Giovanni Porzio – da Kabul (novembre 2001)
La colonna avanza in fila indiana rasentando i muri di fango del villaggio fantasma di Rabat. Sono le 10 del mattino di lunedì 12 novembre e i 400 mujahiddin del comandante Basir Salangì hanno ricevuto l’ordine di attaccare la prima linea dei taliban nella pianura di Shomali. I combattenti marciano in silenzio, dietro la corazza di un cigolante carro armato sovietico che solleva nuvole di polvere e di fumo. Uomini in ciabatte armati di mitra e di bazooka, ragazzini con il Kalashnikov a tracolla, barbe bianche di veterani che trasportano mortai e casse di proiettili. Continuano a camminare, anche quando le granate dei tank esplodono a poche decine di metri, nei vigneti e sulle case abbandonate.
La battaglia di Kabul è iniziata all’alba, quando ondate di B-52 e di F-18 hanno cominciato a colpire le trincee e i bunker a sud della base aerea di Baghram. Da un tetto, in una postazione difesa da sacchi di sabbia e mitragliatrici, tre occidentali con giubbotti antischegge scrutano con binocoli da rilevamento gli effetti dei bombardamenti. Hanno in testa il pakul, il copricapo a ciambella degli afghani del nord, e si spacciano per giornalisti della Cnn: sono in realtà operativi delle forze speciali americane incaricati di trasmettere le coordinate degli obiettivi agli aerei spia. Il loro lavoro era stato determinante per la conquista di Mazar-i-Sharif, dove i C-130 avevano paracadutato biada per i cavalli e munizioni per il generale uzbeko Rashid Dostum. E anche sul fronte di Kabul l’appoggio tattico dell’aviazione si è rivelato cruciale.
A ogni curva del viottolo che s’inoltra verso la prima linea i mujahiddin si fermano. Gli uomini si accucciano nei fossati, al riparo dai cecchini appostati tra i ruderi dei casolari, mentre gli ufficiali attendono dai walkie-talkie le istruzioni di Bismillah Khan, che dirige l’offensiva dal comando di Jabal Saraj. Sul fianco destro della valle le truppe corazzate del generale Haji Almas, dopo un nutrito sbarramento di razzi Katyusha, raggiungono Qarabagh, sulla vecchia strada per Kabul, dove 700 taliban vengono fatti prigionieri. Ma a Rabat la resistenza è più accanita.
Il contingente si divide in due tronconi. Procediamo con cautela, camminando nel solco dei cingolati e cambiando spesso percorso per evitare le mine disseminate ovunque, a migliaia, nei campi e sulle piste sterrate. All’improvviso l’avanguardia della colonna è investita dal fuoco nemico: i colpi dei mortai cadono sempre più vicini e i proiettili delle mitragliatrici rimbalzano sulla sommità del muretto d’argilla sotto il quale mi sono gettato. Indietro non si può andare. Vengono chiesti rinforzi sulla frequenza radio 5175. E dopo una ventina di minuti, alla testa di un reparto d’assalto, Basir Salangì assume personalmente la guida delle operazioni.
Salangì, 40 anni, barba ben curata, occhiali da sole alla moda, è il più spietato signore della guerra tajiko. Dalla sua roccaforte nella valle di Salang controlla la strada strategica tra Mazar-i-Sharif e la capitale. La sua fama di tagliagole e di voltagabbana è leggendaria: nel ’96, dopo essersi schierato con il regime fondamentalista di Kabul, si alleò con Ahmed Shah Massud e fece massacrare centinaia di taliban.
Il suo intervento è risolutivo nella battaglia di Rabat: alle 14,30 i tank sfondano al centro della pianura, si uniscono agli zarbatì (corpi speciali) di Haji Almas e si lanciano all’inseguimento dei taliban in fuga. Uno dopo l’altro i capi dei distretti a nord della capitale segnalano la resa sparando in aria un colpo di bazooka. Alle 17 i mujahiddin raggiungono il passo di Khair Kanà: Kabul, a soli 5 chilometri, è sotto il tiro della loro artiglieria.
I combattenti consumano il rancio, cipolle e patate lesse, attorno a un bunker talibano: all’interno una teiera è ancora sulle braci accese, i razzi anticarro sono accatastati contro le pareti di terra, il pavimento è coperto da centinaia di bossoli di mitragliatrice. “Anche gli arabi e i pachistani stanno scappando” dice a Panorama Salangì indicando le jeep che si dileguano all’orizzonte. “Si rifugiano in montagna. Ma non hanno scampo”.
Al crepuscolo una pattuglia è in marcia verso le retrovie. Gli uomini sfilano nella sterpaglia bruciata dal fuoco delle granate portando a spalla una barella: Mohammed, 22 anni, è saltato su una mina e la sua gamba sinistra è un ammasso informe di sangue rappreso e carne spappolata. Non riuscirà a salvarsi.
Le prime luci del mattino del 13 novembre illuminano un paesaggio spettrale. Le bombe da 500 chili sganciate dai B-52 hanno polverizzato le postazioni dei taliban. La strada asfaltata dai russi è sventrata da giganteschi crateri, nei quali si intravedono i rottami contorti dei mezzi militari. A Khair Kanà i corpi eviscerati di 6 pachistani sono attorniati da una folla festante: i bambini sputano sui loro volti sfigurati e tumefatti. Poco oltre, i mezzi corazzati sbarrano il passaggio. Dobbiamo proseguire a piedi, facendoci largo nella ressa della gente di Kabul che accoglie i liberatori. Nella notte i taliban e i miliziani della legione araba di Osama Bin Laden hanno abbandonato la città a bordo di tutti i veicoli che sono riusciti a rubare: sono fuggiti verso Kandahar dopo aver saccheggiato la banca centrale e le botteghe dei cambiavalute.
Se i tank e le forze regolari dell’Alleanza si sono attestate nei sobborghi della capitale, rispettando almeno formalmente l’impegno assunto con Washington, i reparti della polizia e i mujahiddin hanno preso possesso degli uffici amministrativi, delle caserme e stanno allestendo i check point agli incroci delle principali arterie di Kabul, sotto la direzione di un comitato per la sicurezza presieduto dal ministro degli Interni Yunis Qanooni. Rappresaglie, vendette e sporadici scontri a fuoco non sono mancati. I cadaveri dei taliban, alcune decine, sono oggetto di scherno e di invettive sui marciapiedi insanguinati del quartiere di Shar-i-Naw. Ahmed Shaker, 20 anni, studente, mostra i corpi di 6 arabi uccisi a colpi di Kalashnikov e gettati in un canale di scolo: “Non vogliamo stranieri in Afghanistan. Non vogliamo chi distrugge la nostra cultura. Abbiamo diritto a vivere come nel resto del mondo. Se Bin Laden vuol fare la guerra santa, la faccia a casa sua, in Arabistàn”.
Autocarri carichi di miliziani che sventolano i ritratti di Massud percorrono le vie di una città sotto shock. Nessuno si aspettava una disfatta così rapida del regime del mullah Omar, che da Kandahar si ostina a lanciare appelli a un improbabile jihad. E nessuno prevedeva l’immediato ingresso a Kabul dei mujahiddin, nei confronti dei quali la popolazione nutre una comprensibile diffidenza: nel ’92 i vincitori dell’Armata rossa, dilaniati da faide interne, scatenarono una guerra civile che ridusse la capitale in macerie e favorì l’ascesa degli “studenti di religione” armati e finanziati dal Pakistan e da Bin Laden.
“Mi auguro che i mujahiddin abbiano imparato dagli errori del passato” dice Mohammed Ahmed, 65 anni, ex direttore di liceo. “E anche l’Occidente. Ci avete lasciato sotto il giogo dei terroristi e dei fondamentalisti per 6 anni. C’è voluto l’attentato dell’11 settembre per far muovere i B-52”.
La città si risveglia da un lungo incubo. Le saracinesche dei bazaar restano chiuse, ma la gente si riversa nelle piazze in preda all’euforia, assaporando le prime libertà: i bambini possono far volare gli aquiloni senza temere la frusta della polizia religiosa; nelle chai khanà, le sale da tè, qualcuno ha dissotterrato una vecchia cassetta con la voce di Ahmed Zahir; gli uomini, che non dovranno più depilarsi le ascelle e il pube, fanno la fila per tagliarsi la barba e alcuni, come il disoccupato ventiduenne Said Ahmed Shah, hanno deciso di radersi davanti al temuto ministero per la Promozione della virtù e la Soppressione del vizio, accanto all’ex ambasciata italiana. E le donne, che i taliban avevano cancellato dalla società, costringendole a mendicare e a prostituirsi per sopravvivere, cominciano a sperare. “Continueremo a indossare il burqa” dice Shajan, 19 anni e un neonato nascosto sotto il velo. “Fa parte della nostra tradizione. Ma potremo tornare a studiare e a lavorare”.
I lugubri luoghi-simbolo dell’inquisizione talibana sono meta di un pellegrinaggio liberatorio: la prigione di Pol-i-Charki, dove erano rinchiusi 3 mila detenuti, è deserta; negli uffici degli zelanti custodi dell’ortodossia religiosa restano alcune copie del Corano, i facsimili dei decreti del mullah Omar e gli scudisci in pelle dei poliziotti islamici; le sinistre stanze degli interrogatori del carcere speciale di Sedarat sono vuote; e nello stadio dove il venerdì andava in scena il macabro spettacolo delle amputazioni e delle esecuzioni capitali due ragazzini rincorrono un pallone di pezza.
Sotto i lampioni e i semafori fuoriuso dove venivano appese le mani e i piedi tagliati ai ladri, non tutti riescono però a sorridere. “I turbanti neri potrebbero tornare” sussurra un vecchio ciabattino. “Dopo 23 anni di lutti, chi può dire quale sarà il nostro avvenire?” E Mohammed Ibrahim Sekandari, governatore provvisorio di Kabul, tiene a dimostrarce la brutalità dei taliban, mentre ci accompagna in una stazione di polizia dove sono sotto inchiesta 21 pachistani appena arrestati. “In queste celle” racconta “c’erano le donne. Le hanno portate via con loro”. Per terra ci sono i burqa stracciati, i ceppi di ferro, mucchi di cosmetici e di monili di plastica, scarpe di bambini di 2 o 3 anni e inchiodata in un angolo una culla-amaca fatta con una coperta. Su una branda, una lettera d’amore firmata Abdulwakil: “Ti voglio bene. Non so perché ti hanno presa. Che Allah ti protegga”.
I bombardieri americani, i dollari della Cia e l’inveterata consuetudine che spinge i capi tribali a schierarsi con il più forte, hanno consentito all’improvvista armata dei mujahiddin di impadronirsi di mezzo Afghanistan in meno di una settimana. Ma il destino di Kabul non è soltanto nelle mani dei generali e dei signori della guerra attestati con i loro cannoni sulle alture di Khair Kanà. L’assetto politico della capitale sarà nei prossimi giorni oggetto di una complessa trattativa diplomatica tra Washington, Islamabad, Mosca, Pechino e gli emissari dell’ex sovrano Zahir Shah, impegnati in contatti segreti con i leader dell’etnia pashtun. E a qualsiasi governo post-talibano sarà dettata una condizione irrinunciabile: scovare e consegnare alla giustizia Osama Bin Laden, il principe delle tenebre che ha scagliato i suoi kamikaze contro il mondo occidentale.
Giovanni Porzio – da Kabul (21-11-01)
La notizia dell’agguato è arrivata a Kabul nel pomeriggio di lunedì 19 novembre. Un reporter ha contattato il telefono satellitare della Associated Press, in una stanza al primo piano del fatiscente Hotel Intercontinental: banditi armati avevano assalito un convoglio di giornalisti in viaggio dal Pakistan. C’era stata una sparatoria, come quella che una settimana prima aveva falciato tre colleghi a Dasht Qala, sul fronte settentrionale. All’appello mancavano due corrispondenti della Reuters, Julio Fuentes del Mundo e Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera. L’autista di un autobus aveva visto quattro cadaveri, tra cui quello di una donna, vicino a Sarobi, sulla strada di Jalalabad.
Impossibile verificare le frammentarie informazioni: i militari dell’Alleanza, i nuovi padroni di Kabul, si sono rifiutati di scortarci sul luogo dell’imboscata. In quella zona, abitata da popolazioni pashtun, arabi e taliban sono ancora attivi e i mujahiddin controllano a mala pena i centri urbani e le principali vie di comunicazione.
E’ una strada maledetta quella dove Maria Grazia e i suoi compagni hanno perso la vita. I passi e le strette gole che scendono verso la pianura di Jalalabad sono un cimitero di tank e mezzi corazzati sovietici; e sotto le pietre affiorano le ossa dei 16 mila soldati dell’Esercito britannico dell’Indo massacrati con le loro famiglie nell’inverno del 1842 dalle tribù afghane di Mohammed Akbar Khan. Ma è l’unica strada che dal Khyber Pass consente di raggiungere la capitale: ed era questo, dopo mesi di snervante attesa, l’obiettivo dei giornalisti partiti da Peshawar.
Il lavoro dell’inviato di guerra comporta elevati rischi sul piano della sicurezza personale e della responsabilità professionale. Richiede esperienza, rapidità di movimento e di decisione, resistenza fisica, nervi saldi, capacità di adattamento a qualsiasi situazione e preparazione specifica, anche di tipo militare. E’ utile conoscere la gittata di un Kalashnikov, riuscire a calcolare la distanza di una detonazione, sapersi muovere nei campi minati, identificare gli ordigni inesplosi, distinguere un colpo in partenza da uno in arrivo. Durante la battaglia di Kabul le linee dei taliban erano così vicine e il fronte così frastagliato che era a volte impossibile rendersi conto se ci si trovava in territorio amico o nemico.
La prima regola è mettersi in testa che nessun articolo, nessuna foto, nessuna immagine è più preziosa della propria vita. Ma il crescente livello di competitività e di omologazione dei media costringe spesso i reporter ad attraversare il sottile confine del rischio calcolato. Se non fai parte della nutrita schiera degli inviati dalle suite dei grandi alberghi, le precauzioni talvolta non bastano a evitare la pallottola vagante, la granata, l’improvviso scontro a fuoco.
Il giornalista in zona di guerra deve dotarsi di un equipaggiamento tecnico adeguato. Nello zaino non possono mancare, oltre al computer e al telefono satellitare, alcuni oggetti indispensabili: mappe dettagliate, torcia elettrica, bussola, fiammiferi, coltello multiuso, radio a onde corte per captare i notiziari della Bbc, sacco a pelo, borraccia, antimalarici. In pochi indossano il giubbotto antiproiettile, scomodo e ingombrante. Ma a Marco di Lauro, fotografo della Ap, ha salvato la vita: lunedì 12 novembre, mentre correvamo al riparo sotto il tiro dei mortai talibani, un cecchino lo ha colpito alla schiena.
Si devono ridurre al minimo le occasioni di pericolo, valutando quando è meglio passare inosservati e quando è indispensabile una scorta, studiando a fondo la geopolitica della regione, procurandosi contatti e collaboratori di fiducia. Se ci si muove con una guerriglia organizzata, i margini di sicurezza sono di solito accettabili e i vantaggi indiscutibili: entro i limiti fissati dai responsabili operativi, la libertà di movimento, di intervista, di osservazione è quasi totale.
Le situazioni di massimo rischio sono quelle che esulano dai binari di un conflitto tra forze regolari. Le bande paramilitari agiscono autonomamente, senza alcuna disciplina e senza alcun rispetto per i civili, che anzi diventano le principali vittime dei killer. La catena di comando è inesistente. Gli obiettivi sono imprevedibili. I giornalisti sono testimoni da eliminare. In Afghanistan i rischi sono moltiplicati dalla presenza attiva dei terroristi, dall’insicurezza endemica del territorio, dalle faide tribali, dalle tensioni etniche, dalla costante minaccia rappresentata dalle mine antiuomo. Senza contare le difficoltà logistiche di un paese privo di strade, di infrastrutture, di servizi igienici e sanitari, di comunicazioni, di mezzi di trasporto, dove bisogna attraversare a cavallo passi di 4 mila metri e dormire nel letame degli ovili.
Alle 22 scatta il coprifuoco e nella città pattugliata dalle jeep dei mujahiddin si sentono solo i latrati dei cani. La centrale idroelettrica di Sarobi è fuori uso per un guasto (o un attentato) e Kabul è piombata nel buio. Al bazaar mi sono procurato una batteria d’automobile e un trasformatore, il solo modo per alimentare il computer e il satellitare. Ma non c’è acqua per lavarsi, non c’è riscaldamento e non c’è niente da mangiare. Scrivo alla debole luce di una candela. E riesco a sentire, disturbata da un’emittente cinese, la voce metallica dello speaker della Bbc: “Qui Londra. Le salme di quattro giornalisti uccisi in Afghanistan in un’imboscata …”
Giovanni Porzio – da Faizabad (ottobre 2003)
L’appuntamento è in una bottega di stoffe nel bazar di Baharak, un villaggio di case di fango in riva al Kokcha, l’impetuoso fiume che attraversa la provincia del Badakshan, feudo dell’ex presidente Burhanuddin Rabbani e fulcro, in passato, della resistenza anti-taliban. Mustafa, la mia guida, ha messo in giro la voce che sono interessato all’acquisto di una partita di “poder”, eroina. L’attesa si prolunga. La gente non si fida. Le donne infagottate nel chadrì azzurro si fermano incuriosite e il poliziotto che nella vicina chai khanà affonda le mani nel palau, il riso condito con grasso di montone, distoglie lo sguardo dal filmaccio indiano trasmesso alla tv per chiedere ragguagli sul mio conto. “Niente da fare” sibila il mercante di stoffe. Ma prima di congedarci solleva il coperchio di un baule di alluminio: 10 chili di polvere bianca in sacchetti di plastica.
Mentre risaliamo sulla jeep Mustafa riconosce un vecchio amico, calciatore nella squadra di Kunduz. “Che ci fai qui?”. Lo scopriamo quando accetta di portarci in un appartamento al primo piano di una palazzina di cemento: una stanza con un tappeto, un fornello a gas, un thermos e qualche bicchiere sporco. Ahmed è l’emissario di un grossista: compra oppio a 150 dollari il chilo ed eroina a 5 mila. “I prezzi sono scesi” spiega “per l’abbondanza del raccolto”. Da una tasca estrae un chilo di brown sugar, grani grossi, color crema. Sull’etichetta si leggono l’annata, la regione di provenienza e il grado di purezza. “Denominazione di origine controllata” ridacchia Ahmed. “Come i vostri vini!”
Due anni dopo il crollo del regime talibano la produzione di oppio in Afghanistan, 75 per cento del totale mondiale, è cresciuta del 6 per cento rispetto al 2002 raggiungendo 3.600 tonnellate, mentre la superficie coltivata è passata da 74 mila a 80 mila ettari, sui quali lavorano 1,7 milioni di contadini: il 7 per cento della popolazione. Secondo l’Unodc, l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla droga, i profitti combinati della vendita e della commercializzazione locale dell’oppio ammontano a oltre 2,3 miliardi di dollari, la metà dell’intero Pil del Paese. E il turnover generato dal traffico internazionale degli oppiacei afghani sfiora i 30 miliardi di dollari.
Il presidente Hamid Karzai ha varato una “strategia nazionale antidroga” destinata a rimanere sulla carta: la sua autorità non si estende oltre il perimetro della capitale e sono spesso i comandanti e i funzionari nominati da Kabul a trarre i maggiori vantaggi dal business dell’oppio. Neppure la presenza degli 11.500 soldati della coalizione antiterrorismo è servita a contenere il fenomeno: i comandi americani non sono propensi a interferire nei commerci illeciti dei signori della guerra che aiutano il Pentagono nella caccia a Bin Laden e puntellano il governo centrale, anche se mantengono le loro milizie con i narcodollari. Ma è proprio il denaro dell’oppio e dell’eroina, ormai in gran parte raffinata sul posto, ad accrescere l’instabilità nel Paese, ad alimentare il contrabbando di armi e a finanziare le sempre più frequenti e sanguinose incursioni dei taliban nel centro e nel sud dell’Afghanistan. I comandanti militari si disputano a colpi di Kalashnikov e di lanciarazzi il controllo delle zone più fertili, dei laboratori di raffinazione, dei depositi e dei principali canali di esportazione. Mentre è sempre più evidente il nesso tra il traffico di droga, le attività di al-Qaeda e dei seguaci del mullah Omar nelle aree tribali pashtun al confine con il Pakistan e le cellule dormienti della guerriglia islamica in Asia centrale, che ha la sua roccaforte nella valle uzbeca di Fergana.
Il raccolto 2003, non fosse intervenuta la siccità e una malattia dei papaveri nelle pianure di Kandahar e dell’Helmand, avrebbe potuto superare le 4 mila tonnellate, pari a circa 400 tonnellate di eroina. Ma il dato più preoccupante è l’espansione delle coltivazioni in 28 delle 32 province afghane rispetto alle 14 del 2001, quando i taliban erano riusciti a limitare la produzione a 185 tonnellate di oppio, centrando l’obiettivo di far lievitare i prezzi. Nella sola provincia del Badakshan, base di partenza della rotta settentrionale che attraverso il Tajikistan e la Russia convoglia in Europa più del 25 per cento dell’eroina afghana, la produzione è cresciuta del 55 per cento.
A Baharak e a Faizabad, snodi del traffico e centri di raffinazione ove confluisce l’oppio delle valli di Gurm e di Kash, si notano i palazzi in costruzione dei nuovi signori della droga, con le Toyota lucenti parcheggiate nei cortili difesi da alti muri di mattoni crudi e le antenne paraboliche sui tetti. “Prima qui la gente moriva di fame: ora sono tutti ricchi!” esclama soddisfatto Said Mohammed, che – dopo essersi assicurato che non avrei scattato foto – illustra le fasi della lavorazione nel suo laboratorio, la cucina di una fattoria circondata da filari di noci e di gelsi. Il “taryak”, l’oppio, viene sciolto e mescolato a calce in un bidone di acqua bollente. Quando il liquido si raffredda viene filtrato e riscaldato in un altro bidone contenente ammoniaca: il precipitato è morfina-base. Da questa, attraverso analoghi procedimenti di riscaldamento e filtraggio, con l’aggiunta di anidride acetica e di carbonato di sodio, si ottiene l’eroina-base, da cui si estraggono, con l’ausilio di acetone, etanolo e acido idrocloridrico, i cristalli di eroina pura.
I precursori chimici, essenziali nel procedimento di raffinazione, sono nel mirino del generale Rustam Nazarov, capo dell’agenzia antidroga del Tajikistan, che con il supporto dell’Unodc sta cercando di creare uno scudo antinarcos nell’Asia centrale. “Stiamo rafforzando i controlli, anche sui prodotti chimici, sul nostro territorio e nei Paesi vicini” dice Nazarov. “Nei primi 8 mesi del 2003 abbiamo sequestrato 6,3 tonnellate di droga: il doppio rispetto all’anno scorso”. Dal Tajikistan transita la maggior parte dell’eroina per il mercato europeo, ma le truppe russe dislocate alla frontiera non sono in grado di presidiare i 1.400 chilometri del confine con l’Afghanistan. In due giorni di viaggio da Darvaz a Ishkashim, lungo l’impervia mulattiera che costeggia il fiume Panj e si arrampica tra le cime innevate del Pamir, mi sono imbattuto in tre sguarniti posti di blocco tajiki e in una sola caserma dove i militari russi erano impegnati a ubriacarsi di vodka.
Risalendo le valli del Badakshan si può osservare l’intero ciclo della produzione e del commercio dell’oppio. I contadini preparano i campi per la semina di primavera: quelli destinati a cereali sono arati a solchi stretti, quelli per i papaveri (la stragrande maggioranza) sono invece incisi ad ampie losanghe, con le canalette per l’irrigazione scavate in profondità. Dove il terreno consente coltivazioni estensive sono all’opera lavoratori salariati, mentre le terrazze in quota, fino a oltre 2.500 metri, sono messe a coltura su scala familiare. Gli spacci dei villaggi smerciano sacchi di urea e di fertilizzanti al fosforo: ingrasseranno le zolle per un raccolto 2004 che, se non interverranno fattori climatici o di mercato, si annuncia fin d’ora ancor più cospicuo del precedente. Anche perché le distribuzioni di riso e farina effettuate dal World food program e dalle organizzazioni umanitarie spingono i contadini ad abbandonare le coltivazioni di cereali, il cui prezzo è precipitato, per piantare i redditizi papaveri.
Il business è perfettamente oliato. I contadini scendono a valle per vendere il prodotto o lo consegnano direttamente ai commercianti che girano per le fattorie all’epoca del raccolto e riscuotono ad alti interessi i prestiti concessi per l’acquisto dei semi e dei fertilizzanti (è il sistema del “salaam”: crediti ottenuti come forma di pagamento anticipato sul futuro raccolto). Nelle città-bazar come Baharak e Faizabad, dove i precursori chimici sono a portata di mano, ci sono i laboratori per la raffinazione e i magazzini di stoccaggio, diffusi anche nei villaggi sul confine tajiko. I comandanti locali, con le loro milizie, presidiano i depositi e prelevano le imposte. I capi della polizia e i funzionari doganali incassano mazzette e balzelli sul trasporto. Mentre i trafficanti all’ingrosso, riconoscibili dall’inseparabile telefono satellitare portatile con cui contattano i complici oltreconfine, entrano in gioco al momento dell’export: il passaggio più rischioso, che però garantisce i margini di guadagno più elevati. Il profitto di un solo chilo di eroina contrabbandato in Iran o in Tajikistan equivale, secondo i calcoli dell’Unodc, a 4 anni di reddito di un contadino afghano. E in Europa il suo valore può raggiungere i 300 mila dollari.
Nelle aree più remote l’oppio, come la seta ai tempi di Marco Polo, viaggia con le carovane. Ne incontro una nel corridoio di Wakhan, la lunga gola che s’incunea tra i 7 mila metri del Karakorum e dell’Hindu Kush fino alla Cina: maestoso palcoscenico che nell’Ottocento vide la Russia zarista e l’Impero britannico confrontarsi nel “Grande Gioco” per il controllo strategico dell’Oriente. Sono nomadi kirghizi a cavallo. I loro cammelli e i loro yak trasportano sale, tè, latte cagliato seccato al sole e pani di “taryak” acquistati al bazar di Sultan Ishkashim, dove sono esposti tra i sacchi di mele e di patate. Li venderanno al mercato di Osh, al confine tra Kirghizstan e Uzbekistan: lì saranno trasformati in eroina, che proseguirà a bordo di camion, autobus e poi in treno o in aereo fino al Kazakhstan e alla Russia. O prenderà la strada che dal Xinjiang raggiunge i mercati di Pechino, Shanghai e Hong Kong.
In questa valle senza luce elettrica e senza ospedali dove l’oppio è la sola moneta di scambio, una pecora vale 20 grammi di droga. “I pastori scendono dal Pamir con le loro greggi e ripartono con i muli carichi di oppio” racconta Nowruz, ricercatore dell’Agha Khan Foundation. “Non ci sono controlli. I contrabbandieri utilizzano piccole imbarcazioni in vetroresina o rudimentali zattere costruite con una tavola e quattro copertoni per trasferire la merce in Tajikistan, sull’altra sponda del fiume Panj”. Da Nowruz vengo a sapere che ho passato la notte in casa del boss locale dell’eroina: il capo della polizia del villaggio di Khundud, Jan Mohammed, nemico giurato dello shah di Qal’e Panje, Said Ismail, leader politico e spirituale della comunità ismailita, maggioritaria nel Wakhan.
Lo shah, che conduce una solitaria e pericolosa battaglia contro i trafficanti, non ha peli sulla lingua: “Da 10 anni quel tagliagole terrorizza i contadini, estorce tasse, commercia in oppio ed eroina. Nell’unica scuola della valle 14 dei 20 insegnanti sono oppiomani, compreso il direttore, Mohammed Karim. Nel 2002, alla loya jirga, ho spiegato la situazione a Karzai, ma non è cambiato niente. Jan Mohammed gode della protezione di un intoccabile: il comandante Sardar Khan, amico personale del maresciallo Fahim, l’ex braccio destro di Ahmed Shah Massud diventato ministro della Difesa. E io sospetto che Sardar sia uno dei più grossi trafficanti del Badakhshan”.
Il numero dei consumatori è in aumento, anche tra le donne. A Kabul i narcodollari finanziano i cantieri degli alberghi e dei centri commerciali, le agenzie dell’Onu affittano a 6 mila dollari appartamenti che ne valevano 150 e i ristoranti di Shar-i-Now fanno affari d’oro con gli stranieri. Ma i fondi promessi per la ricostruzione arrivano col contagocce, i profughi rientrati dall’Iran e dal Pakistan sono ancora accampati tra i ruderi delle case bombardate e la disoccupazione affligge la quasi totalità dei giovani. Nejat, una ong che all’inizio dell’anno ha svolto un’approfondita indagine per conto dell’Unodc, stima in oltre 60 mila i tossicodipendenti della capitale, di cui oltre 10 mila oppiomani e 7 mila eroinomani.
Le loro storie si assomigliano. “Ho cominciato a 18 anni, per non sentire il freddo e la paura” racconta Selim, che ha combattuto con i mujahiddin di Massud. “Io invece stavo con Hekmatyar: al bazar di Sorobi vendevano oppio per pochi afghani e così mi sono fregato” dice Ali, 27 anni. “Quand’ero rifugiato in Iran” confessa Abdul “mi facevo 5 grammi al giorno. E anche adesso, tutto quello che riesco a guadagnare finisce in eroina”. Gli chiedo dove trova i soldi. Abdul china la testa: “Mando i miei tre figli a mendicare nelle strade”.