Giovanni Porzio – da Pechino (25.10.10)
La parola d’ordine lanciata dal comitato centrale del Partito comunista, riunito in seduta plenaria nello smisurato Palazzo del popolo di piazza Tien Anmen, è chiara: nei prossimi anni l’economia cinese dovrà essere sostenuta dall’espansione del mercato interno, dallo sviluppo delle nuove tecnologie e dal potenziamento dei servizi. La Cina paradiso della delocalizzazione e della manodopera a basso costo si avvia al tramonto. E migliaia di aziende straniere dovranno rifare i conti, adattando le proprie strategie al nuovo corso. In fretta, perché la riconversione industriale del colosso asiatico è già in atto, a ritmi vertiginosi.
E’ un messaggio che il presidente Giorgio Napolitano, in visita in Cina, si è sentito ripetere a ogni incontro ufficiale. E che gli imprenditori italiani sono in grado di recepire da una posizione di relativo vantaggio: “Le nostre aziende hanno sofferto meno delle altre la crisi” dice a Panorama il direttore dell’Ice Antonino Laspina “perché i loro prodotti sono rivolti alla fasce medio-alte della popolazione: un bacino di oltre 300 milioni di consumatori in costante crescita. Negli ultimi 8 mesi le esportazioni italiane sono aumentate del 28 per cento e l’interscambio, dopo il calo del 2009, è salito del 34 per cento nel primo quadrimestre di quest’anno”.
A fare da traino sono i settori tradizionali del made in Italy: macchinari di precisione, semilavorati, robotica, beni di lusso, abbigliamento, design, alimentari. “In Italia c’è ancora chi teme la Cina: sono in pochi a conoscerla” continua Laspina. “E la piccola dimensione delle nostre aziende non ci favorisce. Ma da qualche anno, finalmente, molti imprenditori hanno cominciato a investire, a non considerare la Cina solo come uno sbocco dell’export o un serbatoio di maestranze a infimo salario”. Anche perché nei tribunali cinesi si moltiplicano le cause intentate dai lavoratori sottopagati, balzate del 95 per cento nello scorso biennio.
Angelo Morano, 34 anni, di Cittanova (Reggio Calabria), non ha avuto paura della Cina. E come lui centinaia di giovani dotati di talento e d’iniziativa che al precariato in Italia hanno preferito la sfida di inventarsi una professione in un paese difficile, ma ricco di opportunità e di prospettive concrete di successo. Angelo ha studiato lingua e letteratura cinese all’Istituto orientale di Napoli, è stato borsista all’Accademia di cinema di Pechino e al Conservatorio di musica di Shanghai, ha viaggiato in Mongolia, nel Gansu, nelle province interne. E ha deciso di restare, facendo l’interprete per gli investitori italiani. “Giravo in continuazione” racconta. “Dalle cave di marmo alle aziende elettroniche. Ho lavorato per un imprenditore che aveva in progetto una catena di pizzerie: è stato un fallimento, e per me una grande lezione. Ho capito che questo è un paese che dà molto, ma ti chiede tutto”.
L’occasione buona arriva nel 2000, quando un cinese di Hong Kong offre ad Angelo la gestione in franchising del marchio Terranova di Rimini, abbigliamento prêt-à-porter. “Ho aperto 6 negozi a Shanghai, 3 a Singapore e 3 nelle Filippine. Poi ho scoperto che il tipo di Hong Kong faceva copiare gli abiti in una sua fabbrica. Mi sono dimesso. E Terranova mi ha assunto! Ho iniziato a produrre: nel 2005 avevo 142 fornitori ed esportavo 11 milioni di capi. Ma mi annoiavo. Volevo fare altre cose, stare sul mercato cinese. Così, con mio fratello Vincenzo, ho affittato un loft nella Concessione francese e ho aperto ‘That’s Amore’, il mio ristorante”.
E’ solo l’inizio. Con l’appoggio del pittore e regista Cheng Yifei, suo vicino di casa, Angelo si appella al vicegovernatore di Shanghai e riesce a impedire che le ruspe abbattano il vecchio edificio del ristorante per costruire un centro commerciale. Nello stesso immobile apre un laboratorio per la produzione di pasta fresca, pasticceria e gelati. Quindi, a un isolato di distanza, inaugura la panetteria “Mollica di pane”. E con l’esperienza logistica acquisita con Terranova e le indispensabili guanxi (relazioni) negli uffici doganali, si lancia nell’import-export: abbigliamento, alimentari e prodotti di eccellenza, non solo italiani. “Sono l’unico importatore in Cina di orate e branzini dalla Grecia” dice con orgoglio. “Importo anche tonni dalla Sicilia e dal Pacifico. E 2 tonnellate la settimana di pesce dalla Norvegia”.
Il 2010 è l’anno dell’Expo. Un’occasione da non perdere. Angelo partecipa, senza troppe speranze, a una gara d’appalto con 500 concorrenti del calibro di Starbuck’s. Vince uno spazio di fronte al padiglione cinese, apre un ristorante, una gelateria, una panetteria. Entra in partecipazione con il ristorante del padiglione italiano. Ottiene l’esclusiva per la fornitura di pane e prodotti da forno nel villaggio dell’Expo: 22 torri abitate, tremila clienti al giorno. “Il 31 ottobre l’Expo chiude e me ne andrò in vacanza con la mia ragazza, che aspetta un bambino” dice mostrando il filmato dell’ecografia sul suo iPad. “Lo faremo nascere a Miami, dove abbiamo amici. Poi torneremo a Shanghai. Vengo da una regione dove la gente distrugge invece di costruire: qui è esattamente l’opposto”.
All’ora dell’aperitivo il Glamour Bar, elegante ritrovo sugli storici tetti del Bund, si riempie di trafelati businessmen stranieri e cinesi che contemplano estasiati la foresta dei grattacieli di Pudong, l’avveniristico quartiere-simbolo di una metropoli che è stata capace di costruire 10 linee di metropolitana in tre anni e che si trasforma a velocità supersonica: il treno per l’aeroporto viaggia a 360 km l’ora.
Daniele Solari, 29 anni, di Como, sbarcato la prima volta in Cina a 17 anni con un programma di scambio di Intercultura, non ha dubbi: “Shanghai è la città del futuro, delle opportunità, dell’innovazione. E’ il posto giusto per intraprendere un’attività creativa: nell’industria, nei servizi e nel settore di cui mi occupo, la comunicazione”. Nel suo ufficio al 17° piano di una torre su Nanjin Road, Daniele si sente al centro del mondo: non a torto, se si guardano le cifre stratosferiche degli investimenti pubblici nella ricerca, dalle nanotecnologie alle energie rinnovabili. “Mi sono laureato in Scienze politiche all’università di Birmingham, ho conseguito un master in Relazioni internazionali alla Soas di Londra e un diploma ‘Business in China’ alla Bocconi” racconta. “Nel 2005 mi sono trasferito a Shanghai per aprire una sede della Promoest, una società di comunicazione italiana, da cui è nata ‘The Blenders’, l’azienda di cui sono diventato direttore esecutivo, con 20 dipendenti. E’ una piccola realtà specializzata in mediazione culturale”. Tra i clienti di Daniele ci sono i consorzi del Grana padano e di San Daniele, le Assicurazioni Generali, aziende come Prismian e Chateau d’Ax. “Organizziamo eventi, fiere, campagne pubblicitarie digitali, siti web, ricerche di mercato. C’è un forte bisogno di comunicare con un linguaggio comprensibile ai cinesi”.
Il marketing dei prodotti, anche di qualità, non è sufficiente. Scambio di culture e conoscenza reciproca sono requisiti indispensabili per operare nella nuova realtà della Cina. E su questo puntano anche le aziende italiane già consolidate sul mercato come Progetto Cmr, la società di “design integrato” che fa capo allo studio milanese dell’architetto Massimo Roj, all’avanguardia nella realizzazione di edifici verdi, complessi residenziali, centri sportivi, immobili industriali e commerciali. “Il nostro non è solo un business” spiega l’architetto Massimo Bagnasco, responsabile della sede di Pechino. “Pubblichiamo libri, collaboriamo con le università cinesi, cerchiamo di promuovere la nostra visione di una civiltà sostenibile: nella progettazione degli spazi come nella pianificazione urbana il nostro modulo di base è l’uomo”.
Sono concetti che fino a pochi anni fa sarebbero stati derisi dai padroni della “fabbrica del mondo” e incompresi dalla stragrande maggioranza dei cinesi. Oggi invece costruire una società a misura d’uomo, e dell’incalzante esercito dei nuovi e più esigenti consumatori, è la sfida che la Cina si prepara ad affrontare.