Il singolo dettaglio
The Single Detail
Prefazione a Il singolo dettaglio, The Single Detail, fotografie di Carlo Orsi per Interplast Italy, Skira, 2009
Immagini di così esplicita potenza non avrebbero bisogno di alcun commento. Le foto (o sono quadri?) di Carlo Orsi non indulgono nei sottintesi, in giochi illusionistici o in artifici compositivi.
Arrivano dirette, nitide, crude come la realtà che rappresentano, taglienti come il bisturi dei chirurghi che ha inseguito in Cina, in Tibet, in Uganda, in Bangladesh. Sono scolpite con tale precisione di dettaglio e profondità di contrasto che paiono intagliate nella carta fotografica.
Di proposito. Perché sono state scattate per ferire i nostri occhi, per incidere nelle nostre coscienze intorpidite. E per farci riflettere. È l’essenza e il fondamento di ogni grande reportage. Il significato ultimo, e il valore civile, del mestiere di cronista.
Di fronte al dilagare della fotografia astratta e concettuale, oggi in voga nelle gallerie di Parigi e di New York, le immagini di questo libro sono in controtendenza:si situano nel solco, per fortuna ancora vitale, dei maestri che hanno fatto la storia del fotogiornalismo. Che vuol dire non limitarsi a registrare e documentare con rigore, ma avere la capacità di raccontare e di evocare, di trasmettere emozioni: anche soltanto mettendo a fuoco un particolare all’apparenza trascurabile, una mano o una figura che si profila nell’ombra.
Bocche slabbrate di bambini, occhi dilatati, volti, gambe, torsi bruciati di uomini e donne prendono forma nel nero saturo di ambienti (sale chirurgiche, astanterie, corridoi d’ospedali, catapecchie di remoti e dimenticati villaggi) la cui atmosfera tenebrosa sembra riflettere il buio dell’anima e la normalità del dolore.
Ma l’oscurità è sempre lacerata da violenti fasci di luce. Lampi che girano la lama nelle piaghe del mondo che non vogliamo guardare. E che ci dicono: yes we can, qualcosa si può fare.
I medici di Interplast Italy, Ong senza scopo di lucro specializzata in chirurgia plastica, nata a Bologna nel 1988, hanno cominciato a farlo. Sono chirurghi, infermieri, anestesisti e logisti che nel tempo libero organizzano spedizioni nei paesi in via di sviluppo dove mancano le più elementari strutture sanitarie. Come a Dacca, la caotica e disastrata capitale del Bangladesh. Fu il vescovo della città a invitarli la prima volta, per operare adulti e bambini affetti da labiopalatoschisi, il “labbro leporino”: una patologia che sul posto non veniva curata o lo era in modo approssimativo.
Il team, composto da un chirurgo plastico, uno specializzando, un’anestesista e una strumentista, partì per Dacca portandosi dietro l’intera attrezzatura e i materiali necessari. Nessuno sponsorizzò quella missione: i partecipanti si pagarono le spese del viaggio e dei 20 giorni di permanenza.
Fu un duro impatto. Per il numero e la gravità dei casi, per le difficoltà logistiche, linguistiche, ambientali e culturali. Non c’erano soltanto i casi di labiopalatoschisi. Negli angusti e affollati ambulatori arrivavano dozzine di malati affetti da tumori cutanei di incredibili dimensioni, pazienti con atroci ustioni da fuoco, donne orribilmente sfregiate dall’acido. E ancora: malformazioni, traumi mai trattati, gravissime patologie della mano e degli arti, ferite lacero contuse, fratture dello scheletro facciale. Dodici, quindici ore al giorno di lavoro ininterrotto.
Fu il primo gruppo straniero a eseguire interventi specialistici di chirurgia plastica in Bangladesh: nell’intero Paese, con una popolazione che già vent’anni fa era il doppio di quella italiana, non esisteva un solo chirurgo plastico.
Da questa semplice e tragica osservazione nacque l’idea di costituire una Ong (allora si chiamava Interethnos) che proseguisse anche con i pochi mezzi disponibili quell’attività di civile e umana solidarietà, in Bangladesh e nei Paesi più poveri del mondo, ponendo in cima alle priorità la formazione del personale medico locale.
La serietà e la qualità del lavoro svolto nei primi anni dalla piccola Ong italiana non passarono inosservate: nel 1991 Donald Laub, il fondatore di Interplast Usa, già direttore della Divisione di chirurgia plastica della Stanford University di Palo Alto, invitò Interethnos a entrare con il logo “Interplast Italy” – ma conservando la più completa autonomia organizzativa e finanziaria – nella prestigiosa World Wide Confederation of Interplast.
Oggi Interplast Italy è una realtà apprezzata e conosciuta nel mondo. Ha portato a termine decine di missioni nelle aree più sfavorite e bisognose del pianeta offrendo a centinaia di persone, in gran parte bambini, la certezza di non essere fatalmente condannati a un’esistenza disperata, fatta di solitudine e di emarginazione. Ma non ha rinunciato ai suoi principi fondanti: l’assoluta gratuità delle cure, l’alto livello delle prestazioni e il carattere volontario dei suoi interventi. Nessuno dei suoi collaboratori viene retribuito.
Ogni missione è sempre una nuova, impegnativa avventura, che richiede mesi di preparativi. Bisogna individuare la zona di intervento, stabilire i contatti con i medici e le autorità sanitarie locali, ottenere visti e permessi, reperire i fondi, le attrezzature, i farmaci, la strumentazione, le apparecchiature anestesiologiche e sollecitare l’indispensabile collaborazione dei professionisti sul posto. Senza trascurare lo studio approfondito della cultura e della società dei Paesi da visitare, per non correre il rischio di ledere i delicati e a volte precari equilibri etnici, politici e religiosi.
Uno degli aspetti strategicamente più importanti dell’attività di Interplast Italy è la didattica, anche attraverso la concessione di borse di studio. L’insegnamento delle metodiche chirurgiche specialistiche è essenziale per aiutare i Paesi più poveri a liberarsi dalla cronica dipendenza scientifica e tecnologica che li affligge. “Se doni un pesce a qualcuno” dicono i cinesi “lo nutri per un giorno. Se gli insegni a pescare potrà nutrirsi per tutta la vita”.
Le immagini di Carlo Orsi che documentano le missioni hanno l’effetto di un pugno nello stomaco. Ma ce ne sono alcune più difficili da accettare e da comprendere. Sono quelle che ritraggono, in Bangladesh, le donne deturpate dall’acido: giovani che rifiutano di prostituirsi; spose-bambine date in moglie a uomini più anziani, punite per un presunto e spesso infondato comportamento adultero; o incolpevoli ragazze la cui famiglia disattende la promessa matrimoniale con il futuro marito, che vendica l’offesa placando la propria collera bestiale con l’arma dei vigliacchi.
L’effetto sulla pelle è devastante. L’acido divora le labbra, gli occhi, le narici. Il dolore è atroce, insopportabile. A volte le poverette sopravvivono, ma se non muoiono è anche peggio. Come donne sono fisicamente e psicologicamente finite. Il loro viso si trasforma in un mostruoso accumulo di tessuto fibroso: le palpebre spalancate, la bocca spaccata dalle cicatrici, il naso corroso e il respiro risucchiato in un rantolo cupo. Le attende il destino dei reietti: respinte dalla famiglia e dalla società, senza alcuna speranza di trovare un lavoro, di sposarsi, di avere dei figli.
Le donne sfregiate dall’acido sono sempre le prime a essere operate dai chirurghi di Interplast Italy.
Giovanni Porzio
New Delhi, marzo 2009