Giovanni Porzio – da Hebron (12.12.08)
Due occhi scuri e profondi, velati di tristezza, che lampeggiano in un viso slavato, incorniciato dal velo dell’uniforme da infermiera. Obeida Abd al-Rahman Mohammad Abu Aishi, 30 anni, lavora al secondo piano dell’ospedale Al-Ahli di Hebron, reparto di medicina interna: sterilizza gli strumenti, prepara i termometri, aggiorna le cartelle cliniche. I bambini a cui somministra i farmaci non sanno che Obeida è una kamikaze mancata e che ha scontato una condanna di sei anni nelle prigioni israeliane per avere pianificato un attentato suicida.
“Volevo uccidere” dice con un filo di voce. “Ora lotto ogni giorno per salvare la vita dei miei pazienti. Ma non c’è contraddizione: mi batto per il popolo palestinese. Non sono un’assassina”.
Era il 2002. L’anno del massacro di Jenin, della rioccupazione delle città della Cisgiordania, dell’accerchiamento di Yasser Arafat tra le mura diroccate della Muqata. Obeida prestava servizio come volontaria su un’ambulanza, a Ramallah, insieme ad Ali, il suo fidanzato, che durante la prima intifada era stato colpito alla testa da un proiettile e aveva perso un occhio. “Avevo già provato l’abito bianco” racconta Obeida. “Mancavano solo quattro giorni alla data fissata per le nozze quando Ali è stato ucciso da un missile lanciato da un elicottero Apache. In un istante il mondo mi è crollato addosso”.
Obeida, sconvolta, vuole vendicarlo. Suo fratello Safwat è uno shahid, un martire della resistenza: si è fatto esplodere il 21 gennaio del 2002 in una stazione degli autobus di Tel Aviv, 5 morti e 15 feriti. Obeida decide di seguire il suo esempio. E a Nablus, dove vive con i genitori, contatta i dirigenti locali della Jihad islamica.
“All’inizio erano contrari. Non volevano donne kamikaze. Non volevano un altro martire nella stessa famiglia. Ma io ho insistito e alla fine hanno accettato. Ero decisa a farlo nello stesso posto dove era morto mio fratello”. In segreto, comincia ad addestrarsi. Impara a muoversi con disinvoltura indossando sotto la veste il giubbotto e la cintura al plastico. E’ lei stessa a confezionarli. “Nei tasconi della cintura interna” spiega “si mette l’esplosivo, mentre le tasche della giacca si riempiono solo di schegge di metallo. Il saeeq, il cavo con la miccia detonante, viene immerso nell’esplosivo ed è azionato da un pulsante”. Ai primi di febbraio tutto è pronto.
Obeida si avvicina al posto di blocco che deve superare per poi raggiungere Tel Aviv. “Non avevo la minima paura” ricorda. “Stavo per rivedere Ali e mio fratello in paradiso”. C’è però un imprevisto: i soldati arrestano una ragazza palestinese. Obeida è costretta ad abortire il piano e a tornare sui suoi passi. L’operazione è rinviata. Ma intanto, il 27 febbraio, suo cugino Darin si immola in un attentato suicida al check point di Modein.
Il cerchio intorno a Obeida si stringe: lo Shin bet, il servizio segreto interno israeliano, ha saputo qualcosa. La polizia la sta cercando. E quattro mesi dopo, il 2 giugno, i militari circondano la casa del villaggio di Beit Wasan dove Obeida si è nascosta con altri due militanti della Jihad. “Era l’alba. Quando mi sono accorta dell’arrivo dei soldati ho svegliato i miei compagni. Eravamo armati, ma abbiamo deciso di non sparare perché gli israeliani avevano uno scudo umano”. Prima di arrendersi Obeida fa in tempo a scrivere sulla parete della stanza un messaggio ai famigliari: “Non state in pena per me: l’amore per la mia patria mi aiuterà a sopportare la prigionia”.
Il carcere è stato duro. “Mi chiamavano mukharribah, terrorista. Per tre anni e mezzo non ho potuto vedere nessuno: quando riuscivo ad avere un giornale guardavo i necrologi col terrore di trovare il nome di mio padre o di mia madre. In sei anni ho visto i miei genitori solo tre volte: da loro ho saputo che, dopo l’arresto, la nostra casa di Nablus era stata rasa al suolo dai bulldozer dell’esercito”.
In prigione Obeida è cambiata. “Ero una ragazza fragile e ingenua” dice. “Sono diventata una donna molto più forte. Non ho mai mostrato i miei sentimenti alle guardie; non ho mai svelato le mie debolezze alle altre detenute. Se non sono riuscita a combinare nulla per la causa palestinese, ho almeno conquistato qualcosa per me stessa”. Oggi Obeida non crede più nella violenza cieca degli attentati suicidi. Non rifarebbe quel cammino verso il check point israeliano che il destino ha voluto fermare.
La sua battaglia contro l’occupazione israeliana si svolge tutta dentro i reparti dell’ospedale palestinese di Hebron e nelle associazioni femminili per la pace di cui fa parte. Ma le ferite dell’anima non si sono rimarginate e il sorriso che ogni tanto le affiora sulle labbra ha una piega amara. “Sono ancora innamorata di Ali” confessa. Sulla sua tomba, dove è corsa subito dopo la liberazione, ha lasciato un biglietto: “Scusa, ho tentato di venire da te…”
Obeida ha poi accettato di sposarsi: un matrimonio combinato, infelice. E il bambino che lei vorrebbe non arriva. “Mi sono sposata per avere un figlio, e non riesco a restare incinta. Mio marito vuole da me solo sesso, cucina e pulizie di casa, come tutti gli uomini di Hebron. Gli dico che sono la sua compagna, non una serva. Ali avrebbe capito, lui no”.
Fuori pioviggina. E’ una giornata d’inizio inverno e per alcuni attimi lo sguardo di Obeida si perde oltre il finestrone dell’infermeria, tra le nuvole grige che passano sulle colline e nel cortile di una palazzina dove i bambini giocano a pallone. “So che non potrò mai vivere una vita normale. So che non potrò mai essere una madre come le altre. Ma non sono un mostro assetato di sangue. Sono un essere umano: è questo che vorrei dire agli israeliani. Tra i kamikaze ci sono donne come me, studenti universitari, impiegati, gente comune. Persone che sono quasi sempre spinte a scelte e azioni estreme dalla disperazione per la perdita di un congiunto, della casa, del lavoro. Per molti di noi la morte è preferibile all’umiliazione di una vita senza futuro, senza patria e senza libertà”.
Giovanni Porzio – da Gerusalemme (gennaio 2008)
La vita di Maria Amin, 6 anni, è appesa al respiratore agganciato alla sedia a rotelle con cui si sposta nei corridoi del reparto di riabilitazione dell’ospedale Alyn di Gerusalemme. Era il 20 maggio 2006, un sabato, quando a Gaza il missile sparato da un elicottero Apache contro un dirigente della Jihad islamica investì l’auto su cui viaggiava uccidendo sua madre, la nonna e il fratellino di 7 anni.
Maria, paralizzata dal collo in giù, non potrebbe farcela senza l’aiuto degli israeliani. Senza Dalia, la volontaria ebrea che l’ha “praticamente adottata”. Senza i medici, gli psicologi e i fisioterapisti dell’unico centro specializzato del Medio Oriente in grado di accudirla. E senza l’assistenza legale gratuita dell’avvocata Adi Lustigman, che si è appellata alla Corte suprema per costringere il governo ad assumersi la responsabilità morale e gli oneri economici delle cure indispensabili alla sopravvivenza della bambina palestinese.
Quella di Maria è una piccola storia nel tragico scenario del conflitto arabo-israeliano. Non servirà a bloccare la costruzione delle colonie e del Muro nei Territori occupati, a fermare la pioggia di razzi Qassam sulle città del Negev o a impedire gli attacchi dei kamikaze. Ma di fronte alla paralisi dei negoziati, alle vuote dichiarazioni d’intenti dei leader politici e all’intransigenza degli opposti estremisti, offre almeno un concreto segnale di speranza: dimostra che la comprensione e la solidarietà tra i due popoli in guerra è possibile. Che c’è ancora qualcuno che non ha paura della pace.
Senza il respiratore Maria non può parlare e il suo esofago dev’essere drenato ogni mezz’ora per mezzo di una sonda. Ma ha imparato l’ebraico e frequenta una delle scuole bilingue dell’associazione arabo-israeliana “Mano nella mano”. Quando dorme sogna di camminare e di tornare a casa. “Hanno distrutto la mia famiglia” dice Hamdi, il padre. “Però non provo rancore, il mio destino è stabilito da Allah. Ho visto gli israeliani, semplici cittadini, fare cose incredibili per Maria: ora ci battiamo insieme perché sia il governo a occuparsi del suo futuro”.
Sono in molti, arabi e israeliani, a pensare che la pace si possa costruire dal basso, che il solco del risentimento e dell’odio debba essere riempito in fretta, senza attendere una improbabile palingenesi della politica medio-orientale. L’avvocato palestinese Khalid Mahamid è uno di loro. Tre anni fa, lo stesso giorno in cui fu inaugurato lo Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, Khalid aprì a Nazareth – la più popolosa città araba d’Israele – il suo Arab institute for Holocaust research and education: il primo e finora unico museo arabo dell’olocausto.
Il modesto edificio ospita un’esposizione di fotografie che illustrano le persecuzioni degli ebrei in Europa, i campi di sterminio, le vita nei ghetti, l’esodo in Palestina. E, sull’altra parete, le immagini della Nakba, la disfatta araba del ’48, i villaggi palestinesi distrutti, le tende dei profughi. “Gli arabi negano l’olocausto perché lo considerano un’arma nelle mani di Israele” spiega l’avvocato, che ha investito 200 mila dollari nel progetto, ha stampato più di duemila opuscoli, offre borse di studio sull’argomento e anima un sito web (www.alkaritha.org). “Ma io sono convinto che non faremo progressi se non saremo capaci di abbattere il muro dei pregiudizi e la barriera dell’incomunicabilità. Il maggiore ostacolo alla pace è la reciproca ignoranza della storia dei due popoli”.
Jenin è nota come “la città dei kamikaze”: i suoi campi profughi hanno sfornato il più alto numero di uomini-bomba dall’inizio della seconda intifada. I blocchi di cemento alti 8 metri del Muro e i carri armati la circondano da ogni parte. I militari vi compiono frequenti incursioni notturne. Per entrare e per uscire i palestinesi hanno bisogno di un permesso speciale e devono ogni volta sottoporsi a meticolose e umilianti perquisizioni all’interno di un check point dotato di telecamere, scanner ai raggi infrarossi e cani annusa esplosivo.
E’ l’ultimo posto dove verrebbe in mente di cercare segnali di riconciliazione. E invece basta non fermarsi ai muri tappezzati di ritratti dei “martiri”, di foto di Saddam e dello sceicco Yassin, il fondatore di Hamas assassinato da Tsahal. Basta inoltrarsi nei vicoli, tra le case che mostrano i segni indelebili della guerra e del degrado, per imbattersi nell’imbianchino Ismail, padre di Ahmad, 11 anni, settecentosessantesimo bambino ucciso nella seconda intifada, colpito mentre armeggiava con una pistola giocattolo. Ismail ha deciso di donare gli organi del figlio a sette coetanei di Ahmad, cinque ebrei e due musulmani, perché “anche così possiamo forse costruire la pace tra i nostri popoli”.
A poca distanza, nel campo profughi, ha riaperto i battenti il Freedom Theatre, fondato negli anni Ottanta dall’israeliana Arna Mer-Khamis con l’intento di promuovere la coesistenza tra arabi ed ebrei e demolito dai tank durante l’invasione di Jenin nel 2002. Lo gestiscono Juliano, figlio di Arna (morta di cancro nel ’95), e Zakaria Zubeideh, 31 anni, ex capo delle Brigate al-Aqsa, per lungo tempo in testa alla lista dei “most wanted” dei servizi di sicurezza israeliani. Zubeideh, che nel conflitto ha perso i genitori e un fratello, ha rinunciato alla lotta armata per dedicarsi al progetto teatrale.
“Quasi tutti i miei compagni d’infanzia” racconta “sono morti in operazioni suicide. Ma con la violenza non abbiamo ottenuto niente. Con il teatro cerchiamo di ricostruire ciò che la guerra ha distrutto: l’identità della generazione perduta dell’intifada. E recitare è per noi sinonimo di libertà. Libertà dall’occupazione ma anche dai preconcetti, dai condizionamenti sociali, culturali, religiosi. Sognavamo di imbracciare il mitra e diventare martiri. Ora abbiamo un altro scopo nella vita: contribuire a formare dei leader migliori di quelli che abbiamo avuto in passato”. Più di duemila giovani sono coinvolti nelle attività del Freedom Theatre: corsi di recitazione e danza, cinematografia, giornalismo, circo e mimo, in collaborazione con l’Arab-American university.
Sempre a Jenin incontro alcune ragazze reduci da uno dei “Peace camps” organizzati in Canada da Linda Divon, moglie dell’ex ambasciatore israeliano a Ottawa. Lì, per la prima volta Nermin, Jwana e Samah, studentesse sedicenni, hanno vissuto e si sono confrontate con i coetanei ebrei. Il gap culturale resta profondo. “I ragazzi israeliani” dice Samah “non hanno la minima idea della situazione nei Territori. Non immaginano cosa significhi vivere all’ombra del Muro, passando da un check point all’altro, con le strade chiuse, pattugliate dai soldati, e gli elicotteri che volano a bassa quota. Nel 2002, durante l’invasione, i militari hanno fatto saltare la nostra casa con la dinamite. C’erano ovunque cadaveri abbandonati e le ambulanze non potevano entrare. Due dei miei zii sono morti, mio cugino è stato ferito e arrestato e mio padre, accusato di terrorismo, è costretto alla clandestinità”.
Le ragazze concordano però sull’utilità dell’esperienza, che intendono ripetere. “Conoscevamo solo israeliani in divisa militare” dicono. “E loro pensavano che noi fossimo tutti terroristi. Parlando, ci siamo resi conto che nonostante le divergenze di opinioni vogliamo la stessa cosa: vivere in pace”.
Due delle loro nuove amiche israeliane, Or e Shirel, abitano a Sderot, la cittadina del Negev bersaglio dei razzi Qassam lanciati quasi ogni giorno dai palestinesi della Striscia di Gaza: uno è esploso, senza conseguenze, nel giardino della villetta della famiglia di Shirel. “Non possiamo certo andare a Jenin” spiegano. “Ma la tecnologia ci aiuta a superare le distanze: comunichiamo con Skype e Facebook”.
Costruire un ponte tra i due popoli è anche, dal febbraio 2006, l’obiettivo di RAM FM 93.6, l’unica emittente in inglese della Palestina, con studi a Ramallah e a Gerusalemme, staff arabo-israeliano e capitali investiti a profusione dal tycoon ebreo Issie Kirsh, “patron” della celebre Radio 702 di Johannesburg: stazione che, come ha riconosciuto lo stesso Mandela, fu decisiva nel promuovere il dialogo tra bianchi e neri dopo la fine dell’apartheid. “Diamo voce a tutti” dice Raf Gangat, ex diplomatico ed ex giornalista sudafricano, che conduce un seguitissimo talk show. “Ci ascolta un numero crescente di israeliani e di palestinesi: non faremo noi la pace, ma possiamo contribuire a generare un clima di reciproca fiducia”.
Hebron e Neve Shalom, in quanto a fiducia, sono agli antipodi. La città dei Patriarchi è il simbolo dell’intolleranza. Novanta famiglie di coloni ebrei ultraortodossi, armati fino ai denti e protetti dall’esercito, si sono installate nel centro dell’abitato arabo e il loro portavoce David Wilder, pistola alla cintura, è pervaso da convinzioni granitiche: “Hebron è e resterà ebraica. Lo stato palestinese è una chimera. In una guerra di religione non c’è spazio per i compromessi. Non vogliamo rapporti con gli arabi: lupi e agnelli non possono convivere”. In via Tall Rumede tutte le case sono state occupate dai coloni. L’unica a resistere è la famiglia Abu Ashe, barricata in una palazzina con le grate di ferro alle finestre per fare scudo ai sassi. “Ci minacciano e ci insultano” dice Reema, madre di otto ragazzini. “Hanno dipinto la stella di Davide sul portone. Dobbiamo chiedere il permesso ai militari persino per chiamare l’idraulico e per avere la bombola del gas. Ma da qui non ce ne andremo”.
Neve Shalom, l’“oasi della pace” a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, è invece il sogno realizzato: l’unico luogo della Terra santa dove ebrei, cristiani e musulmani hanno scelto, più di vent’anni fa, di vivere insieme. L’insegnamento è bilingue, i professori sono arabi ed ebrei, l’amministrazione è paritetica e le decisioni, assembleari, sono prese di comune accordo. “Il governo non ci vede di buon’occhio” ammette Tibi Kamil, responsabile delle finanze, “anche perché ci siamo espressi contro la guerra in Libano e molti di noi sono obiettori di coscienza. Ma portiamo avanti il nostro esperimento, imparando dagli errori del passato, dimostrando ogni giorno che la convivenza non è soltanto possibile: è necessaria”.
A Neve Shalom sono germogliate iniziative come il Circolo dei genitori, che accoglie i famigliari arabi e israeliani dei giovani caduti nel conflitto. E come il progetto Cross border, animato da Michal Zak, la combattiva direttrice della Scuola per la pace, che con l’appoggio americano ed europeo ha riunito intorno allo stesso tavolo una sessantina di delegati ebrei e musulmani dai 21 ai 64 anni. Il primo incontro si è svolto in Turchia, il secondo si terrà in aprile in Giordania. Sono intellettuali e professionisti, studenti e contadini, metà israeliani e metà dei Territori occupati, metà uomini e metà donne. Tutti decisi a discutere, senza precondizioni, del futuro della Palestina.