Giovanni Porzio – da Kirkuk (23.10.05)
Il check point sbarra la strada pochi chilometri a nord di Kirkuk ed è chiaro che non si tratta di uno dei tanti posti di blocco della polizia irachena. I miliziani in tuta mimetica che ispezionano le auto provenienti dal “paese dei sunniti” sono guardie di frontiera dell’esercito curdo. L’impiegato in abito grigio che controlla il passaporto è un funzionario del ministero dell’Interno curdo. E sulla garitta la bandiera che sbatacchia nel vento giallo di sabbia e di sulfurei miasmi petroliferi è un tricolore bianco-rosso-verde con il sole al centro: il vessillo della Regione autonoma del Kurdistan, l’eufemismo che nasconde la realtà di uno stato indipendente.
L’altro Iraq comincia oltre questa invisibile linea verde: un territorio grande quanto la Svizzera, 4 milioni di abitanti che vivono una vita quasi normale da quando Saddam Hussein, nel ’91, fu costretto a ritirare i carri armati dalle province del nord ponendo fine allo sterminio del popolo curdo. La violenza non è estranea al Kurdistan: autobombe, omicidi e attacchi kamikaze (l’ultimo domenica scorsa a Kirkuk) non sono infrequenti; i fondamentalisti di Ansar al-Islam dispongono ancora di cellule e di rifugi sulle montagne di Halabja; e le infiltrazioni dei jihadisti dall’Iran, dalla Siria e dalla Turchia rappresentano una costante minaccia. Ma l’enclave curda sembra un altro pianeta se paragonata all’inferno iracheno, al terrore che soffoca Baghdad, ai massacri nel triangolo della morte sunnita, alle quotidiane stragi di militari e di civili indifesi.
In Kurdistan non c’è il coprifuoco e non ci sono i marines, gli occidentali circolano liberamente, i cristiani non sono perseguitati e gli 80 mila combattenti peshmerga prendono disciplinamente gli ordini dal potere politico. Ovunque si vedono cantieri. Quasi tutti i 3.839 villaggi rasi al suolo dai bulldozer di Saddam sono stati ricostruiti. Scuole e ospedali sono stati restaurati. Le tre università (15 mila studenti e 700 professori) funzionano in modo regolare. Le città sono piene di ristoranti, nuovi alberghi, internet café e grandi magazzini stracolmi di beni di consumo importati: telefonini, televisori, elettrodomestici, computer portatili.
Nella capitale Erbil (in curdo: Hawler), l’aeroporto dell’ex base militare utilizzata da Saddam per bombardare Halabja con i gas chimici accoglie i voli diretti della Kurdistan Airways da Dubai, Amman, Beirut, Francoforte. Un’altra compagnia, Zagros Air, offre passaggi per Istanbul: oltre 800 milioni di dollari in contratti di costruzione sono stati appaltati a società turche, impegnate anche nella realizzazione del nuovo aeroporto internazionale.
Imprenditori e uomini d’affari s’incontrano allo Sheraton, dove è in mostra il plastico di un mastodontico progetto immobiliare battezzato Dream City: una città satellite completa di moschea, palazzo dei congressi e shopping mall ideata da un consorzio di ditte private curde, libanesi, egiziane e americane. E dove ha sede la Emerald Bank, la prima banca privata del paese, controllata dal clan Barzani: “Solo oggi” afferma il direttore commerciale Hikmut Dagestany, che ha le gambe devastate dai torturatori di Saddam ed è tornato a Erbil dopo 13 anni di esilio in Olanda, “ho firmato 2 milioni di dollari di trasferimenti esteri”.
“Stiamo gettando le basi per lo sviluppo della regione” spiega Anwar Abdullah, consigliere economico del presidente Massud Barzani. “Abbiamo un governo stabile e il parlamento è in procinto di ratificare la legge sugli investimenti, che saranno incoraggiati con agevolazioni fiscali. Non avendo sbocchi sul mare, dovremo rafforzare la rete stradale e moltiplicare i collegamenti aerei con l’Europa, il mondo arabo, gli Stati Uniti. E poiché siamo circondati da paesi ostili, dobbiamo puntare a uno sviluppo sostenibile e all’autosufficienza alimentare. Dopo il petrolio, l’agricoltura è la seconda voce del pil. Abbiamo grandi potenzialità: clima e suolo favorevoli, abbondanti risorse idriche. Vogliamo convincere i contadini inurbati a ripopolare le campagne”.
Anche il turismo è nei piani del governo regionale. Il Kurdistan è ricco di siti archeologici, sorgenti termali, monasteri, montagne incontaminate. Ma in questa fase la priorità è assegnata alle infrastrutture, al commercio, al comparto produttivo. La Zte, colosso cinese dell’industria spaziale, sta investendo nella telefonia fissa e mobile e nella trasmissione dati via internet, settore nel quale è già presente la tedesca Siemens. L’italiana Sistemi Segnaletici di Castiglione dello Stiviere (Mantova) si è aggiudicata l’appalto per i semafori e la segnaletica stradale di Erbil. E Dino Bigelli, imprenditore di Senigallia, titolare dell’omonima azienda specializzata nella lavorazione del marmo, ha appena firmato un contratto di 10 milioni di euro per la realizzazione di un impianto in territorio curdo.
Il crescente interesse per il mercato curdo ha indotto la Francia ad aprire un centro culturale in un palazzo dell’antica cittadella fortificata di Erbil, dove nelle prossime settimane i tedeschi inaugureranno un Goethe institut e gli inglesi un’antenna consolare, mentre l’Italia sta valutando l’opportunità di un’analoga iniziativa. Anche se per ora, nonostante lo scarso entusiasmo di Ankara, sono gli imprenditori turchi i più attivi sul territorio.
Ilnur Cevik, direttore del quotidiano turco in lingua inglese New Anatolian ed ex consigliere politico di Suleyman Demirel, ha messo a buon frutto i rapporti di amicizia instaurati con il leader del Pdk (Partito democratico del Kurdistan) Barzani e con il fondatore dell’Upk (Unione patriottica del Kurdistan) Jalal Talabani, attuale presidente iracheno, che dopo essersi combattuti per anni hanno fatto causa comune. Nel feudo di Talabani, una Sulaymaniah in tumultuosa espansione, la sua impresa di costruzioni, Cevikler, ha realizzato l’aeroporto internazionale e un convitto per 1.500 studenti. A Erbil ha appena completato un altro internato universitario; sta edificando la nuova sede del governo (15 milioni di dollari) e un complesso di case popolari (50 milioni di dollari) su un’area di 500 mila metri quadrati.
“I principali progetti in corso” spiega il governatore di Erbil, Nawzad Hadi Mawlud, “sono il nuovo city center, con 4 grattacieli per uffici di 30 piani e 5 mila negozi (600 milioni di dollari) e l’acquedotto cittadino (140 milioni), finanziati con la quota del 17 per cento sui proventi petroliferi che riceviamo da Baghdad. Ma i problemi non mancano: scarsità di energia elettrica, di alloggi e di carburante, che dobbiamo importare dalla Turchia”. La casa di Rewan, 26 anni, e di Awat, 25, appena sposati, ha luce per cinque ore al giorno. “Poi dobbiamo usare il generatore” dice Awat, impiegata in un ministero. “Ma la benzina, razionata, costa mezzo dollaro al litro. E il costo della vita continua ad aumentare”.
Le rapide trasformazioni del tessuto economico hanno scosso la società tradizionale curda, conservatrice e maschilista. Gli ospedali sono pieni di giovani donne che hanno tentato di suicidarsi col fuoco. E il tasso di democrazia non ha ancora raggiunto livelli accettabili. Kak (“fratello”) Massud, il presidente Barzani, ha sistemato il figlio Masrur alla testa dei servizi segreti, l’altro figlio Mansur al comando dei peshmerga e il nipote Nechirvan a capo del governo.
Ai confini meridionali, inoltre, resta irrisolto il nodo di Kirkuk, la “Gerusalemme curda” che il parlamento di Erbil ha proclamato “futura capitale”. Nello stadio sportivo, accampati in miserabili baracche di lamiera, languono da anni 450 famiglie: una piccola parte dei 300 mila curdi cacciati da Saddam e rimpiazzati da coloni sunniti. Il ritorno degli sfollati nella città, abitata da arabi, curdi, turcomanni e cristiani, non è solo una questione umanitaria. La posta in gioco è il controllo dei più ricchi giacimenti di greggio dell’Iraq e degli oleodotti diretti in Siria e in Turchia, costantemente sotto il tiro dei sabotatori e oggi difesi da 5 battaglioni dell’esercito di Baghdad e da centinaia di contractors stranieri.
“Quel petrolio appartiene al nostro popolo” sostiene Hiner Saleem, il regista curdo di Kilometro Zero e di Vodka Lemon, premiato nel 2003 a Venezia. E sul futuro non ha dubbi: “L’Iraq non è mai esistito: è un’invenzione di Churchill e dell’Occidente. Noi invece siamo una nazione da 3 mila anni. Non vogliamo l’autonomia. Vogliamo l’indipendenza e la conquisteremo: in modo pacifico, se possibile; con le armi, se necessario”.
Giovanni Porzio - da Erbil (22.10.07)
L’uscita dall’inferno iracheno è un posto di blocco pochi chilometri a nord dei campi petroliferi di Kirkuk. Sulla garitta sventola la bandiera bianca, rossa e verde con il sole al centro della Regione autonoma del Kurdistan. E i poliziotti di frontiera che setacciano le auto provenienti dal “paese dei sunniti” sono peshmerga, “gli uomini che guardano in faccia la morte”, fiere sentinelle di uno stato di fatto indipendente. Che ora rischia di essere trascinato in un’altra guerra.
Dal 1991, quando l’operazione Tempesta nel deserto costrinse Saddam Hussein a evacuare le province settentrionali e a fermare il genocidio del popolo curdo, i 4 milioni di abitanti dell’“altro Iraq”, un’enclave montuosa grande come la Svizzera, hanno vissuto una vita quasi normale. Hanno eletto un parlamento e un presidente, Massud Barzani. Hanno ricostruito la maggior parte dei 3.839 villaggi rasi al suolo dai bulldozer del rais. E dopo la caduta del regime baathista hanno investito i proventi del greggio nello sviluppo di un’economia tra le più dinamiche della regione.
Ma nei giorni scorsi la bomba a orologeria dell’irrisolta “questione curda” è riesplosa in un’escalation di scontri e di incursioni militari che minacciano di destabilizzare l’unico lembo pacificato della martoriata Mesopotamia. La miccia è stata innescata dai guerriglieri del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che dalle loro basi sui monti Qandil hanno lanciato una serie di sanguinosi raid in territorio turco. L’ultimo, domenica 21 ottobre nel distretto di Hakkari, è finito in un massacro: all’uccisione in un’imboscata di una quindicina di soldati, Ankara ha risposto con l’artiglieria e gli elicotteri, che hanno abbattuto 32 miliziani.
Il Pkk, che il dipartimento di Stato americano e l’Unione europea considerano un’organizzazione terroristica, ha rinunciato alle originarie pretese indipendentistiche. Ma continua a battersi per l’autonomia e per il riconoscimento dei diritti politici e linguistici dei 20 milioni di curdi in Turchia: diritti solo in parte accordati dalle riforme approvate nel 2002 dal parlamento di Ankara su pressione di Bruxelles, che le impose come pre-condizione ai negoziati per l’ingresso nell’Ue. Nel 1999 il rocambolesco arresto del fondatore del Partito “Apo” Abdullah Ocalan, rapito a Nairobi, estradato in Turchia, condannato a morte e poi all’ergastolo, sembrava aver posto fine a una guerra civile che aveva mietuto oltre 37 mila vittime e annientato migliaia di villaggi curdi, distrutti dalle rappresaglie dell’esercito.
Invece, benché indebolito, il Pkk – con l’apporto di un consistente numero di militanti siriani – ha potuto riorganizzarsi nei santuari oltreconfine, approfittando dell’atteggiamento passivo della Casa Bianca nei confronti dei curdi iracheni, alleati di Washington nella decisiva battaglia contro Saddam, puntelli dell’attuale governo di Baghdad e potenziali utili pedine anti-iraniane. Murat Karayilan, il capo dell’ala militare del Pkk, che riceve i giornalisti ai piedi di una parete rocciosa su cui è dipinto un gigantesco ritratto di Ocalan, sostiene di poter contare su 8 mila combattenti e 20 mila volontari pronti ad arruolarsi. “Perché ci definite terroristi se chiediamo gli stessi diritti che sono stati concessi ai curdi iracheni?” afferma Karayilan. “Se la Turchia ci attaccherà ci difenderemo fino all’ultimo uomo”.
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto la settimana scorsa dal parlamento l’autorizzazione a condurre un’offensiva in territorio iracheno. L’opinione pubblica e i generali, irritati dalla mozione del Congresso americano che ha definito “genocidio” lo sterminio degli armeni perpetrato dagli ottomani tra il 1915 e il 1923, premono per una soluzione militare. Ma un’invasione turca su larga scala dell’Iraq settentrionale, osteggiata dagli Stati Uniti e da Baghdad, avrebbe conseguenze devastanti, non solo per il Kurdistan. I rapporti già tesi tra Washington e Ankara, pilastro orientale della Nato, risulterebbero gravemente compromessi, come pure i precari equilibri su cui si regge il governo iracheno. Il prezzo del barile di petrolio, già schizzato oltre la soglia dei 90 dollari, subirebbe ulteriori incrementi se la pipeline tra i pozzi di Kirkuk e il porto turco di Ceyhan fosse danneggiata o sabotata. L’esercito di Ankara, che in passato ha già compiuto una trentina di inconcludenti raid oltreconfine, potrebbe trovarsi impantanato in Kurdistan come gli israeliani nel sud del Libano. E gli ayatollah di Teheran, alle prese con l’irredentismo curdo in Iran, non starebbero a guardare.
I timori di Washington sono giustificati. Dalla base aerea turca di Incirlik transitano il 30 per cento del carburante e il 70 per cento dei materiali destinati ai militari americani impegnati in Iraq e in Afghanistan. Ma i più preoccupati sono i curdi iracheni, che scorgono profilarsi all’orizzonte i funerei presagi di un nuovo conflitto.
L’oasi del Kurdistan sembra lontana anni luce dagli orrori del Triangolo della morte sunnita, dalle quotidiane stragi di civili, dalle mortali faide interreligiose, dai miserabili quartieri senz’acqua e senza luce di Baghdad. Non c’è il coprifuoco. La stampa è libera. La poligamia è stata abolita e le donne non hanno l’obbligo di portare il velo. I marines, se ci sono, non si vedono e gli 80 mila peshmerga prendono disciplinamente gli ordini dal potere politico. Gli occidentali circolano liberamente e i cristiani non sono perseguitati. Nella capitale Erbil (un milione di abitanti), in curdo Hawler, atterrano voli diretti da Dubai, Amman, Beirut, Istanbul, Francoforte e Vienna, mentre 2 miliardi di dollari sono stati investiti per un nuovo aeroporto internazionale, un centro congressi, una nuova rete viaria e per rinnovare la centrale elettrica.
Il boom nel settore edilizio, con oltre 800 milioni di dollari in contratti di costruzione appaltati a società turche, è impressionante. I cantieri sono ovunque e le principali città, Erbil, Dohuk e Sulaymaniah, si sono riempite di ristoranti, alberghi, internet café. I grandi magazzini abbondano di beni di consumo importati: telefonini, televisori, elettrodomestici, computer portatili. I tre atenei (15 mila studenti e 700 professori) funzionano in modo regolare e la società di consulenza McKinsey ha ultimato il progetto di una Università americana privata simile a quelle del Cairo e di Beirut che sarà realizzata entro i prossimi 15 anni alla periferia di Sulaymaniah al costo di 250 milioni di dollari.
Nella hall dello Sheraton di Erbil, luogo d’incontro di imprenditori e businessmen, ha sede la prima banca d’affari curda, Emerald Bank, controllata dal clan del presidente Barzani: “In media” dice il direttore commerciale Hikmut Dagestany “trasferiamo dall’estero non meno di 2 milioni di dollari al giorno”. Al piano di sopra, un plastico rappresenta la città satellite del futuro, Dream City, sogno da 350 milioni di dollari concepito da un consorzio di ditte private curde, libanesi, egiziane e americane: grattacieli in vetrocemento, shopping mall, abitazioni, uffici, parchi, moschee.
Per attirare i capitali stranieri il governo regionale ha varato una legge sugli investimenti che offre incentivi e agevolazioni fiscali. Privo di sbocchi sul mare, il Kurdistan ha puntato sullo sviluppo della rete stradale e dei collegamenti aerei, sul potenziamento delle infrastrutture, del commercio e del turismo, incoraggiato dalla ricchezza dei siti archeologici. Ma non ha trascurato il settore agricolo: le risorse idriche sono abbondanti, clima e suoli sono favorevoli alle coltivazioni e all’allevamento del bestiame. Dopo il petrolio, l’agricoltura è la seconda voce del pil.
I risultati non si sono fatti attendere. I consumi sono cresciuti di conserva all’aumento del prezzo del greggio e del reddito medio, che è triplicato negli ultimi quattro anni sfondando il tetto dei mille dollari pro capite. E gli investitori hanno fiutato l’affare. Cinesi e tedeschi sono presenti nella telefonia fissa e mobile e nella trasmissione dati via internet, gli italiani nella lavorazione dei marmi e nella segnaletica stradale, i turchi nel settore immobiliare e nelle opere pubbliche.
A Sulaymaniah la Cevikler di Ilnur Cevik, direttore del quotidiano turco in lingua inglese New Anatolian, ex consigliere politico di Suleyman Demirel e buon amico di Kak (“fratello”) Massud Barzani e del presidente iracheno (e curdo) Jalal Talabani, ha costruito l’aeroporto internazionale e un convitto per 1.500 studenti; a Erbil ha realizzato un internato universitario, la sede del governo (15 milioni di dollari) e un complesso di case popolari (50 milioni di dollari) su un’area di 500 mila metri quadrati. In cantiere ci sono il nuovo city center, con quattro grattacieli di 30 piani e 5 mila negozi (600 milioni di dollari) e l’acquedotto cittadino (140 milioni), finanziati con la quota del 17 per cento sui proventi petroliferi che l’amministrazione curda riceve da Baghdad.
L’imponente volume degli scambi commerciali e degli interessi economici turchi in Kurdistan è uno dei motivi che spingono Erdogan a raffreddare i bollenti spiriti dei generali di Ankara e a procrastinare un intervento militare che il premier sembra intenzionato a contenere nei tempi e nella portata strategica: un’azione incisiva (60 mila soldati delle unità corazzate sono già schierati alla frontiera), mantenuta però entro i limiti di un’incursione contro le basi del Pkk. O un raid aereo sui monti Qandil. La stabilità del Kurdistan, zona cuscinetto che preserva la Turchia dal caos iracheno, resta pur sempre una priorità del governo di Ankara. Ma è una una stabilità che non è affatto scontata.
Le infiltrazioni dei jihadisti dall’Iran e dalla Siria rappresentano una costante minaccia. A Kirkuk le autobombe e gli attentati kamikaze (l’ultimo lo scorso 11 ottobre) hanno fatto più di cento morti in quattro mesi. Mentre il referendum che dovrebbe sancire l’autonomia del Kurdistan all’interno di uno stato federale, un punto sul quale Barzani e Talabani non intendono cedere, rischia di slittare oltre la data (fine 2007) prevista dalla costituzione irachena. La definizione dell’assetto politico e dei confini amministrativi della regione è per i curdi di capitale importanza. Durante la dittatura Saddam Hussein aveva deportato da Kirkuk e rimpiazzato con coloni arabi decine di migliaia di famiglie curde e turcmene, che ora chiedono di riappropriarsi delle loro terre. Ma la vera posta in gioco sono i pozzi petroliferi di Kirkuk. Gli sciiti che governano a Baghdad, la Turchia e i paesi arabi non sono disposti a cedere ai curdi il controllo dei più ricchi giacimenti di greggio dell’Iraq settentrionale.