conduce agli sterminati slum meridionali, la scena cambia in modo brusco. Nelle periferie popolate da contadini immigrati e disoccupati in cerca di un impiego i mullah non transigono sul rispetto della sharia e sul chador. Ma anche i ragazzi dei quartieri bassi, nel weekend, si appartano con le fidanzate sulle colline di Darband e di Jamshidiye, armati di chitarre, di Mp-3 e dell’immancabile telefonino: strumento essenziale per scambiarsi sms, darsi appuntamento, organizzare una festa, pubblicizzare un concerto underground.
I giovani nati dopo la Rivoluzione sono più della metà della popolazione: un esercito di consumatori sempre più sofisticati ed esigenti, sempre più istruiti (90 per cento di alfabetizzati) e informati. E sono loro i protagonisti della rivoluzione demografica e culturale che mette in crisi la teocrazia khomeinista.
Le gallerie d’arte, a Teheran, sono 115, senza contare quelle clandestine. E quasi tutte espongono opere di giovani artisti. “Andiamo a cercarli nelle scuole, ma molti autori ci propongono i loro lavori su cd” spiega Morad Saghafi, gallerista e direttore della rivista Dialogue. “C’è una linea di continuità, astratta e figurativa, che viene dalla prima metà del Novecento. Ma sono i pittori della generazione postrivoluzionaria i più interessanti: segnano il passaggio dall’arte moderna a quella contemporanea con tecniche sperimentali e contenuti che esprimono il malessere sociale. Il cinema iraniano è molto apprezzato in Europa, ma sono convinto che la pittura avrà un ruolo altrettanto importante nei prossimi anni”.
Saghafi sta preparando una mostra di 50 artisti alla galleria Artspace di Mayfair, a Londra: “Collected memories: nuove tendenze della pittura iraniana”, dal 9 al 27 ottobre. Esporrà i suoi quadri anche Ahmad Morshedloo, le cui grandi tele evocano il senso di estraneazione, l’isolamento e la solitudine che si respira in Iran. “E la censura?” “Si può sempre aggirare” sorride Saghafi. “Siamo un paese orientale. E molto disorganizzato”.
La Casa degli artisti è un altro luogo d’incontro di studenti e intellettuali. Nelle sale si alternano installazioni di video art, new media, proiezioni di graphic design e mostre fotografiche come quella, appena inaugurata, di Ehsan Faridafshar, che presenta immagini in bianco e nero di un India profonda, dove ha scelto di vivere e di lavorare.
Lo scollamento tra il regime e la società iraniana salta all’occhio al Museo d’arte contemporanea, splendido edificio realizzato dall’architetto Kamran Diba e inaugurato dallo shah Reza Pahlavi un anno prima della Rivoluzione. “Ricordo bene quel giorno” racconta la signora Larijani. “Lo shah era con l’imperatrice Farah Diba, cugina dell’architetto. E a un certo punto, scambiandola per una superficie di vetro scuro, affondò la mano nella vasca di petrolio che è qui all’ingresso: una scultura giapponese!” Poi aggiunge, con sarcasmo: “Dopo il 1978 abbiamo avuto 19 direttori: quasi nessuno sapeva cos’è l’arte”.
Le sale, semivuote, espongono disegni di abiti femminili islamici. Eppure i dipinti del museo costituiscono la più completa raccolta di arte occidentale esistente al mondo fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti: Picasso e Francis Bacon, Chagall e Jackson Pollock, Magritte e Man Ray, Renoir e Roy Lichtenstein, per citarne solo alcuni. Nel settembre 2005 l’allora direttore Ali Reza Semiazar era riuscito a esibire per qualche settimana una parte della collezione, ora nuovamente relegata nei sotterranei. Restano visibili, nel giardino, alcune sculture di Henry Moore, un cavaliere di Marino Marini, una delle esili figure di Giacometti e una sfera di Arnaldo Pomodoro.
Anche il Museo degli strumenti musicali è malvisto. Inaugurato cinque anni fa, è ancora chiuso al pubblico. Lo visito con Nasrallah Shirinabadi, violinista cieco dall’eta di due anni, che mi racconta del suo amore per il “satanico strumento” di Paganini. “Il mio l’ha costruito un famoso liutaio di Teheran, Ibrahim Khanbarimehr, che è ancora vivo: fece un violino anche per il sommo Yehudi Menuhin. Ma tutto questo avveniva prima della Rivoluzione”.
Oggi la musica, se non è quella della tradizione persiana, è guardata con sospetto. E alla fine di agosto hanno fatto scalpore i due concerti dell’orchestra sinfonica di Osnabruck: sotto i ritratti di Khomeini e di Khamenei, i 63 applauditissimi professori tedeschi – le donne rigorosamente velate – hanno suonato Beethoven, Elgar e la Quarta sinfonia Brahms. Non accadeva dagli anni Settanta, quando Von Karajan diresse la Filarmonica di Berlino davanti a Sua Altezza Imperiale. Ma se la musica colta sembra ritornare in voga (la libreria Book City ha un vastissimo assortimento di cd classici e di spartiti) rock, pop, rap, house e techno sono fuorilegge.
Un decreto presidenziale ha bandito “l’indecente musica occidentale” alla radio e alla televisione. Le esibizioni in pubblico dei gruppi sono a discrezione dei funzionari dell’orwelliano Ministero della cultura e della guida islamica. “Per noi la risposta è sempre negativa” sospira Sohrab Mohebbi, leader dei “127”, la rock band più ascoltata dai giovani e più cliccata sul web (www.127band.com), che prova di nascosto nella cantina insonorizzata di un palazzo nel sobborgo di Ekbatan. “In Iran tutto viene letto in chiave politica. Ma la politica, come dice Bob Dylan, è nella testa della gente: noi vogliamo soltanto cantare”. Non è vero. Gli ayatollah non sono così ingenui: i testi scritti da Mohebbi sprigionano tutta la rabbia e le frustrazioni di una generazione che ha le ali tarpate, che si sente schiacciata, soffocata, imprigionata.
Sono i temi che ricorrono nelle piece teatrali di Amir Reza Koohestani, 29 anni, reduce dal festival di Manchester, che mi dà appuntamento in un caffè di Teheran: trafelato, ha appena finito di allestire il suo nuovo spettacolo, che debutta in questi giorni. “Le mie commedie si basano su storie reali, raccontano i drammi della nostra società, i problemi dei giovani e delle famiglie. Con i censori gioco a rimpiattino: sono ossessionati dal sesso, mi obbligano a cambiare gli aggettivi, ad ammorbidire le battute, a rigirare le frasi. Sono attenti alla forma ma non credo che capiscano la sostanza”. “Danza sui vetri” e “Tra le nuvole”, rappresentate con successo in Europa, parlano dell’impossibilità di amare, degli incontri segreti, delle ragazze che scappano di casa raccontate da Rasul Sadr Ameli nel film “La ragazza con le sneakers”.
Fuggono dal moralismo ipocrita di una società che condanna le adultere alla lapidazione ma incoraggia il sigheh, il matrimonio a tempo determinato, da un’ora a 99 anni, stipulato a pagamento dai mullah. E pur di sottrarsi al peso delle costrizioni religiose e famigliari sono disposte a vendersi sui marciapiedi, a stordirsi con le droghe sintetiche, le anfetamine e il crack. A bruciarsi la vita.