Giovanni Porzio – da Bengasi (09.03.11)
Sul tetto sventola il tricolore monarchico, la bandiera della rivolta. Il ballatoio all’ultimo piano è una foresta di cavi, antenne paraboliche e telefoni satellitari. Le facciate sono tappezzate di striscioni, manifesti e foto dei martiri della “rivoluzione del 17 febbraio”. La Mahkama, il palazzo del Tribunale di Bengasi, sembra più un’università occupata che la sede del governo provvisorio della nuova Libia. Ma in queste aule affollate di giovani volontari che dormono sui materassi sta nascendo e si sta organizzando un potere alternativo: la repubblica degli insorti che ha bruciato il Libro verde di Muammar Gheddafi ed è decisa a seppellire la sua quarantennale dittatura.
“Drogati e pagati da al-Qaeda: è così che ci definisce il pazzo di Tripoli” dice Sharif, studente di ingegneria e membro del servizio d’ordine all’ingresso della Mahkama. “Majnùn! E’ un mentecatto! Qui stiamo costruendo una società libera e democratica”. La piazza davanti al Tribunale si riempie ogni giorno di manifestanti e al venerdì si trasforma in una moschea all’aperto. Gli attivisti improvvisano comizi sui carri armati abbandonati dall’esercito del Colonnello. I fornai distribuiscono gratuitamente il pane e le associazioni di categoria hanno stabilito presidi permanenti sul lungomare: la tenda dei lavoratori dell’industria petrolifera e quella degli operai dell’azienda elettrica, la postazione delle infermiere e quella degli impiegati pubblici. La società civile, per la prima volta, esce allo scoperto.
All’interno del palazzo l’attività è febbrile. Nei corridoi annebbiati dal fumo delle sigarette i cellulari squillano senza sosta: amici e famigliari comunicano le ultime notizie dalle zone dei combattimenti. I televisori trasmettono le immagini dei bombardamenti dell’aviazione di Tripoli e dei feriti negli ospedali. In una stanza sono riuniti gli avvocati. Nell’aula dei processi è in corso la conferenza stampa del Consiglio nazionale libico (Cnl), il governo ombra che dal 5 marzo dirige la rivolta. “Ci occupiamo dell’emergenza e dell’amministrazione civile” spiega a Panorama l’avvocato Abdel Hafid Ghoga, membro e portavoce del Consiglio. “Vogliamo gestire la transizione e siamo contrari a qualsiasi negoziato con il regime, ma non vogliamo una divisione della Libia”.
Il Consiglio è composto da 31 rappresentanti delle città e dei distretti liberati la cui identità è mantenuta segreta per motivi di sicurezza. Sono stati resi noti solo alcuni nomi. Tra questi quello del presidente, Mustafa Mohammed Abdul Jalil, 58 anni, giudice, ex ministro della Giustizia; del “ministro degli Esteri”, Mahmud Jibril, 58 anni, ex docente di Scienze politiche all’università di Pittsburgh; e di un “responsabile dei rapporti internazionali”, Ali al-Issawi, 45 anni, ex ministro dell’Economia e del Commercio. A un altro componente del Consiglio, Omar al-Hariri, storico dissidente passato per le carceri di Gheddafi, è stata affidata la responsabiltà della sicurezza e del settore militare: di fatto le funzioni di ministro della Difesa.
Il Cnl non è stato formalmente riconosciuto all’estero, ma Roma e Parigi hanno già avviato i contatti: in “maniera discreta”, come ha sottolineato il ministro degli Esteri Franco Frattini, in occasione dell’arrivo nel porto di Bengasi, il 7 marzo, del pattugliatore “Libra” con i primi aiuti umanitari del governo italiano. Altri soccorsi, medicinali e generi di prima necessità, sono stati trasportati via terra dall’Egitto da Medici senza frontiere e dall’Ong di Bergamo Cesvi. I 650 mila abitanti della capitale della Cirenaica liberata sono da tre settimane senza approvvigionamenti: negozi, fabbriche e banche sono chiuse, l’economia è paralizzata e decine di migliaia di lavoratori stranieri sono fuggiti. Sono questi i problemi più urgenti che devono affrontare i comitati popolari nel quartier generale della Mahkama.
Abderrahman al-Derraji dirige il comitato per i rifornimenti. “Il cibo scarseggia” dice. “Mancano le medicine, le ambulanze e i medici. Sono anche preoccupato per tutte le armi rubate negli arsenali e nelle caserme, spesso in mano a ragazzini. Abbiamo organizzato punti di raccolta nelle moschee”.
Altri comitati si occupano della sanità, del traffico, delle comunicazioni, delle scuole, della sicurezza. Abdallah Ali, insegnante di chimica, dirige il comitato per l’istruzione. “Il 25 per cento dei giovani” spiega “sa appena leggere e scrivere. Molti sono analfabeti”. Eppure sono loro, a Bengasi come al Cairo e a Tunisi, il motore della rivolta araba contro regimi totalitari che parevano inossidabili. Giovani che non hanno un’ideologia politica, che si informano guardando le tv satellitari e navigano su internet. Le loro richieste sono ovunque le stesse: poter scegliere i loro leader, ma soprattutto avere un lavoro dignitoso e una vita migliore.
Anche in Libia la demografia ha un peso determinante. Quasi tre libici su quattro sono nati dopo il golpe di Gheddafi nel 1969, il 60 per cento ha meno di 30 anni e un giovane su tre è senza impiego. A Bengasi la Mahkama è diventata la loro casa: una enclave di libertà dove l’entusiasmo è contagioso. Ci sono studenti di informatica incollati notte e giorno al laptop che producono dvd con i video della rivolta; artisti che sfornano a getto continuo disegni, quadri e manifesti di propaganda; computer graphic che elaborano immagini e suoni; musicisti che registrano cd e cybernauti che scandagliano il web. Il viavai è incessante: i farmacisti portano medicinali, i carpentieri riparano mobili e sedie, gli idraulici sistemano i bagni, i tassisti offrono passaggi gratis.
Saleh Zayani, un tecnico radiofonico che per vent’anni ha mandato in onda i comunicati del regime, trasmette ora dagli studi di un’emittente senza censura. Una tipografia ha da qualche giorno iniziato a stampare il giornale Libia libera”. Farid Heri, un vigile urbano, insegna ai ragazzini delle scuole medie come dirigere il traffico. Al piano alto del Tribunale, in un angusto stanzino, Mohammed Nabbus, 28 anni, ingegnere informatico, passa da un computer all’altro, controlla le connessioni, dà un’occhiata a Facebook e alle mail in entrata: è riuscito ad aggirare il blocco di internet imposto da Gheddafi e a mantenere i contatti con il resto del mondo con un antenna satellitare. “Attraverso livestream.com” spiega “ho inondato il web di messaggi e di video”.
A due passi dalla Mahkama l’edificio incendiato che ospitava gli sgherri della polizia segreta è stato convertito in un centro stampa, con uno studio televisivo di fortuna e un ufficio che rilascia gli accrediti ai giornalisti. Nell’attigua caserma i miliziani accatastano casse di munizioni e oliano le armi: Kalashnikov, Rpg, razzi Katyusha, batterie contraeree montate su jeep, mortai e mitragliatrici. Dopo un sommario addestramento i volontari partono a bordo di camion verso il fronte di Ras Lanuf, il terminal petrolifero 350 chilometri a ovest dove infuriano i combattimenti. Ma l’esercito è rimasto a Bengasi e si prepara a difendere la città da un attacco delle forze di Gheddafi.
“E’ un’eventualità che non possiamo escludere” afferma l’avvocato Khalid al-Saji. “Noi intanto cerchiamo di lavorare per costruire il futuro della Libia. Quando Tripoli sarà liberata dovremo formare un governo di transizione, varare una nuova costituzione e organizzare le prime libere elezioni”. Sempre che il Colonnello getti la spugna. E che il Paese, oggi spaccato in due, non precipiti in una sanguinosa guerra civile.