Fallujah’s toxic legacy
Giovanni Porzio da Fallujah e Baghdad
Le truppe americane si sono ritirate, lasciando nelle loro basi strategiche in Iraq un numero top secret di consiglieri e di forze speciali. Ma a Fallujah, la roccaforte sunnita sull’Eufrate che i marines avevano battezzato l’antro del male, le loro bombe non hanno smesso di uccidere. A più di sette anni dalla devastante operazione Phantom Fury che nel novembre 2004 rovesciò sulla città un diluvio di ordigni al fosforo bianco e di proiettili all’uranio impoverito ad alta penetrazione, il tasso di mortalità infantile, di malformazioni genetiche, di cancro, di leucemia e di aborti spontanei supera quello registrato tra i sopravvissuti all’attacco nucleare del 1945 su Hiroshima e Nagasaki.
L’allarme era già stato lanciato nel 2010 da un team di undici ricercatori inglesi e arabi. La loro indagine (Cancer, Infant Mortality and Birth Sex-Ratio in Fallujah, Iraq 2005-2009), realizzata su 4.800 abitanti, giunge a conclusioni sconvolgenti: i casi di leucemia sono cresciuti di 38 volte, 12 volte quelli di tumori nei bambini con meno di 14 anni, mentre è decuplicato il numero delle donne affette da cancro al seno. A Fallujah la mortalità infantile è quattro volte più alta che in Giordania e di otto volte superiore a quella del Kuwait. La proporzione maschi-femmine alla nascita, che di norma è 1.050 maschi per 1.000 femmine, è scesa a 850 maschi per 1.000 femmine ed è un indicatore certo di un danno cromosomico. “Per produrre un simile effetto” afferma uno degli autori dello studio, Chris Busby dell’University of Ulster, “dev’essersi verificata una massiccia esposizione ad agenti mutageni”.
La dottoressa Inas Shakri mi accompagna in un reparto del Fallujah General Hospital. “Abbiamo molti casi di malformazioni genetiche” dice. “Quasi tutti muoiono a poche ore dalla nascita”. Nelle incubatrici ci sono due neonati di cui non è possibile stabilire il sesso. E nel computer del direttore sanitario sfila un’agghiacciante galleria degli orrori: mostri a due teste, bambini con un solo occhio sulla fronte e con una sola gamba, altri con il cuore e i visceri esterni al corpo.
Maadh, 6 anni, è sopravvissuto con un danno cerebrale: è spastico e sordomuto. Suo padre Hamid, guardia giurata, lo imbocca con le mani nel salotto della casa dove vive con uno stuolo di parenti. “Durante l’attacco” racconta “i caccia americani hanno colpito un edificio a 200 metri da qui. Siamo stati investiti da una nube bianca, l’abbiamo respirata. Forse è per questo che mio figlio è così”. Anche Abdallah, il figlio del vicino di casa, 7 anni appena compiuti, è cerebroleso: ha il palato spaccato e non parla.
C’è molta rabbia tra gli abitanti di Fallujah. Il sergente delle forze speciali della polizia che comanda la mia scorta insiste per farmi vedere i due cimiteri della città: in quello “dei martiri” ci sono 4 mila tombe, 1.200 senza nome; in quello “nuovo”, una polverosa spianata alla periferia, le fosse comuni dove i bulldozer hanno sepolto 400 cadaveri non riconosciuti. E accanto una distesa interminabile di sepolcri spazzati dal vento e di lapidi con i nomi dei bambini morti dopo il 2004.
“Nessuno ci aiuta” dice il dottor Talib Janabi, responsabile dell’unico ospedale privato rimasto aperto durante l’attacco americano. “Nessuna Ong, nessun donatore, e tanto meno il governo di Baghdad”.
Nell’ex “Triangolo della morte”, la provincia a maggioranza sunnita di Anbar, il risentimento nei confronti del governo centrale dominato dalle fazioni sciite è palpabile. Maamun Sami Rashid, il governatore, è esplicito: “Vogliamo più autonomia e un sistema federale, come previsto dalla costituzione. Abbiamo petrolio e gas e ci manca la corrente elettrica! Tutti i progetti di sviluppo devono passare da Baghdad, che controlla le nostre frontiere e non investe un soldo nemmeno per la sicurezza: abbiamo solo 9 cani anti-esplosivo, non disponiamo di radar e di tecnologia elettronica. Persino le nomine degli ufficiali di polizia devono essere approvate dal governo centrale”.
Ancora più battaglieri sono gli sceicchi delle ricca e potente tribù al-Dulaimi, spina dorsale del movimento del Risveglio, le brigate armate e sponsorizzate dal Pentagono che hanno combattuto e neutralizzato – almeno in buona parte dell’Anbar – le cellule di al-Qaeda. “Gli americani se ne sono andati a missione incompiuta” affermano. “Ci hanno lasciato una democrazia di facciata. Non c’è trasparenza, la corruzione dilaga, i media sono imbavagliati e un solo uomo, Nuri al-Maliki, il nuovo Saddam, controlla tutti i ministeri chiave, le finanze, l’esercito, la polizia, la giustizia, i servizi segreti”.
Lo sceicco Ahmed Buzaigh Abu Risha, che mi riceve nella sfarzosa “mudhifa”, la sala delle udienze della suo compound fortificato di Ramadi, presiede il Consiglio per la salvezza dell’Anbar e guida il movimento del Risveglio: funzioni che ha ereditato dal fratello, lo sceicco Sattar Abu Risha, ucciso da un commando di al-Qaeda nel 2007, dieci giorni dopo avere stretto la mano di George W. Bush in una base aerea americana.
Mi accoglie con una battuta: “Non mi chieda se il Risveglio ha avuto successo. Conosce già la risposta: è arrivato fin qui e ha ancora la testa sul collo!”
“E le autobombe della scorsa settimana? Più di 30 morti e un centinaio di feriti in sei città, compresa Ramadi?”
“Attentatori pagati da Tehran e da Damasco per distogliere l’attenzione dalla Siria. Non è la sicurezza che mi preoccupa. Il problema è che abbiamo 500 km di acqua dall’Eufrate e mancano le irrigazioni per l’agricoltura, mancano le infrastrutture, i trasporti, le centrali elettriche. Il problema sono i ministri incompetenti, il settarismo religioso, un’amministrazione corrotta e incapace. Persino la provincia sciita di Bassora vuole liberarsi dalla dittatura di Baghdad!”
Nella capitale le divisioni politiche e religiose, esasperate dalla primavera araba (il governo appoggia le rivolte sciite in Bahrain, i sunniti sono schierati con la resistenza siriana), sono visibili a occhio nudo. I quartieri sciiti sono circondati da muraglie di cemento armato e da posti di blocco con i vessilli neri del martire Hussein e i ritratti di Muqtada al-Sadr, che dalla sua residenza iraniana di Qom lancia strali al rivale al-Maliki. Il quale, già ai ferri corti con il curdo Massud Barzani, accusato di trattare accordi petroliferi con la Exxon Mobil, si è sbarazzato del vice premier sunnita Tareq al-Hashemi, inseguito da un mandato di cattura per attività terroristiche e costretto a fuggire in Turchia.
A Mansur, quartiere della borghesia sunnita, e nelle zone commerciali attorno a Karrada street sorgono nuovi alberghi, concessionarie di automobili di lusso, negozi di elettronica e di abbigliamento, ristoranti, società di import-export e di telefonia mobile. Segno che il motore dell’economia – nonostante i continui blackout di corrente, lo sfascio delle infrastrutture e del settore agricolo, la paralisi istituzionale, la fuga dei cervelli, l’endemica insicurezza, la povertà diffusa, il traffico bloccato da centinaia di check point e la presenza in ogni strada di poliziotti e militari in assetto di guerra – ha ricominciato a ingranare. Anche se soprattutto a vantaggio di chi ha accesso alle stanze del potere.
Il Pil aumenta al ritmo del 2,6 per cento, gli introiti e la produzione di petrolio (2,6 milioni di barili al giorno, 93 per cento del bilancio dello stato) sono in crescita e le grandi compagnie, Eni compresa, stanno tornando alla carica.
Ma resta, minacciosa sul futuro, l’incognita dell’incertezza politica. Il simulacro della democrazia irachena rischia ogni momento di disgregarsi e di spingere l’Iraq nell’abisso di una nuova guerra civile. I segnali dell’involuzione autoritaria del “nuovo Saddam” si moltiplicano: la persecuzione degli oppositori politici, le intimidazioni nei confronti della stampa, il nepotismo e il clientelismo sfrenato, l’impiego sistematico della tortura – denunciato dalla Croce Rossa internazionale – nelle prigioni della Zona verde gestite dalla Baghdad Brigade – l’unità speciale creata da al-Maliki nel 2008 – , la caccia all’uomo nei confronti degli omosessuali, dei giovani punk e dei “satanici” emo (almeno 15 ragazzi sono stati uccisi nelle ultime settimane e i loro cadaveri, con il cranio sfondato da blocchi di cemento, gettati nelle strade). Senza contare i bilanci pubblici in cui scompaiono miliardi di dollari e le mazzette pretese per aggiudicare gli appalti.
Per evitare una spaccatura della coalizione al potere, raffreddare gli ardori dei sadristi di Muqtada e far fronte alle pressanti richieste di autonomia delle province, il premier enfatizza a piè sospinto il pericolo sunnita. Ma così facendo rinuncia a ogni residua velleità di riconciliazione nazionale. Se n’è accorto anche il vecchio saggio di Najaf, il grande ayatollah Ali al-Sistani, massima autorità spirituale degli sciiti iracheni, che da tempo si rifiuta di incontrare al-Maliki e i ministri del governo di Baghdad.