Searching mothers
Nel viaggio dal deserto di Sonora alla costa del Pacifico i due cellulari continuano a squillare. “Dime mi amor, quando è successo? Dove sei? Me ne occupo subito. Mandami un WhatsApp”. Cecilia Patricia Flores Armenta risponde a tutte le chiamate: donne che cercano il figlio, il marito, il nipote. Anche “Ceci” sta cercando i suoi figli. Marco Antonio è scomparso nel 2019 a 32 anni, rapito da un commando armato a Bahía de Kino insieme al fratello quindicenne Jesús Adrián, poi ritrovato vivo. Nel 2015 era sparito Alejandro, 21 anni, sequestrato mentre andava al lavoro sulla strada tra Los Mochis e Juan José Rios, nello stato di Sinaloa. Ed è lì che stiamo andando, scortati da una camionetta della polizia.
Los Mochis non è un posto qualunque. Al numero 1002 del boulevard Jiquilpan, all’angolo della calle Rio Quelite, c’è un edificio bianco abbandonato, sul cui muro crivellato di colpi qualcuno ha scritto Dios te ama. È l’ultima tana di Joaquín Guzmán Loera “El Chapo”, capo del più potente cartello della droga messicano, arrestato l’8 gennaio 2016 mentre tentava di fuggire da quella casa attraverso un tunnel sotterraneo e la rete fognaria.
Da quel momento è guerra aperta a Sinaloa tra i killer che si contendono l’eredità del Chapo: da una parte “Los Chapitos”, i figli del boss, dall’altra “Los Mayitos”, seguaci del suo braccio destro Ismael Zambada García “El Mayo”, catturato lo scorso luglio. La posta in gioco sono le coltivazioni di coca e marijuana, i campi di papaveri da oppio e i laboratori per la produzione di fentanyl che proliferano nella sierra tra Los Mochis e Culiacán, dove negli ultimi mesi gli omicidi e gli scontri a fuoco si sono moltiplicati. E dove i narcos estradati negli Stati Uniti sono considerati eroi popolari, tanto che il sindaco di Badiraguato, la Corleone di Sinaloa, paese natale del Chapo e di Rafael Caro Quintero, ex capo del cartello di Guadalajara, vuole allestire un museo sulle gesta dei suoi concittadini.
“Il dolore non finisce mai” sospira Ceci mentre alla stazione di servizio di Juan José Rios, un agglomerato agricolo di anonime casupole, attendiamo i rinforzi. “Ma la speranza di ritrovare i figli mi mantiene in vita”. Su una strada sterrata ci precedono i veicoli della Marina, dell’esercito, della Guardia nazionale e della polizia federale. Cecilia è sotto protezione e ha sempre in tasca un pulsante di emergenza. “Lo stato provvede alla scorta di accompagnamento ma sono i famigliari delle vittime a scavare. Prima nessuno cercava i desaparecidos”.
Dopo il rapimento di Marco Antonio Cecilia ha fondato le Madres buscadoras de Sonora, uno degli oltre 230 collettivi di madri impegnate nella ricerca dei 120 mila scomparsi messicani. A dieci anni dal levantón (sequestro) dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero, con ogni probabilità inceneriti in un crematorio dell’esercito, le indagini ufficiali non hanno dato risultati. Nel frattempo le madri, anche grazie a segnalazioni anonime e alle reti sociali, hanno già individuato più di tremila fosse clandestine con migliaia di cadaveri e di resti umani: bruciati nelle carboneras, sciolti nella soda caustica, smembrati, gettati nei pozzi e nelle discariche, sotterrati nelle fincas, nelle foreste, sulle montagne. Ma anche nei parchi pubblici, nei campi di calcio, nei cimiteri, nei giardini degli ospedali.
Dalle due fosse più grandi, nello stato di Veracruz, sono stati estratti più di 600 corpi. Quasi ogni giorno, in un Paese dove si contano trentamila omicidi l’anno e dove il prezzo di un killer non supera i dieci dollari, se ne scoprono di nuove. Ma è un lavoro rischioso. Gli halcones, le vedette dei cartelli, sono dappertutto. E i sicarios uccidono senza pietà: tra il febbraio 2011 e l’agosto 2024 sono stati assassinati almeno 22 membri dei collettivi di ricerca. “Ho paura” dice Ceci Flores, che riceve continue minacce di morte, ha subito due tentativi di sequestro ed è stata più volte affrontata da uomini armati di cuerno de chivo, l’AK-47. “Ma l’amore è più forte della paura. Il nostro collettivo ha già localizzato più di duemila corpi in varie zone del Paese, compresi i resti di due dei sequestratori di Marco Antonio. Solo se mi uccidono smetterò di cercare i miei figli”.
Ci fermiamo ai bordi di una laguna prosciugata che i campesinos chiamano “Patolandia”. L’Oceano è vicino e l’aria è umida, il sole è feroce e le zanzare portatrici di dengue sono un tormento. Cecilia ci viene da nove anni: “Sono riuscita a incontrare uno dei sequestratori di Alejandro. Mi ha detto che non c’entrava, che l’obiettivo era l’uomo che lo accompagnava in fabbrica. Ma mio figlio aveva visto in faccia gli aggressori…Lo hanno buttato in questa palude”.
Nella squadra ci sono ragazze giovani come Clara, che ha perso il marito, nonne come Marisabel, che da 12 anni cerca il nipote, Jesús Adrián, il figlio minore di Cecilia, suo zio Sylvester “Goio” e Ramiro Vivero, archeologo forense inviato dalla Comisión Nacional de Búsqueda, istituita nel 2017. Le madri indossano magliette con una foto, una data e una promessa: Te buscaré hasta encontrarte, Ti cercherò finché non ti avrò trovato. Scavano con picconi e badili, mentre una ruspa apre una trincea profonda un paio di metri, fino a incontrare l’acqua salmastra che filtra dalle vene sotterranee.
“Osserviamo la stratigrafia del suolo” spiega Ramiro. “La terra non mente. Un’alterazione del colore può essere causata da un’intrusione esterna, una macchia scura o una falda insolitamente friabile indicano spesso la presenza di materia organica. In quest’area abbiamo già esumato una quarantina di cadaveri”. Le madri perlustrano la palude a caccia di indizi: bossoli di proiettili, scatolette di tonno e bottiglie di plastica lasciate in giro dai killer, scarpe, brandelli di indumenti, tracce di grasso, un’incongrua colorazione del tappeto erboso e del fogliame, anomalie e avvallamenti del terreno. I gas prodotti dalla decomposizione sollevano il terreno di alcuni centimetri: ondulazioni impercettibili, che però non sfuggono agli occhi di cercatori esperti.
Le unità cinofile scandagliano la zona. Ma le madri hanno inventato uno strumento rivelatosi ancor più efficace: la varilla vidente, un’asta di ferro a forma di T. Quando scavano una buca spingono la varilla nel suolo, la ritraggono e ne annusano la punta: l’inconfondibile odore della morte persiste a lungo dopo la sepoltura. “A volte” racconta Cecilia “passiamo la notte accanto alle fosse per impedire agli animali di avvicinarsi”.
Il carico psicologico è terribile da sopportare. “Per una madre” ha scritto Elena Poniatowska nel suo libro Silence is strong “la scomparsa di un figlio è un tormento senza fine, un’angoscia eterna in cui non c’è rassegnazione, né consolazione, né tempo per guarire la ferita. La morte uccide la speranza, ma la scomparsa è intollerabile perché non uccide né permette di vivere”. La morte, per quanto dolorosa, è almeno comprensibile: l’incertezza può sfociare in una depressione che rasenta la follia. Ceci sa che un giorno potrebbe sentire l’odore di suo figlio: “Sull’orlo di una fossa si prega e si spera. Ma quando si guarda dentro e non è lui, si prova gioia. Perché non è morto. Perché potrebbe essere ancora vivo”.
Dopo tre anni di ricerche Mirna Nereyda Medina, leader del collettivo Las rastreadoras de El Fuerte, ha finalmente trovato il figlio Roberto, sequestrato nel 2014: “Alcune vertebre, un braccio, un dente, parte di un ginocchio e di un dito. Ho messo i resti in una bella bara, come meritava. Quel giorno ho seppellito la speranza che tornasse e le domande che mi torturavano: dove sarà, avrà freddo, ha da mangiare?”
Le madri non perseguono gli assassini, non chiedono la verità alla magistratura perché in Messico, dicono, la giustizia non esiste: solo il 6 per cento dei casi di sparizione, secondo le Nazioni Unite, viene investigato. Le madri vogliono solo una tomba su cui piangere. Quando trovano un “tesoro”, un corpo, lo segnalano alle autorità che lo prendono in consegna. Negli obitori si sono accumulati migliaia di cadaveri, tonnellate di ossa, montagne di frammenti, crani, mandibole. Ma la polizia scientifica non dispone di mezzi adeguati, i test genetici sono limitati e l’identificazione, quando è possibile, procede a rilento.
“Non avremmo ragione di esistere se il governo facesse la sua parte” afferma Cecilia Flores, che accusa la neoeletta Claudia Sheinbaum, prima donna presidente del Messico, di minimizzare nel suo programma il tema dei desaparecidos. “Le madres buscadoras sono l’immagine del fallimento delle istituzioni di questo Paese”.
Il numero degli scomparsi è cresciuto a dismisura dal 2006, quando l’allora presidente Felipe Calderón diede inizio alla famigerata “guerra al narcotraffico”, con il suo strascico di massacri, femminicidi, omicidi di giornalisti, esecuzioni sommarie e violazioni dei diritti umani perpetrati dal crimine organizzato e dalle forze di sicurezza. Una terrificante sequela di orrori tra i quali spicca la confessione di un sicario, Santiago Meza, che si è vantato di avere sciolto nell’acido più di 300 persone. Ma la storia dei desaparecidos messicani risale all’epoca della repressione poliziesca degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
La prima madre buscadora è considerata Rosario Ibarra de Piedra, morta ultranovantenne nel 2022 senza aver trovato il corpo del figlio Jesús, assassinato da un poliziotto nel 1974, e fondatrice del Comité Eureka, ancora oggi impegnato nella lotta contro la tortura, le sparizioni forzate, l’indifferenza e l’impunità dei corpi dello stato. Un’altra pioniera è María Herrera Magdaleno, che per il suo attivismo in difesa dei diritti umani è stata inserita da Time nella lista delle cento persone più influenti al mondo: quattro dei suoi otto figli non ancora trentenni sono scomparsi tra il 2008 e il 2010, ma “Doña Mary” non ha gettato la spugna e ora guida il movimento Familiares en Búsqueda, a cui sono iscritti 190 gruppi di madri.
“Seguiamo il loro esempio” dice Cecilia Flores, che ha appena pubblicato il libro Madre buscadora: crónica de la desesperación. “E ci sforziamo di trasmetterlo ai nostri nipoti. È straziante vedere dei bambini di otto o dieci anni che cercano i genitori nelle fosse clandestine. Ma saranno loro a dover proseguire il nostro lavoro”.
Le ombre della sera calano sulla laguna Patolandia e i militari di guardia sono nervosi. Le donne caricano le vanghe e le varillas sui pianali dei pick-up. L’unico “tesoro” recuperato è il frammento di una tibia: la búsqueda ricomincerà all’alba di domani. Nella jeep il cellulare di Cecilia riprende a squillare. “Ay mi amor, que pasó?” Poi appoggia il capo sulla spalla di Jesús Adrián. “Siamo il ponte tra il mondo dei morti e quello dei vivi” dice. “E sogno che un giorno tutte le madri possano incontrare i propri figli”.