Giovanni Porzio – da Kimberley, Sud Africa (29.09.05)
E’ come il cratere spalancato da un gigantesco meteorite, con le pareti rocciose che strapiombano nel lago della falda acquifera, di un verde intenso. Una voragine profonda 215 metri, che invisibili gallerie sotterranee hanno sondato fino a 820. Più di un chilometro e mezzo di circonferenza: sullo sfondo i grattacieli di Kimberley sembrano giocattoli di Lego contro il vasto orizzonte africano. Con la Muraglia cinese e le piramidi egiziane è una delle rare opere dell’uomo che si distinguono a occhio nudo dallo spazio.
I minatori zulu e matabele lo chiamavano Umgodi Kakulu, il “Grande Buco”. Dalle sue viscere, con pale e picconi, hanno estratto 23 milioni di tonnellate di terra. E 2.722 chili di abbacinanti pietre. Diamanti d’ogni forma, dimensione e colore. Diamanti che hanno generato immense fortune, provocato rovinose disgrazie, alimentato folli sogni di conquista e scritto l’epopea dell’ultimo impero dell’età moderna: De Beers Consolidated Mines Inc., l’onnipotente cartello della famiglia Oppenheimer che attraverso un’intricata rete di consociate domina da oltre un secolo tutti i settori del mercato mondiale, dalla produzione al commercio, dall’esplorazione all’andamento dei prezzi. Senza contare gli usi industriali, il giro d’affari dei diamanti da gioielleria supera i 60 miliardi di dollari l’anno.
“E tutto è cominciato qui, nel lontano 1871” dice Steve Lunderstedt affacciandosi sul precipizio del Grande Buco. Steve è un ex paracadutista rhodesiano che ha combattuto in Angola e in Mozambico prima di finire a Kimberley, stregato dalle gemme e dalla storia della città mineraria, su cui ha pubblicato una mezza dozzina di libri. “Era una calda sera di luglio. Da cinque anni le pianure alluvionali dell’Orange e del Vaal, il “fiume grigio”, pullulavano di cercatori accorsi da ogni parte dopo la scoperta di Eureka, un diamante di 21 carati trovato per caso da un ragazzino quindicenne, Erasmus Jacobs, e della Star of South Africa, una gemma di 83 carati raccolta da un pastore. Quella sera Fleetwood Rawstorne, figlio di un magistrato di Colesberg, si era spinto a cercare più all’interno, nell’arido veld, sul terreno di una fattoria di proprietà di un arcigno colono boero, Nicolaas de Beer. Il servo ottentotto di Rawstorne, Damon, si era preso una sbronza di Cape Smoke, il brandy del Capo, ed era stato cacciato fuori dalla tenda a scavare su un kopje, un’altura battuta dal vento. Poco dopo si ripresentò con le mani colme di pietre lucenti. Aveva scoperto la più ricca miniera di diamanti del mondo”.
La notizia si diffuse in un baleno. Migliaia di cercatori abbandonarono gli accampamenti sui fiumi e in preda a una febbrile eccitazione si lanciarono a cavallo, a piedi, a bordo di carri trainati da buoi verso la fattoria del vecchio De Beer. In pochi giorni il “Colesberg kopje” fu picchettato e suddiviso in 800 concessioni di 10 metri per lato. Era l’inizio del “new rush”, la nuova corsa ai diamanti. “De Beer” continua Steve “era un olandese profondamente religioso. Disgustato da quell’avida torma di avventurieri, finì per vendere la fattoria per un’inezia: seimila ghinee, 30 mila sterline. La collinetta si trasformò in un avvallamento, poi in un abisso senza fondo, fino al suo esaurimento nel 1914. Ma il Grande Buco non era l’unico: ce n’erano altri quattro, enormemente produttivi, e undici camini secondari”.
Kimberley è oggi una sonnolenta e ordinata cittadina di 200 mila abitanti nella sterminata provincia sudafricana del Northern Cape. Ma all’epoca del “rush” era un avamposto di frontiera in tumultuoso sviluppo. Gli archivi del Diamond Fields Advertiser, il quotidiano fondato nel 1878, e la documentazione conservata negli scaffali della Africana Library raccontano con abbondanza di dettagli l’ambiente e la storia di quel nuovo Eldorado. Il miraggio di una fulminea ricchezza attirava orde di cercatori dall’Europa, dall’Australia e dall’America: avanzi di galera e funzionari coloniali, soldati di ventura e commercianti ebrei, missionari di dubbia fede e marinai in congedo, giocatori d’azzardo e affaristi senza scrupoli. La competizione era selvaggia. Le liti nelle baracche di lamiera ondulata che spacciavano alcolici finivano a coltellate. Nelle taverne si aggiravano loschi individui: ladri, contrabbandieri, compratori illegali che rischiavano la forca o il linciaggio per un pugno di diamanti.
I registri della polizia elencano una serie impressionante di omicidi e fatti di sangue. Due a caso: nel ‘73 un garzone sospettato di aver trafugato una pietra è frustato a morte dai padroni; il 28 novembre ‘76 Jacob Hendriks, minatore accusato di furto, è ucciso da un malese ubriaco fradicio. Fra i 30 mila “diggers” ammassati nelle stamberghe e in luride tende di tela inglese scoppiavano tumulti, incendi, epidemie di tifo e di colera. Le estati erano torride, gli inverni gelidi, il cibo scarso, l’acqua un bene pagato a caro prezzo.
In Stirpe di uomini, il romanzo che è una cronaca fedele di quei giorni, Wilbur Smith descrive con piglio da reporter l’infernale girone del Grande Buco: “Bisognava avanzare su vacillanti passerelle tese sopra il profondo pozzo di una concessione o arrampicarsi su per oscillanti scale di corda o calarsi giù per una scala di legno, due lunghi pali messi insieme con pioli che cigolavano e spesso cedevano sotto il peso di un uomo”. I minatori neri erano pagati 5 scellini la settimana e dopo tre anni ricevevano un fucile. Arrotondavano il salario trafugando diamanti: li ingoiavano, li nascondevano sotto le palpebre, nell’ano, nelle ferite che si autoinfliggevano. Alla fine furono segregati in recinti sorvegliati da guardie armate: prima della scadenza del contratto venivano denudati e purgati per eseminarne le feci.
Tra i cercatori bianchi che nell’ottobre 1871 si dannano nel Grande Buco c’è anche un corpulento ragazzo di 17 anni, cagionevole di salute ma deciso a farsi largo con ogni mezzo nella brutale lotta per il controllo delle miniere: Cecil John Rhodes, settimo figlio del reverendo Francis Rhodes e della sua seconda moglie, Louisa. L’uomo che avrebbe dato il nome a due stati africani (la Rhodesia, oggi Zimbabwe, e la Rhodesia del nord, l’attuale Zambia), il fondatore dell’impero De Beers, l’implacabile alfiere del colonialismo britannico, il confidente della regina Vittoria e di Lord Rothschild, il magnate dell’oro, il Re di diamanti, non è che un giovane squattrinato dotato di una volontà di ferro e di un incomparabile senso degli affari. Sbarca il lunario vendendo ghiaccio e gelati. Ma ha grandi progetti. E sa come metterli in pratica.
La fase eroica e spontanea del “rush” è già al tramonto. I lavori richiedono crescenti investimenti per le attrezzature, gli scavi, le pulegge a vapore, le provviste, gli stipendi. Schiacciati dai debiti, i meno fortunati sono costretti a svendere le concessioni. E Rhodes le compra per una manciata di sterline. Quando sul fondo del Grande Buco i picconi si rompono contro una parete bluastra, i diggers si convincono che il filone è esaurito. Ma Rhodes ha un’intuizione: benché in profondità la kimberlyte che racchiude i diamanti sia più compatta e scura, la sua composizione chimica non cambia e a contatto con l’atmosfera è destinata a sbriciolarsi. Acquista tutto a prezzi stracciati e nel 1880, con alcuni soci, fonda la De Beers Mining Company.
L’ultimo ostacolo è un estroso e geniale ebreo londinese: Barney Barnato, nato Barnett Isaacs, la cui Central Diamond possiede i migliori lotti al centro del Buco. Lo scontro è inevitabile, senza esclusione di colpi. “Ogni uomo ha un prezzo” sostiene Rhodes, forte dell’appoggio finanziario dei Rothschild. Quello di Barney è un assegno di 5 milioni 338 mila e 650 sterline staccato il 18 luglio 1889 negli uffici della Standard Bank di Kimberley in liquidazione della Central; e il posto di governatore a vita della neonata De Beers Consolidated Mines, che ormai controlla il 90 per cento della produzione mondiale di diamanti.
L’assegno che sancì la nascita del monopolio è incorniciato accanto ai ritratti dei padri fondatori nell’ovattata sala riunioni al piano terra del quartier generale della De Beers, al 36 di Stockdale street, dove quattro volte l’anno i 18 direttori della multinazionale si riuniscono in conclave intorno a un tavolo di teak foderato di cuoio. Ma è a qualche isolato di distanza, in Warren street, nella sede della prima società di Rhodes, che lo storico accordo con Barnato prese forma, nel marzo 1888.
Kimberley, a quell’epoca, si era già trasformata. Erano sorte chiese, moschee, singoghe e un tempio massonico. Le vie erano rischiarate dalla luce elettrica. C’erano un ippodromo, un campo di cricket, due giornali, la biblioteca, l’ufficio postale, il commissariato, i pompieri e la stazione ferroviaria. Sulle strade principali si aprivano le botteghe dei gioiellieri e dei farmacisti, dei calzolai e degli spacci alimentari, dei fotografi e dei barbieri, dei rivenditori di armi e degli assicuratori, dei panettieri e dei birrai. Negli alberghi si faticava a trovare una stanza libera. E le insegne dei bar si moltiplicavano: Gog and Magog, Old Cock, Red Light, Noah’s Ark, Star of the West. Prostitute e entraîneuse d’alto bordo, come la leggendaria Diamond Lil, stappavano bottiglie di champagne ai tavoli da gioco.
C’erano anche un paio di italiani: lo scultore Achille Bocciarelli, autore delle statue femminile che ornano il frontone del museo; e Bernardo Ferraris, da Cuneo, proprietario del Corner, all’incrocio di Pniel e Thompson road, l’unico negozio che vendeva spaghetti e maccheroni. “Bernardo” racconta il bisnipote Darren “fu poi tra i fondatori del Buffalo Club, a quei tempi molto in voga: era la sede della Diamond Lodge, una delle prime logge massoniche di Kimberley”.
Rhodes, che frequentava l’esclusivo Kimberley Club ma non disdegnava un sorso di whisky alla ruspante Half Way House, era all’apogeo del potere e della fama. Eletto primo ministro della Colonia del Capo, aveva indotto il parlamento a concedere alla De Beers i diritti esclusivi di sfruttamento di tutte le ricchezze minerarie nei domini della Corona britannica. Quando morì, appena quarantanovenne nel 1902, la De Beers era già nel mirino di un giovane ebreo di buona famiglia tedesca: Ernest Oppenheimer, il capostipite della dinastia che ancora oggi governa l’impero dei diamanti.
La scalata di Ernest, che nel 1912 era già sindaco di Kimberley e nel 1917 registrava a suo nome l’Anglo-American Corporation, si concluse vittoriosamente alla vigilia della Grande depressione del ’29 con la nomina a presidente della De Beers. Uno scettro che passerà di padre in figlio: da Ernest a Harry, nel 1957; da Harry a Nicky, nel 2000. Il cartello, che nel lungo regno di Harry lancia il fortunato slogan “Un diamante è per sempre”, guadagna quote di mercato e assume una fisionomia planetaria: diversifica gli investimenti e la produzione, stringe accordi con banche e governi, fissa i prezzi, sviluppa nuove tecnologie estrattive, acquisisce giacimenti d’oro, uranio, zinco, rame, ottiene vantaggiose concessioni in Botswana, Angola, Canada, Australia, Congo, Namibia. Riesce persino a convincere i sovietici a vendere l’intera produzione annuale di diamanti siberiani alla “multinazionale dell’apartheid”: a patto che non si sappia e che le transazioni avvengano tramite una delle oltre 300 società finanziarie degli Oppenheimer con sede in Svizzera o in Lussemburgo.
Le frontiere del “diamond rush” sono ormai Johannesburg, Londra, New York, Shanghai. Kimberley, dove le ultime miniere hanno cessato la produzione il 15 agosto, lotta invece per non cadere in un oblio popolato di ricordi e di fantasmi. Molte case, si dice, sono animate da inquietanti presenze. “Quando non trovo un libro” assicura Shirley James, l’arzilla bibliotecaria dell’Africana Library, “mi dà una mano il vecchio Bertram Dyer, che si suicidò con l’arsenico, nel 1908”. Non c’è da stupirsi: il conto dei morti nei cinque cimiteri cittadini supera di gran lunga quello dei vivi. E nei cantieri le ruspe continuano a dissotterrare gli scheletri dalle fosse comuni.
Passato e presente si confondono. Dormo nella camera di Sir Ernest Oppenheimer, nella villa al n° 7 di Lodge road dove nacque Harry, oggi trasformata in albergo. E il cottage accanto è la saltuaria residenza di Nicky e di sua moglie Orcillia. Il bordello più frequentato all’epoca di Rhodes si è riciclato in un’agenzia di escort: Diamond Girls. Al Kimberley Club un maggiordomo mostre le suite che negli anni Quaranta ospitarono la famiglia reale inglese, mentre al bar dove un tempo si barattavano le concessioni i dirigenti della De Beers scolano pinte di birra ghiacciata in attesa dell’ultimo fixing dell’oro alla Borsa di Londra.
Il presente è ancora la De Beers. E più esattamente l’HOH (Harry Oppenheimer house), il grattacielo della Diamond Trading Company dove converge la totalità dei diamanti grezzi sudafricani: “14,8 milioni di carati negli ultimi 12 mesi” precisa il direttore generale Paul Rowley “per un valore di 1,3 miliardi di dollari”. Le pietre arrivano ogni mattina in cassette sigillate con quattro voli privati, vengono scortate in auto blindate nei sotterranei dell’edificio e salgono con un montacarichi all’ultimo piano. Subiscono vari processi: bagni in acido idrofluoridico, lavaggio, pesatura elettronica. Sono poi suddivise in migliaia di differenti categorie in base alle dimensioni, alla forma, al colore, al grado di purezza con l’ausilio di filtri, piani vibranti, spettrometri. E infine analizzate con strumenti ottici di precisione da un collaudato team di esperti. “Ogni diamante” spiega Rowley “può essere esaminato dieci volte”. Le finestre, su un solo lato del palazzo, sono inclinate in modo da catturare la luce più idonea. Un computer centrale controlla le fasi della lavorazione, stabilisce il prezzo finale e rileva ogni minima variazione del peso di un lotto in ogni singolo istante: se scatta l’allarme le porte automatiche si chiudono e il grattacielo si trasforma in una cassaforte.
David Noko, manager delle miniere di Kimberley, che dal 2006 sarà il primo nero a dirigere la De Beers Consolidated Mines, per 76 anni feudo esclusivo degli Oppenheimer, è convinto che la città abbia ancora un futuro. “Abbiamo cessato le attività improduttive e un migliaio di operai è rimasto a casa. Ma siamo ancora, dopo il governo, i principali datori di lavoro con 1.800 dipendenti; stiamo finanziando il progetto per trasformare il Grande Buco in un parco a tema, con l’obiettivo di attirare 200 mila turisti l’anno; e ci sono ancora quelle montagne la fuori da setacciare”.
Le montagne sono i giganteschi depositi di kimberlyte accumulati in 130 anni di scavi: 150 milioni di tonnellate di scarti che le attuali tecnologie di ricerca hanno reso appetibili. “I disoccupati, comunque, non saranno reintegrati” commenta amaro Scotty Ross, ex minatore. “I nuovi impianti sono completamente automatizzati”. Alla Combined Treatment Plant, inaugurata nel 2002, una squadra di venti tecnici e ingegneri è in grado di trattare 20 mila tonnellate giornaliere con una resa media di 4.600 carati. Nel bunker della Recovery tower, un parallelepipedo di cemento armato senza aperture alto 16 piani, software di ultima generazione manovrano nastri trasportatori, carrelli robotizzati, sifoni di aria compressa, scanner magnetici ed elettronici, sensori, separatori a raggi laser e 890 telecamere a circuito chiuso collegate a un impenetrabile sistema di sicurezza. La procedura per accedere alla “zona rossa”, il cuore dell’impianto, prevede tessere di riconoscimento, codici segreti, porte automatiche blindate, tunnel sotterranei, palpazioni corporali e radiografia ai raggi X.
Willi Fritz se ne frega delle procedure. Non si è mai fatto assumere dalla De Beers. E’ uno dei liberi cercatori di diamanti nelle pianure alluvionali del Vaal. Una razza a parte: gente con la faccia cotta dal sole e dal vento, con gli occhi duri, le mani ruvide spaccate dalle pietre e il fucile a ripetizione nel baule del pick-up. Devono giocare sporco: per non perdere la concessione e pagare i debiti riciclano i diamanti angolani di contrabbando.
La casa di Willi è una baracca di mattoni circondata dal filo spinato e gli attrezzi sono quelli di sempre: piccone, badile, centrifuga, setacci. Scava in un buco di terra rosso sangue. “Come facevano nonno Peter, immigrato dalla Germania, e papà Benjamin” spiega. “Come fa mio figlio Alex”. E’ dallo scorso dicembre che non trova diamanti. Ma continua a sperare: “Una sola pietra buona. Una sola dannata pietra. E la mia vita può cambiare”.
BOX 1
Il più celebre è il Koh-i-Noor, la Montagna di luce, il diamante indiano incastonato nella corona della regina Elisabetta. Il più grande è il Cullinan, 3.106 carati, trovato il Sud Africa nel 1905. Il più limpido e pregiato è il Millenium Star, di proprietà della De Beers. Il più romantico, quello donato da Richard Burton a Liz Taylor: un regalo da 10 milioni di dollari.
I diamanti, il più duro elemento naturale conosciuto, sono rari frammenti di carbone cristallizzatisi ad altissima temperatura e pressione nelle profondità della terra (150-175 km) in un periodo compreso tra i 20 milioni e i 2,5 miliardi di anni fa e portati in superficie dal magma nel corso di successive eruzioni attraverso camini verticali che salendo si allargano a fungo. E’ in questo magma solidificato (kimberlyte) che si celano le preziose pietre.
Il loro valore è determinato da quattro parametri fondamentali, le quattro C: carat (peso espresso in carati), clarity (purezza), colour (tonalità del cristallo, cut (taglio).
Il carato, termine derivato dai semi di carrubo utilizzati un tempo per pesare i diamanti, corrisponde a 0,2 grammi e si suddivide in 100 punti: una pietra di 25 punti equivale perciò a un quarto di carato.
Quasi tutte le gemme contengono inclusioni di carbone non cristallizzato invisibili a occhio nudo: il grado di purezza è correlato alla loro presenza.
I diamanti possono avere sfumature di ogni colore, ma la maggior parte varia dal giallo tenue ai rari bianchi definiti “senza colore”. Ancor più rare sono le pietre dai riflessi rossi, verdi, azzurri e ambrati.
Decisivo è il taglio: ogni sfaccettatura deve catturare la luce e rifletterla nell’altra, fino a disperderla dalla sommità della gemma. Il Tiffany, trovato nel 1877 a Kimberley, fu intagliato a Parigi dal gemmologo George Kunz in un perfetto “cuscino” di ben 90 facce.
BOX 2
La De Beers controlla ancora il 50 per cento dell’industria mondiale dei diamanti ed è sempre in grado di determinare le quotazioni di mercato: nel 2004 ha imposto un aumento del 14 per cento dei prezzi e del 7 per cento nei primi mesi del 2005. Ma non ha più il monopolio assoluto della produzione. Nell’ultimo decennio l’impero degli Oppenheimer ha dovuto arretrare di fronte alla concorrenza di agguerrite società minerarie come Bhp Billiton, Rio Tinto, la russa Alrosa e di spregiudicati tycoon come Lev Leviev, l’israeliano di origine uzbeka che è oggi il maggiore mercante di gemme del pianeta. Fu lui il primo ad aggirare il cartello, seguito dalla Rio Tinto che nel 1996 decise di vendere 42 milioni di carati di diamanti grezzi ai tagliatori di Anversa senza passare per la De Beers. Leviev, buon amico di Vladimir Putin e di Ariel Sharon, domina il settore del taglio in Israele e in Russia, possiede miniere in Siberia, Angola, Namibia, Canada, Australia.
I “diamanti insanguinati”, le pietre di contrabbando che per anni hanno alimentato il traffico di armi e di droga in paesi in guerra come il Congo, la Liberia, l’Angola e la Sierra Leone (un traffico in gran parte controllato dalla mafia libanese e sfruttato anche da al-Qaeda per finanziare il terrorismo), hanno rappresentato un serio problema d’immagine per la De Beers, accusata di fare incetta di gemme di dubbia origine. Gli Oppenheimer hanno reagito promuovendo il “Kimberley process”, un sistema di certificazione di origine delle pietre (vi partecipano 67 stati, industrie e ong) che ha dato buoni risultati, anche se al monitoraggio ancora sfuggono gran parte dei diamanti alluvionali e i commerci illeciti nelle zone più inaccessibili dell’Africa.
Per mantenere la leadership la De Beers investe somme stratosferiche nelle nuove tecnologie (la ricerca sottomarina in Namibia), nei nuovi giacimenti (i territori del nordovest canadese) e sui nuovi mercati. Gli Usa sono ancora i principali acquirenti, seguiti dall’Europa (l’Italia è al primo posto con una quota continentale del 30 per cento: 10 milioni di italiani possiedono un esemplare di piccola o media dimensione), dal Medio Oriente e dal Giappone. Ma le frontiere del futuro sono l’India, che ha soppiantato Anversa come principale centro d’intaglio, e soprattutto la Cina, dove il diamante e diventato uno status symbol. Nel 2004 le vendite nella Repubblica popolare sono cresciute dell’11 per cento. E a Shanghai otto spose su dieci portano al dito un anello di diamanti.