Mozambique at war
Sbucano dalla foresta nel cuore della notte armati di machete e di coltelli. Bruciano i villaggi. Uccidono uomini, donne, bambini. Poi scompaiono nella terra di nessuno che segna l’incerto confine con la Tanzania. Da un anno nella remota provincia di Cabo Delgado, all’estremo nord del Mozambico, si succedono i massacri. “È un nemico invisibile” afferma Dom Luiz Fernando Lisboa, vescovo cattolico di Pemba, capoluogo della regione. “Nessuno sa chi sono e cosa vogliono gli assassini che si nascondono nella boscaglia”.
La gente li chiama al-Shabab, anche se non sembrano avere alcun legame con le omonime milizie che infestano la Somalia. È però identica l’ideologia di riferimento dei misteriosi killer, metastasi australe del contagio jihadista che da Mogadiscio, passando per il Kenya, si propaga lungo la costa dell’Oceano Indiano.
La malandata strada che da Pemba sale a Mocimboa da Praia, cittadina di frontiera a quasi tremila chilometri dalla capitale Maputo, attraversa le province più miserande del Paese. Un brullo paesaggio di savana e baobab che sarà presto allagato dalle piogge monsoniche. Ai posti di blocco i militari fermano i camion e i chapa, gli scassati pullmini, in cerca di armi e di bakshish. Gli elicotteri dell’esercito sorvolano villaggi di makuti, le capanne dai tetti di foglie di palma, dove non c’è luce elettrica, non ci sono scuole, ambulatori e nemmeno fognature. Le donne si spezzano la schiena portando sulla testa fascine e secchi d’acqua. I bambini, seminudi e malnutriti, offrono manghi ai passanti per pochi centesimi. I pescatori strappano la sopravvivenza al mare su canoe scavate nei tronchi, con vele di plastica e zanzariere come reti. I contadini piantano cassava e tagliano la foresta per farne carbone: un sacco da 20 chili per meno di due dollari.
È Mocimboa che i jihadisti hanno preso di mira nel loro primo raid, il 5 ottobre 2017, trucidando due poliziotti e lasciando sul campo 24 militanti dopo otto ore di battaglia. Ed è poco distante, nel villaggio di Makulo, che un mese dopo hanno bruciato una chiesa e issato lo stendardo dello Stato islamico. Era l’inizio di un brutale conflitto, quasi del tutto ignorato dai media internazionali e volutamente minimizzato dal governo mozambicano, che ha già un bilancio di centinaia di vittime e migliaia di sfollati. Tra maggio e giugno 22 contadini, tra cui donne e bambini, sono stati uccisi e decapitati nei distretti di Palma, Macomia e Quissanga. In ottobre altri dieci coltivatori sono stati fatti a pezzi nel villaggio di Mojane. E solo nel mese di novembre, in una serie di attacchi e imboscate nelle province di Niassa e di Cabo Delgado, sono state massacrate a colpi di machete, bruciate vive o decapitate almeno venti persone.
Il governo ha reagito con durezza, arrestando più di 400 sospetti jihadisti di diverse nazionalità (mozambicani, tanzani, ugandesi, somali e zimbabwani, alcuni dei quali deceduti in carcere), demolendo a Mocimboa da Praia la moschea Nanduaua, ritenuta un covo jihadista, e bombardando il villaggio di Mitumbate (almeno 50 morti), dove gli islamisti radicali avrebbero una loro base. Ma l’impiego della forza, in una regione a maggioranza musulmana che si sente abbandonata e oppressa dai cristiani del sud e dai laici del partito Frelimo al potere, rischia di innescare un pericoloso conflitto settario.
Dopo la lotta di liberazione dal dominio portoghese, dopo l’indipendenza proclamata da Samora Machel nel 1975, dopo sedici anni di guerra civile contro i “bandidos armados” della Renamo (un milione di morti e sei milioni di rifugiati), il Mozambico ha faticosamente risalito la china. Nel 1992, quando furono siglati gli accordi di pace a Roma nella sede della Comunità di Sant’Egidio, il reddito medio pro capite non arrivava a 60 dollari. Oggi supera i 400 e il pil, benché in discesa, cresce ancora al ritmo del 3,5 per cento. Ma la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani. Due terzi dei 29 milioni di abitanti vivono al di sotto della soglia della povertà. Il Mozambico è il terzo Paese al mondo per diffusione della malaria (9.981.277 casi registrati nel 2017) ed è tra i primi per prevalenza del virus dell’aids. Ci sono solo tre medici ogni centomila abitanti e più del 45 per cento dei bambini al di sotto dei cinque anni è affetto da denutrizione cronica. È il terreno di coltura che nutre i fondamentalisti islamici.
Come Boko Haram in Nigeria, i gruppi armati mozambicani reclutano i loro accoliti tra i disoccupati e gli emarginati: giovani senza futuro, facilmente manipolabili dai predicatori più radicali. I loro presunti leader, un gambiano di nome Musa e un mozambicano, Nuro Andremane, sarebbero stati influenzati dai sermoni dell’imam kenyota Aboud Rogo Mohammed, assassinato nel 2012 a Mombasa: i suoi adepti, rifugiatisi a Kibiti, in Tanzania, si sono poi spinti più a sud attraversando nel 2015 il fiume Ruvuma e penetrando nella provincia di Cabo Delgado. Si proclamano “seguaci della tradizione del Profeta e della comunità musulmana” (al-Sunna wa Jama’a) o anche “Swahili Sunna”, alludendo al sogno di resuscitare gli antichi fasti dei sultanati swahili della costa. “L’islam radicale è una bandiera, un potente catalizzatore per i poveri e i diseredati” afferma Yussuf Adam, storico, docente all’università Eduardo Mondlane di Maputo. “Ma questo non è un conflitto religioso. È una rudimentale e cruenta rivolta contadina contro un regime corrotto, autocratico e mafioso che ha portato il Paese alla bancarotta mentre prosperano gli affari sporchi e ogni genere di attività illecite”.
Eppure il derelitto nord del Mozambico, baluardo della guerra di liberazione e patria dell’attuale presidente Felipe Nyusi, è un potenziale El Dorado. Al largo delle sue coste l’Eni ha scoperto un tesoro: 2.400 miliardi di metri cubi di gas naturale, uno dei più grandi giacimenti al mondo. E le multinazionali dell’energia, che prevedono investimenti per oltre 30 miliardi di dollari, non hanno perso tempo. L’Eni è impegnata nelle operazioni offshore, ExxonMobil e l’americana Anadarko stanno costruendo un gigantesco impianto per la liquefazione del gas sulla penisola di Afungi, a 60 chilometri da Mocimboa da Praia. Il miraggio di un rapido e inatteso sviluppo (l’esportazione dovrebbe partire entro il 2020) ha suscitato enormi aspettative. Ma la “maledizione delle materie prime” ha già provocato pesanti contraccolpi.
Ministri e faccendieri legati a doppio filo al governo di Maputo non hanno atteso le royalties del gas per intascare il bottino. Nel 2016 il Fondo monetario ha scoperto l’esistenza di un prestito occulto di 2 miliardi di dollari concessi dal Credit Suisse e dalla banca russa VTB con l’avallo della Parisbas per l’acquisto di pescherecci, navi militari, radar e droni per conto dell’Agenzia nazionale di intelligence. Centinaia di milioni di milioni di dollari sono spariti nel nulla. Nessuno è stato incriminato. Il Fondo monetario, la Banca mondiale e 14 Paesi donatori hanno sospeso gli aiuti finanziari. Il debito estero è schizzato a 10 miliardi di dollari e dovrà essere ripagato con le future rendite del gas.
A Cabo Delgado, intanto, si acuisce il risentimento degli strati sociali penalizzati dalla presenza delle multinazionali straniere. I benefici a lungo termine dei massicci investimenti non sono percepiti nei villaggi di capanne della foresta, mentre centinaia di contadini sono stati espropriati senza adeguati indennizzi dalle loro terre per far posto agli impianti di produzione. E non c’è soltanto il gas. L’inglese Gemfields, principale azionista della Montepuez Ruby Mining, la società che sfrutta il più grande giacimento al mondo di rubini (10 milioni di carati l’anno), deve difendersi alla Corte suprema di Londra dall’accusa di servirsi di milizie armate di mitra e di machete per allontanare i contadini e i garimpeiros, i minatori artigianali, dai terreni della concessione. Nelle carte giudiziarie si citano casi di omicidio, rapine e stupri.
Corruzione e traffici illeciti sono del resto la norma in un Paese che per secoli ha vissuto del commercio di avorio e di schiavi. E ancora oggi il nord del Mozambico è uno snodo cruciale sulle rotte del contrabbando internazionale. Dai suoi confini porosi e dai suoi porti privi di controlli transitano industurbate, con la complicità della polizia, delle dogane, dell’esercito e di alti esponenti del Frelimo e del governo, quantitativi immensi di merci clandestine: armi, esseri umani, avorio, droga, legname, carbone, pietre preziose. Lo scorso aprile, in una sola retata nel porto di Maputo, sono state sequestrate 867 zanne di elefante destinate alla Cambogia. Sull’unica strada che collega la capitale al nord passano indenni dai posti di blocco centinaia di camion carichi di pau ferro e altri legni pregiati tagliati illegalmente che finiscono nei container diretti in Cina, con una perdita stimata per l’erario di 2,5 miliardi di dollari l’anno.
Nell’illegalità diffusa i gruppi armati trovano spazio e fonti di finanziamento. “Favorendo le attività criminali” si legge nell’ultimo rapporto della Global initiative against transnational organized crime “lo stato ha creato l’habitat ideale per al-Shabab, che è in grado di raccogliere fondi, accrescere il suo seguito e usare la violenza per sfidare il governo”.
Chi ha interesse a mantenere la terra di nessuno di Cabo Delgado in una condizione di perenne instabilità sono innanzitutto i baroni della droga. Dopo la Guinea Bissau, il Mozambico è la principale piattaforma del transito di stupefacenti in Africa: un narcostato che smista ogni anno verso il Sud Africa e l’Europa più di 40 tonnellate di eroina proveniente dall’Afghanistan, dall’India e dal Pakistan, oltre a ingenti quantitativi di mandrax, hashish e cocaina spedita dalla Colombia e dal Brasile. “Con una resa all’ingrosso di 20 milioni di dollari la tonnellata” afferma uno studio della London School of Economics “l’eroina è oggi con ogni probabilità la principale voce dell’export mozambicano”. Arriva in container nei porti controllati dai narcos, soprattutto a Nacala. Oppure viaggia nelle stive dei sambuchi sulla rotta dell’Oceano Indiano, viene trasferita a bordo di piccole imbarcazioni da pesca che scivolano inosservate nei labirinti di isole e mangrovie della costa e approda sulle spiagge a sud di Mocimboa da Praia e di Pemba. Un collaudato network di spacciatori e di autisti, organizzato via WhatsApp o con messaggi criptati su Telegram e Viber dai trafficanti di Maputo e di Dubai, s’incarica di inoltrare la merce a Johannesburg.
I narcodollari riciclati da banche compiacenti finiscono nei resort a cinque stelle delle località turistiche, nei centri commerciali e nelle torri di vetrocemento in costruzione sulla Marginal, il lungomare della capitale dove non arrivano i miasmi delle discariche di rifiuti e delle bidonville che assediano la città. Resta poco della Lourenço Marques portoghese: i vecchi uffici delle compagnie di navigazione, gli empori e i magazzini in abbandono dei mercanti indiani, cinesi e pakistani, i cadenti edifici coloniali della Baixa. Nella Rua da Bagamoyo, la strada dei bordelli un tempo bazzicata dai marinai sbarcati dai piroscafi, resiste qualche squallido strip bar dove prostitute alcolizzate offrono “massaggi” per pochi meticais.
Poco distante, a due passi dal porto dove arrugginiscono 24 pescherecci acquistati con fondi neri e mai utilizzati, le Mercedes e le Range Rover della nomenklatura fanno la coda per entrare nel parcheggio del Maputo Shopping Centre: sei piani lastricati di marmo, boutique di lusso e ristoranti alla moda di proprietà di Mohamed Bachir Suleman, sodale dell’ex presidente Guebuza, sostenitore e finanziatore del Frelimo. Suleman, ex commerciante di capulanas, le stoffe colorate indossate dalle donne, è ritenuto il principale boss della droga in Mozambico e nel 2010 il dipartimento di Stato americano lo ha inserito nella lista dei narcotrafficanti più ricercati al mondo.
Un Paese indebitato, con una corruzione endemica, un esercito male armato e un terrorismo che mette a repentaglio investimenti miliardari e la sicurezza delle compagnie petrolifere non poteva sfuggire al radar di “Echo Papa”: Erik Prince, fondatore della Blackwater, la società di contractors responsabile del massacro di piazza Nisour a Baghdad, 17 civili uccisi il 16 settembre 2007. Prince, che è il fratello della segretaria all’Istruzione americana Betsy de Vos e ha stretti legami con l’amministrazione Trump, si è disfatto nel 2010 della Blackwater, ma si è lanciato in nuove avventure. Ad Abu Dhabi i suoi mercenari addestrano la Guardia presidenziale, una legione straniera che combatte in Yemen a fianco dell’Arabia Saudita. In Cina il suo Frontier Services Group (FSG) provvede logistica e sicurezza al megaprogetto da mille miliardi di dollari “One Belt, One Road”, la “nuova via della seta” commerciale tra l’Asia, l’Africa e l’Europa voluta dal presidente Xi Jinping.
In Mozambico FSG e un’altra società di Prince, Lancaster Six Group (che ha rilevato la flotta dei pescherecci in disarmo), stanno negoziando con Maputo un contratto da 750 milioni di dollari per fornire sicurezza alle compagnie petrolifere e agli impianti di liquefazione. Secondo African monitor intelligence, Prince – in cambio di una sostanziosa percentuale sui proventi del gas – ha garantito al governo di poter stroncare la rivolta a Cabo Delgado in soli 90 giorni. Ma in Iraq, come in Somalia e in Afghanistan, l’impiego massiccio delle milizie private ha avuto conseguenze devastanti. Ed è improbabile che per pacificare il nord del Mozambico bastino i mercenari al soldo di “Echo Papa”.