Across the border
Reyhanli, confine Turchia-Siria, 30 marzo 2012
A Guvecci, un villaggio rurale a sud di Antiochia, la linea del fronte passa a cento metri dalle case dei contadini: le torri di avvistamento dell’esercito di Ankara, i campi minati, i reticoli di filo spinato tagliano gli uliveti e i frutteti. Si sentono esplosioni di là dalle colline, e raffiche di mitra: la guerra civile siriana è arrivata alle porte della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Dopo avere espugnato Homs la Guardia repubblicana di Damasco ha investito nelle ultime settimane la provincia settentrionale di Idlib, provocando l’esodo di migliaia di civili verso i campi profughi allestiti in territorio turco.
Gli sfollati arrivano a piedi, trasportando a braccia i feriti. Abdullatif, 25 anni, è stato colpito da quattro proiettili in un sobborgo di Aleppo: “Ci hanno sparato mentre andavamo a seppellire i nostri morti al cimitero” racconta. “All’ospedale da campo di Idlib mi hanno asportato sei metri di intestino. Sono stato evacuato, in auto e poi sulle spalle per quattro chilometri fino alla frontiera turca”. Ora è ricoverato alla clinica Defne di Antiochia. Anche Khalil Khaddar, di Latakya, militante del Free Syrian Army (Fsa), è arrivato sulla schiena dei compagni con una gamba maciullata da una scheggia di mortaio. Il 10 marzo era entrato in Siria dalla Turchia con una decina di combattenti: “Ad Hambushieh, nei pressi di Idlib, avevamo impegnato le forze siriane in uno scontro a fuoco uccidendo due ufficiali e una dozzina di soldati. Poi i militari hanno contrattaccato e mi hanno colpito”.
Gli insorti del Fsa, spiega Khalil, penetrano in Siria dal territorio turco e si spostano in gruppi di 10-15 uomini. Hanno poche armi, portate dai disertori, recuperate nelle imboscate o acquistate al mercato nero, e un equipaggiamento di base: comunicano con i loro referenti via radio e cellulari con numeri turchi. La catena di comando è indefinita, il coordinamento quasi inesistente, gli obiettivi casuali. Ma Khalil ha idee chiare sul suo credo salafita, “l’autentico islam delle origini”, e sul “nefasto ruolo dell’Iran, una minaccia per il mondo intero”.
Il coinvolgimento dei movimenti radicali sunniti nella guerra civile siriana è un preoccupante elemento di novità nella caotica e frammentata galassia dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad. Mentre a Istanbul i 64 Paesi “Amici della Siria” si riuniscono in conclave sotto gli auspici di Hillary Clinton, il Consiglio nazionale siriano (Cns) appare sempre più diviso e impotente. I kurdi hanno preso le distanze, dopo che il Cns ha negato il sostegno alle loro aspirazioni irredentiste. Ed è ormai chiaro che la sorte del popolo siriano e il destino di Assad sono incatenati all’esito della complessa partita strategica regionale giocata da Iran, Turchia e Stati Uniti.
Ankara promette aiuti “non letali” all’opposizione siriana ma vorrebbe sbarazzarsi di Assad senza rompere con Teheran, cui è legata da forti interessi energetici e commerciali. Obama, a pochi mesi dalle presidenziali, usa l’arma delle sanzioni ma è contrario – come la Turchia e la Lega araba – a un intervento armato che avrebbe conseguenze devastanti. E intanto Assad, dopo avere parzialmente accettato il piano Onu di Kofi Annan, guadagna tempo.
Lungo il confine i 20 mila rifugiati (ma il loro numero aumenta col passare dei giorni) sono sistemati alla meglio in sette centri di raccolta nelle tende fornite dalla Mezzaluna rossa. Non tutti i campi profughi sono accessibili. Quello di Apaydin, che ospita i militari disertori e il loro leader, il colonnello Riad al-Asaad, è off limits. Negli altri volontari e attivisti si organizzano per mantenere aperte le linee di rifornimento e trasportare medicinali e munizioni ai mujahiddin lungo i tradizionali sentieri del contrabbando.
Uno di loro, Ahmed Alawi, 27 anni, era per sua ammissione un torturatore dei servizi di sicurezza siriani: ha disertato per arruolarsi nel Fsa e ora fa la spola tra il campo di Reyhanli e i villaggi oltre confine. “Sono stato per cinque anni nel servizio segreto dell’aviazione” racconta. “Infilavamo i prigionieri nei pneumatici e li picchiavamo a morte con cavi metallici. Eseguivamo gli ordini. Ci dicevano che erano pericolosi terroristi”.
Il 24 marzo Ahmed ha visto morire due giornalisti algerini con passaporto britannico, Nasim Entriri e Walid Blidi, colpiti dal fuoco siriano. “Eravamo nelle vicinanze di Jisrah Shukkur e siamo caduti in un’imboscata. Quando il fuoco è cessato i due reporter erano morti. Li abbiamo seppelliti nei boschi”. Secondo un’altra fonte i loro corpi sarebbero invece in mano ai siriani nella municipalità di Zarzur, a 15 chilometri dal confine. L’unica cosa certa è che sono spariti: inghiottiti, assieme ad altre 8 mila vittime, dal gorgo della guerra civile siriana.