Facing Boko Haram
La linea del fronte attraversa i monti Mandara: una distesa di alture rocciose sotto un cielo oscurato dall’harmattan, il rovente vento di sabbia. Non è facile arrivarci. Per superare il check point di Mokolo, polverosa cittadina di frontiera, ho dovuto barare con i soldati di guardia spacciandomi per un operatore umanitario impegnato in un sopralluogo: i giornalisti non sono graditi in questo lembo sperduto dell’estremo nord del Cameroun. E la strada che s’inerpica sulle colline è un tratturo sterrato dove la vecchia Toyota arranca sui massi dilavati dalle piogge fino a sbucare in un ampio altopiano: campi di miglio inariditi, orti abbandonati, capanne di fango con i tetti di paglia o di lamiera ondulata.
Il villaggio di Mabass è nel cuore della zone rouge, la fascia al confine nigeriano dove l’esercito camerunese combatte la “sporca guerra” contro i jihadisti di Boko Haram. Dal colle dell’avamposto militare, mimetizzato tra gli alberi, si vede la pista che conduce a Gwoza, l’effimera “capitale” del califfato africano, a soli 5 chilometri. Si sentono, a intervalli regolari, colpi di mortaio e sordi boati, attutiti dalla spessa bruma che sale dalla pianura. La guarnigione è sul chi vive. In gennaio le milizie di Abubakar Shekau sono piombate su Mabass seminando morte e distruzione.
“Era una domenica, alle 6 del mattino, e stavamo dormendo” racconta Magawa Nouhani, 30 anni, padre di sei bambini. “Hanno circondato il villaggio. Poi sono entrati, sparando e gridando Allahu akbar! Avevano il volto coperto dal turbante e alcuni indossavano una tuta militare. Erano divisi in tre gruppi: uno incendiava le case, un altro uccideva, il terzo catturava chi cercava di scappare”. Nell’attacco, durato quattro ore, otto civili sono stati massacrati e una settantina di uomini, donne e bambini sono stati rapiti. “Io mi sono nascosto in una grotta” continua Nouhani. “Ho perso la casa e 40 sacchi di mais. Quasi tutto è andato in fumo”.
Cammino tra le capanne incenerite, oltre le rovine calcinate della scuola, fino ai ruderi anneriti della chiesa battista. Il governo ha dispiegato a Mabass i reparti scelti del Bir, il Battallion d’intervention rapide, e ha inviato aiuti alimentari d’emergenza. Ma il numero degli sfollati e dei profughi continua ad aumentare. Mentre gruppi di jihadisti, che in seguito all’offensiva delle forze nigeriane, ciadiane e nigerine hanno dovuto evacuare i santuari sulle rive del lago Ciad e il distretto di Gwoza, stanno ripiegando nei recessi dei monti Mandara, percorsi da un complesso sistema di tunnel e di caverne.
Le infiltrazioni e le imboscate sono frequenti. Il giorno di Pasqua un contingente nigeriano impegnato in un’operazione antiterrorismo ha sconfinato a poca distanza da qui e le difese nella vicina base camerunese di Kolofata, teatro di ripetute incursioni, sono state rafforzate. “Viviamo nel terrore” dice il lauan, il capovillaggio. “Quei diavoli possono arrivare all’improvviso e trucidare i nostri bambini. I soldati ci poroteggono ma non sono ovunque: il territorio è troppo vasto”.
Nessuno degli uomini sequestrati in gennaio a Mabass è tornato. Ma Pascaline è riuscita a evadere. “Mio marito” racconta “è morto nell’attacco. Noi siamo stati costretti a seguire i miliziani fino a un villaggio nigeriano, a quattro ore di marcia. Eravamo chiusi in un recinto: donne e bambini, perché gli uomini e i ragazzi dagli otto ai vent’anni sono stati portati altrove, per addestrarli a combattere. Ci davano solo una scodella d’acqua al giorno e una minestra di frutti di baobab, senza sale. Per quasi due mesi non abbiamo potuto lavarci. Alcune donne sono scappate scavalcando la recinzione. Io sono fuggita di notte, attraverso un buco che avevamo scavato nel muro di fango della capanna. Ho camminato nella boscaglia fino all’alba, verso le colline, con i miei due figli in braccio”.
Pascaline è stata fortunata. I killer di Boko Haram, che uccidono “nel nome di Allah il clemente, il misericordioso”, non hanno pietà per chi non si sottomette alla legge del Califfato. A Gwoza decine di anziani sono stati abbattuti nel macello comunale. Nella cittadina di Damasak, dove centinaia di bambini mancano all’appello, sono stati scoperti i cadaveri di oltre cento civili: sgozzati, decapitati, gettati nei pozzi. A Buni Yadi, nello stato di Yobe, 59 studenti sono stati trucidati nel sonno nel dormitorio della loro scuola. E a un anno dal loro sequestro non si conosce la sorte di oltre 200 ragazze rapite a Chibok, nel nordest del Borno.
La guerra santa dichiarata nel 2009 dai fanatici di Boko Haram ha già mietuto 20 mila vittime e costretto alla fuga due milioni di sfollati. I jihadisti, dai sei a diecimila combattenti bene armati e pronti al martirio, hanno raso al suolo decine di villaggi, bombardato e distrutto scuole, chiese, moschee, edifici pubblici e caserme, sbaragliando l’inetto e corrotto esercito regolare, occupando gran parte del nordest nigeriano e penetrando nei Paesi limitrofi. Nel solo mese di febbraio hanno massacrato 81 persone (30 mentre pregavano in una moschea) a Fotokol, cittadina al confine settentrionale del Cameroun, hanno rapito venti passeggeri di un autobus in territorio camerunese e lanciato un sanguinoso raid sul villaggio ciadiano di Ngouboua. In marzo una serie di attentati ha sconvolto Maiduguri, la capitale del Borno, da anni nel mirino dei fondamentalisti: i kamikaze, tra cui una bambina di 10 anni imbottita di esplosivo, hanno provocato 90 morti e centinaia di feriti in due affollati mercati. I metodi brutali della setta islamista alimentano l’esodo dei civili, che lo stato nigeriano – prima economia del continente e ottavo esportatore mondiale di petrolio – non è in grado di proteggere.
Nel campo profughi di Minawao, gestito dall’Unhcr, il caldo è soffocante. “In quattro mesi la popolazione è più che raddoppiata” afferma Joseph, uno dei responsabili della sicurezza. “Abbiamo registrato 35 mila nigeriani, tra i quali 17 mila ragazzi in età scolare. E il flusso non accenna a calare: ieri ne sono arrivati altri 145”. Le tende del centro sanitario d’emergenza faticano a contenere i pazienti: le brande sono occupate da almeno due persone e molti malati, con l’ago della flebo nel braccio, sono costretti a sdraiarsi sul pavimento di terra. Ci sono bambini denutriti e malarici, donne incinte, tubercolotici, anziani con la pressione alle stelle e un gran numero di casi di oncocercosi, la “cecità dei fiumi”.
Il cibo è scarso, le latrine sono insufficienti e l’acqua potabile viene erogata col contagocce. Alle 4 del mattino le donne sono già in fila con le taniche davanti ai pozzi e ai serbatoi gonfiabili installati da Medici senza frontiere: un attesa che può durare fino a mezzogiorno. “E ai disagi, alle violenze, agli stupri, al trauma psicologico subito dai bambini” sottolinea Joseph “si somma l’angoscia di una vita senza sogni e senza futuro. Questa gente ha perso tutto, anche la speranza”.
John Yacoubu si è sistemato con la moglie e gli otto figli in una capanna di rami e di mattoni crudi ai margini del campo. La cucina è un buco scavato nella sabbia. John ha passato sette mesi all’ospedale avventista di Kosa: le sue mani e le gambe rattrappite, segnate da profonde cicatrici, non servono più a niente. “Quando Boko Haram ha attaccato il nostro villaggio” spiega “mi sono rifugiato con la famiglia in Cameroun. Ma quegli assassini sono venuti anche qui. Mi hanno quasi ammazzato a colpi di machete. Sono sopravvissuto per miracolo, ma come farò a mantenere i miei figli?” Si forma un capannello: tutti vogliono parlare. Bulus Musa è scappato con 11 figli dal villaggio di Djibrili, incendiato da Boko Haram in settembre. Muhamadou Ousman piange i suoi 13 fratelli, uccisi perché hanno rifiutato di arruolarsi nelle milizie islamiche. Ali Hasana, 12 anni, ha visto morire i genitori, freddati da una raffica di mitra.
A Maroua, capitale della regione saheliana del Cameroun e centro di coordinamento delle operazioni militari, l’insicurezza e la tensione sono palpabili. Da due anni, dal rapimento di una famiglia francese nel parco naturale di Waza e poi da quello di due missionari italiani, Gianantonio Allegri e Gianpaolo Marta, i bianchi sono spariti. All’hotel Porte Mayo gli unici stranieri sono Norbert, il proprietario tedesco, e Rocky, un cinese di Hong Kong che commercia in pellame. “Anche i cinesi” dice “se ne stanno andando. Dopo il sequestro lo scorso anno di 10 operai la Sinohydro, la ditta che stava costruendo la strada al confine ciadiano, ha deciso di smobilitare”.
Il vescovo di Maroua Bruno Ateba sta organizzando i soccorsi agli sfollati con l’aiuto della Caritas. Ma la situazione è critica: “I contadini non possono coltivare, gli allevatori non hanno più accesso al mercato nigeriano, più di 170 scuole sono state chiuse. E Boko Haram ha reclutato combattenti anche in Cameroun”. Un arruolamento non sempre forzato: molti giovani sono irretiti dall’ideologia jihadista e dalla prospettiva di uno stipendio in dollari.
Da qualche mese, tuttavia, la fase espansiva del Califfato africano si è arrestata. I Paesi della regione (Nigeria, Cameroun, Ciad, Niger e Benin) hanno dato vita a una forza multinazionale di diecimila uomini che ha riconquistato numerose località e inferto duri colpi alle milizie di Abubakar Sheku. Tanto che il giuramento di fedeltà allo Stato islamico, annunciato a sorpresa dal leader della setta in marzo, è interpretato dagli analisti come una mossa propagandistica per uscire dal crescente isolamento e sollecitare appoggi militari e finanziari dalla galassia jihadista transnazionale. Inoltre il generale Muhammadu Buhari, un musulmano del nord che nelle elezioni nigeriane del 28 marzo ha sconfitto l’imbelle presidente Goodluck Jonathan, un cristiano del sud, sembra deciso a “estirpare con ogni mezzo il cancro del fondamentalismo islamico”. Ma non sarà facile. Dietro a un conflitto apparentemente religioso e sotto la bandiera della lotta al terrorismo si celano interessi economici, politici e strategici di più vasta e complessa portata.
Il Ciad di Idriss Déby, al potere da un quarto di secolo e stretto alleato di Parigi (N’Djamena è il quartier generale del dispositivo militare francese “Barkhane”), è il ferro di lancia della coalizione africana. In pochi giorni le sue truppe, disciplinate e bene addestrate, hanno liberato le cittadine nigeriane di Ngala, Gambaru, Dikwa, Mafa, Damasak, Malam Fatouri e Baga riaprendo il vitale corridoio stradale e commerciale su cui transitano le merci provenienti dalla Nigeria destinate al Niger e al Ciad. L’attivismo di N’Djamena mira soprattutto a proteggere la pipeline che collega i pozzi ciadiani al porto camerunese di Kribi e i giacimenti di uranio e idrocarburi racchiusi nel bacino del lago Ciad: risorse a cui Washington e Parigi guardano con particolare attenzione.
Gli Stati Uniti, che hanno inviato in Ciad un team di istruttori e di esperti in operazioni speciali antiterrorismo, non si fidano delle forze armate nigeriane, che sospettano di essere infiltrate da Boko Haram e i cui metodi non sono molto diversi da quelli della setta islamica: esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, violazioni dei più elementari diritti umani. Nel 2013, durante un’azione di rappresaglia nel villaggio di Baga, i militari hanno massacrato più di 200 civili e incendiato dozzine di case e di negozi, mentre a Maiduguri decine di presunti terroristi sono morti in carcere in seguito a torture: abusi che hanno indotto Washington a bloccare, la scorsa estate, la vendita di elicotteri d’attacco Cobra americani da parte di Israele.
Abuja si è allora rivolta alla Russia, che addestra un contingente delle unità speciali nigeriane, e ai più concreti servizi offerti da centinaia di contractors assoldati nell’ex Unione Sovietica e in Sud Africa tra i mercenari della premiata ditta Executive Outcome, ufficialmente sciolta nel 1998 ma ancora in piena attività: “dogs of war” che per 400 dollari al giorno stanno combattendo sui fronti più caldi. Il coordinamento militare tra il Ciad, la Nigeria e gli altri membri della coalizione è però quasi inesistente e il conflitto rischia di trascinarsi in una lunga e sanguinosa guerra d’attrito.
Nella boscaglia e nelle zone rurali le milizie jihadiste si muovono agevolmente e con estrema rapidità. Dispongono di armamenti sofisticati, sistemi di trasmissione e di posizionamento satellitare, pick-up equipaggiati con mitragliatrici pesanti, mezzi blindati, campi mobili di addestramento. Sono in contatto con i gruppi salafiti nordafricani, da al-Qaida nel Maghreb islamico alle frange libiche dell’Isis. Possono contare su una vasta rete di informatori e su cellule dormienti pronte a entrare in azione. Sono abili nel confondersi con la popolazione locale e a rendersi invisibili evitando di utilizzare telefoni e computer. Attaccano in massa, facendosi scudo di civili e ragazzini drogati e poi scompaiono, disperdendosi nella foresta.
Nessuno del resto ritiene possibile una soluzione solo militare. L’insorgenza islamista ha radici nel profondo divario socio-economico e culturale che separa il nord musulmano dal sud cristiano, gli hausa-fulani del Sahel dagli igbo e dai yoruba della costa atlantica ricca di commerci e di petrolio: due universi distanti, che si confrontano e si combattono dai tempi della colonizzazione e che la fallimentare politica dei governi civili e delle giunte militari nigeriane ha contribuito ad allontanare. Il negletto nordest musulmano ha il più alto tasso di analfabetismo e di povertà dell’intera Federazione. Boko Haram, nato nel 2002 per assistere gli indigenti, non ha avuto difficoltà a fare proseliti quando da associazione benefica si è convertita in un’orda di fanatici votati al jihad: a migliaia di giovani disoccupati il martirio nella guerra santa è apparso di colpo come l’unica seducente alternativa a una vita di emarginazione e di miseria.
Giovanni Porzio
Aprile 2015