Twenty years after
Fummo svegliati da un boato alle 5,34 di giovedì 20 marzo 2003: il primo missile Cruise aveva colpito il palazzo presidenziale sulla sponda destra del Tigri. Era l’inizio di Iraqi Freedom, l’offensiva lanciata da George W. Bush contro il regime baathista di Saddam. Una guerra costata tra i 2 e i 5 trilioni di dollari con un bilancio di 4.806 vittime tra i militari della coalizione e di oltre un milione di civili iracheni. Una guerra, formalmente terminata nel dicembre 2011, prolungata dall’insorgere del Califfato islamico, dall’inasprimento dei conflitti settari, dallo strapotere delle milizie.
Sono passati ormai quasi vent’anni e a Baghdad esercito e polizia continuano a presidiare i ministeri, gli uffici pubblici, le banche e gli accessi alla Green Zone. Ma in città si respira un’atmosfera più rilassata: spariti i check point, rimosse le postazioni armate e gran parte delle barriere che avevano trasformato i quartieri in fortilizi. Persino in alcune aree della Zona Verde è oggi possibile transitare senza subire controlli e perquisizioni.
All’hotel Palestine, quartier generale dei media durante la guerra, protezioni di calcestruzzo, reticolati e sbarramenti anti-kamikaze sono stati ridotti al minimo. E al 17° piano i segni del proiettile del tank americano che l’8 aprile 2003 uccise i colleghi José Couso della rete spagnola Telecinco e il fotografo polacco Taras Protsyuk, sono stati cancellati. Si moltiplicano gli alberghi, i negozi di elettronica, le concessionarie di automobili di lusso, le società di import-export, gli shopping mall. In riva al fiume si accendono i fuochi del masgouf, il pesce alla brace, mentre nel distretto della borghesia sunnita di Mansur i clienti affollano i ristoranti, i caffè e le boutique che spacciano griffe italiane taroccate.
A ricordare l’epoca di Saddam restano la spianata delle quattro sciabole monumentali, i palazzi del rais trasformati in caserme e il profilo grigio della Grande moschea incompiuta, con le gru pericolanti che incombono sulle cupole di cemento. Il nuovo totem della più popolosa città araba dopo il Cairo (10 milioni di abitanti) è la torre di 170 metri della Banca centrale, progettata dall’archistar irachena Zaha Hadid e quasi ultimata: 37 piani che dovrebbero simboleggiare l’inizio di una nuova era. Una ripartenza, dopo decenni di massacri, autobombe, scontri confessionali e lotta al terrorismo, che però rimane nel libro delle speranze, o dei sogni.
Le milizie sciite, nazionaliste e filoiraniane, tengono in ostaggio il governo centrale e il parlamento. Alle ultime elezioni (ottobre 2021) il movimento del mullah Muqtada al-Sadr aveva ottenuto il maggior numero dei seggi, ma dopo un anno di stallo e di veti incrociati per la formazione di un esecutivo i suoi seguaci, esasperati, hanno assalito la Zona Verde scontrandosi con i paramilitari al soldo di Tehran. Almeno 34 i morti. Muqtada ha allora annunciato il suo temporaneo ritiro dalla politica e le dimissioni dei suoi 73 deputati, a tutto vantaggio delle fazioni filoiraniane che, con l’appoggio dei partiti kurdi e sunniti, hanno partorito il nuovo governo presieduto da Mohammed al-Sudani.
La cronica instabilità politica non è l’unica piaga che affligge l’Iraq. La corruzione ha raggiunto livelli che non si erano visti neppure nell’immediato dopo Saddam. Ministeri e settori chiave dell’economia, dalla sanità alla difesa, sono preda di affaristi, militari e amministratori che operano nell’ombra e prosciugano miliardi di dollari dalle casse dello stato. In novembre il ministro della Sanità ha chiuso 79 cliniche della capitale definendole “centri di sfruttamento e latrocini”. Nel contempo, poco o nulla viene fatto per migliorare i servizi pubblici al collasso e le condizioni di vita di una popolazione che per un quarto è al di sotto della linea della povertà. I blackout di corrente sono quotidiani anche nel centro di Baghdad, dove si formano lunghe code ai distributori di carburante. Le scuole sono sovraffollate e in molte zone del Paese manca l’acqua potabile.
Nello slum di al-Dezam, insediamento abusivo di 14 mila abitanti ai margini di Sadr City, le autobotti distribuiscono l’acqua a 500 dinari la tanica. Fitte ragnatele di fili elettrici e stendardi con l’effigie di Hussein e Ali fanno ombra ai vicoli allagati dalle piogge. Le fognature sono intasate, le case fatiscenti, gli ambulatori inesistenti. “Non c’è lavoro” lamenta Rashid, che vende legumi al mercato. “E i prezzi continuano ad aumentare. Mio figlio è malato e devo comprare i medicinali alla borsa nera”.
L’Iraq non è soltanto diviso, e reso politicamente fragile, dalle insanabili fratture tribali, settarie e religiose ma anche dalle mire geopolitiche dei suoi vicini. Nel nord kurdo e turkmeno è sempre più evidente il peso economico e commerciale della Turchia. Nell’Anbar sunnita, confinante con la Siria, allungano i tentacoli Arabia Saudita, Emirati e Qatar, mentre gli onnipresenti ritratti di Khomeini, del generale iraniano Qassim Soleimani, comandante della forza Quds dei pasdaran, e di Abu Mahdi al-Mohandes, vice comandante delle PMF, Forze popolari di mobilitazione – entrambi uccisi il 3 gennaio 2020 da un missile americano – fanno sembrare Baghdad, e ancor più il sud del Paese, con le città sante sciite di Kerbala e Najaf, una provincia iraniana.
A Kerbala il generale Ali al-Hamdani, che comanda le PMF nell’area a sud di Baghdad, mi riceve nel suo ufficio: un compound fortificato tappezzato di foto dei martiri e dei ritratti del grande ayatollah Ali al-Sistani, il marjai-e-taqlid, la “sorgente dell’imitazione”, suprema autorità spirituale sciita. “Nel giugno 2014” racconta “l’Isis era alle porte di Baghdad. In due anni, con l’aiuto dell’Iran che forniva armamenti e consiglieri, abbiamo respinto Daesh e riconquistato Mosul. Ci accusano di essere al servizio di Tehran: l’Iran ci appoggia, ma ora siamo parte integrante dell’esercito iracheno. Addestriamo i volontari, sviluppiamo l’intelligence, organizziamo la logistica. Armi e munizioni non arrivano solo dall’Iran: le compriamo anche in Russia e nell’Europa dell’est”.
Tutto, a Kerbala, arriva dall’Iran: auto, pezzi di ricambio, generi alimentari e droga, il cui consumo è incentivato dal divieto di assumere alcolici. Le donazioni di milioni di pellegrini sciiti finanziano la costruzione di ostelli, università, moschee e madrase. Ma ancor più consistenti sono i profitti illeciti derivanti dai furti di greggio e dal contrabbando di medicinali. “Se l’Iraq non è ancora uno stato fallito è solo grazie alle sue immense riserve di petrolio, le quarte al mondo, 95 per cento del bilancio statale” afferma Yousif al-Eshaiker, influente uomo d’affari che fa la spola tra Londra, Kerbala e il Pakistan. “Dovremmo cercare di diversificare la nostra economia, puntando sul turismo, sulla modernizzazione dell’agricoltura e del decrepito tessuto industriale. Ma nessuno se ne cura. E nessuno paga le tasse”.
A Fallujah, l’“antro del male”, già baluardo qaedista e teatro della più sanguinosa offensiva americana del dopo-Saddam, l’ex sindaco Mohammed al-Mehemdi non nasconde il risentimento della comunità sunnita. “L’Iran è stata la nostra rovina” dice lo sceicco. “Più di 700 membri della mia tribù sono stati trucidati dalle PMF e i loro corpi fatti sparire. Con Saddam almeno avevamo sicurezza. Gli Usa non hanno tenuto fede alle promesse: abbiamo un governo settario e supercorrotto, una democrazia fallimentare”. Gli affari, comunque, sembrano andare a gonfie vele: edilizia, commercio, trasporti, contrabbando. Da alcuni anni l’Anbar è diventato uno snodo del traffico di droghe sintetiche che dalla Siria transitano in direzione di Arabia Saudita, Emirati e Kuwait. Il grande business è il Captagon, la “cocaina dei poveri” o la “droga dell’Isis”, un mix di amfetamina e caffeina utilizzato in battaglia dai gruppi armati e oggi diffuso soprattutto tra i giovani delle petromonarchie del Golfo. Solo nel 2021, anno in cui i sequestri hanno raggiunto la cifra record di 250 milioni di pillole, la Siria avrebbe esportato Captagon per un valore di 5,7 miliardi di dollari.
L’autostrada per Mosul, che attraversa villaggi cannoneggiati e discariche di veicoli carbonizzati, è addobbata di ritratti dei martiri sciiti e dei comandanti iraniani: per mettere in chiaro chi ha sconfitto l’Isis e chi comanda anche nei territori sunniti del nord. Ad al-Awjah, paese natale di Saddam, le tombe del rais e dei suoi due figli Qusay e Uday sono state distrutte durante i combattimenti nel 2015, ma i corpi erano già stati traslati in una località segreta: nessuno sa dove si trovano. Nella borgata agricola di Mkishifeh, lo sceicco Abu Abdallah Hatim al-Khiraim si aggira tra i resti delle case bombardate: “Da Baghdad” dice “non riceviamo niente. La ricostruzione è finanziata dal governatorato di Salah ad-Din”.
Mosul, a più di cinque anni dalla sconfitta dello Stato islamico, è semidistrutta e scuole e ospedali versano in condizioni pietose. Qualche famiglia è tornata ad abitare nelle casupole pericolanti della città vecchia, circondate da montagne di macerie e di edifici sbriciolati. Sentieri di pietre e mattoni si arrampicano tra le rovine, dove bandierine rosse segnalano la presenza di ordigni inesplosi. I bambini giocano tra le lamiere contorte, le auto accartocciate, i frantumi delle facciate dei palazzi ottomani.
L’Unesco sta restaurando la moschea an-Nouri, dove al-Baghdadi proclamò il Califfato, e alcuni degli antichi luoghi di culto cristiani. “Questa chiesa” spiega l’architetto Mukdad Kozbaker “era il tribunale dell’Isis. Quest’altra la prigione. Il vescovado era una fabbrica di cinture esplosive e di autobombe: non è ancora stata bonificata”. Trentacinque chiese sono state danneggiate o rase al suolo. “Nel 2003” racconta il vescovo Emmanuel Raad Adel “c’erano 50 mila cristiani a Mosul, il 10 per cento della popolazione. Nel 2014, quando l’Isis ha occupato la città, non ne era rimasto nemmeno uno. Ora sono tornate solo una settantina di famiglie”.
Lo spettro del Califfato non ha abbandonato l’Iraq. L’infernale campo di al-Hol, in territorio siriano, dove tra i 60 mila profughi di guerra ci sono migliaia di sospetti terroristi e di foreign fighters con donne e bambini il cui destino è ancora incerto, è stato definito dal generale Michael Kurilla, comandante dell’US Central Command, “un terreno di coltura per le nuove reclute dell’Isis”. Durante un rastrellamento in ottobre le forze di sicurezza hanno effettuato 226 arresti, scoperto 25 tunnel e sequestrato un arsenale di armi e munizioni.
Quasi la metà dei detenuti ad al-Hol è di nazionalità irachena. Alcune centinaia sono stati spostati in tre campi nei dintorni di Mosul. Ma migliaia di mogli e figli dei combattenti uccisi o incarcerati, privi di diritti e di documenti, campano di espedienti negli slum, negli edifici abbandonati o nelle comunità tribali della cintura urbana. “È una tragedia umanitaria” afferma Yusif, coordinatore dei progetti sanitari di Medici senza frontiere. “I bambini non possono andare a scuola. Le donne subiscono violenze e molte sono costrette a prostituirsi per sopravvivere”. La chiamano ashbal al-Khilafi, la generazione perduta del Califfato.
Al-Intisar è un quartiere malfamato, ex roccaforte di al-Qaida e dello Stato islamico. È Ahmed, 16 anni, a farsi avanti: sua madre Mariam, per i postumi di una ferita, non riesce a parlare. “Mio padre, Ali Mohammed Hussein, era un miliziano di Daesh ed è morto nella battaglia di Mosul. Eravamo asserragliati nella città vecchia. I bombardamenti erano incessanti: elicotteri, aerei, mortai. L’acqua dei pozzi era marcia. Andavamo al fiume con le taniche ma i cecchini ci sparavano. Io sono stato colpito a un braccio e a una gamba. Mangiavamo gli avanzi di pane che trovavamo in strada. Dopo la guerra io mi sono messo a lavorare in una fabbrica di yogurt. Non potevo andare a scuola. Prendo 200 dollari al mese. I parenti non ci aiutano, ci considerano una famiglia di terroristi. Nessuno viene a trovarci”.
A sud di Mosul, a poca distanza dai templi dell’antica città di Hatra, una trincea si allunga nella sabbia: carri armati, pezzi di artiglieria, uomini armati di Kalashnikov e Rpg, telecamere per la visione notturna. La linea di difesa delle milizie di Ansar al-Marjai sembra fronteggiare un deserto disabitato, vuoto e piatto fino all’orizzonte del confine siriano. Ma il nemico è in agguato. S’infiltra con i beduini che muovono le greggi. Sbuca all’improvviso nel cuore della notte. “Il mese scorso” racconta Jalil al-Jeiashi, vicecomandante di un battaglione di 1.500 volontari sciiti, “abbiamo perso due uomini in uno scontro, ma abbiamo ucciso dieci terroristi”.
Negli ultimi mesi le imboscate e gli attentati suicidi si sono intensificati nel nord e nell’ovest del Paese, dove le cellule jihadiste si stanno riorganizzando e attaccano i civili e le forze di sicurezza con la consueta ferocia: nella provincia di Kirkuk, in novembre, quattro soldati iracheni sono stati trucidati e decapitati.