Giovanni Porzio – da Kabul (06.03.07)
L’appuntamento era per mercoledì 7 marzo in una guest house di Kandahar. Daniele Mastrogiacomo, l’inviato di Repubblica, era andato in avanscoperta con Ajmal, l’interprete che aveva promesso di farci incontrare un gruppo di taliban attivo nella zona. Domenica pomeriggio l’ultima telefonata: “Tutto bene. Ci vediamo qui”. Poi il blackout, i ripetuti tentativi per contattarlo sul cellulare e sul satellitare, il numero di Ajmal “fuori servizio”: il dejavu di Giuliana Sgrena a Baghdad. E il presentimento che col passare delle ore si tramutava in certezza: rapito.
Un mese fa Daniele mi aveva aspettato sul tetto di un hotel di Mogadiscio. “Sempre nelle più fetide sentine del mondo” scherzava. Questa volta all’appuntamento non sono arrivato. Mi hanno preceduto i sicari del mullah Dadullah. Il capo militare dei jihadisti dell’Helmand, il truculento santone intabarrato in un lungi più nero della sua nera barba che profetizza una primavera di sangue nei dvd made in Quetta in vendita a 4 dollari nei bazaar al confine pachistano. Immagini che trasudano la bellicosa tracotanza e il rinvigorito slancio di un esercito oggi meglio armato, meglio organizzato e rinnovato nella leadership. Filmati in cui centinaia di miliziani si esercitano al grido di Allahu akbar! con mitragliatrici, esplosivi e lanciagranate, maledicono gli infedeli, decapitano gli informatori, le spie e “gli agenti della Cia”.
Durante l’inverno l’armata dei seguaci di Bin Laden e del mullah Omar ha reclutato e inquadrato nuove truppe, addestrate nei campi clandestini delle province meridionali e orientali di Kandahar, Zabul, Paktika, Paktiya, Nangarhar e Kunar, a cavallo delle porose frontiere con le aree tribali del Pakistan, mai domate dal governo di Islamabad.
Dadullah afferma di poter contare su 8 mila volontari votati al martirio. Sulla quarantina, massiccio, una gamba persa in battaglia negli anni Novanta, un Kalashnikov sempre a portata di mano, il mullah che promette un “bagno di sangue” alle odiate forze della Nato è venerato dai giovani jihadisti, affascinati dalla sua leggendaria biografia. E’ miracolosamente sopravvissuto alla strage di Kunduz del novembre 2001, quando migliaia di taliban furono massacrati dalle milizie del signore della guerra uzbeko Rashid Dostum. Negli anni seguenti si è dedicato a ricostituire le forze talibane nella regione di Kandahar, di cui è diventato il comandante supremo. Lo scorso anno si è attribuito la responsabilità della maggior parte dei 139 attentati suicidi perpetrati in Afghanistan e dell’uccisione di almeno un ostaggio straniero. “Si crede invincibile” dice il giornalista pachistano Rahimullah Yusufzai, che lo conosce bene, “e non teme di essere individuato”. Dato per morto alcuni mesi fa dai comandi americani, smentì la notizia con una sprezzante telefonata alla tv araba Al-Jazeera.
“Il 2007 sarà un anno decisivo” sostiene Ahmed Rashid, autore di numerosi saggi sui taliban. “La battaglia finale contro l’estremismo islamico non si combatterà in Iraq, in Iran o in Palestina ma sul suolo afghano. Perché è qui che al-Qaeda si sta riarmando per rilanciare la jihad planetaria. Se gli scontri e gli attacchi dei kamikaze si estenderanno a tutto il paese sarà difficile per la Nato mantenere l’iniziativa sull’insieme del territorio”. Il nuovo comandante dell’Isaf (International security assistance force), il generale americano Dan McNeill, non ha perso tempo. Fedele alla massima che la miglior difesa è l’attacco ha anticipato le mosse del nemico e alle 5 del mattino di martedì 6 marzo ha ordinato l’Operazione Achille: la più grande offensiva finora lanciata delle truppe multinazionali dell’Isaf e dell’esercito afghano, con oltre seimila soldati dispiegati solo nella provincia di Helmand.
L’obiettivo strategico dichiarato dal generale olandese Ton van Loon, comandante del fronte sud, è “ristabilire la sicurezza nelle aree controllate dagli insorti e dai narcotrafficanti”. Il primo target è la diga di Kajaki, caduta nelle scorse settimane in mano talibana e poi riconquistata dopo aspri combattimenti dai militari inglesi: un impianto idroelettrico essenziale per l’economia agricola della regione. Il secondo è lo smantellamento dei santuari degli insorti: operazioni che tuttavia comportano un elevato rischio per i militari e per i civili. E che potrebbero trasformarsi in un boomerang. I “danni collaterali”, come quelli verificatisi nei giorni scorsi a Kapisa e nei pressi di Jalalabad (una ventina di civili uccisi), sono la migliore propaganda per i taliban: ogni vittima afghana è un invito al reclutamento nelle file della guerriglia.
L’offensiva, che vede in prima linea reparti scelti inglesi, olandesi e canadesi, è scattata ancor prima dell’arrivo dei rinforzi annunciati dalla Nato. Gli Stati Uniti, già impegnati nell’operazione Enduring Freedom, esterna all’Alleanza atlantica, si preparano ad aumentare da 23.500 a 27 mila il numero degli effettivi. Londra fornirà un altro battaglione in aprile, oltre a mezzi blindati, elicotteri, caccia bombardieri e batterie lanciamissili. La Polonia farà altrettanto. Ma la soluzione militare non può, da sola, rimuovere la risorgente minaccia talibana. Almeno finché gli “studenti di religione” continuano ad avere le loro basi oltreconfine, a guadagnare consensi nel sud afghano, a godere di protezioni e sovvenzioni in Pakistan.
Nei giorni scorsi, per compiacere Washington, il presidente pachistano Pervez Musharraf ha fatto arrestare un pesce grosso: mullah Obaidullah Akhund, ex ministro della Difesa talibano, membro della “shura” diretta dal mullah Omar e responsabile per le operazioni militari nell’area centrale dell’Afghanistan. Ma nelle madrasa e nelle moschee di Quetta, del Baluchistan e del Waziristan i taliban continuano ad arruolare giovani kamikaze con il beneplacito della polizia di frontiera e la connivenza dell’Isi, il servizio segreto di Islamabad. Mentre centinaia di combattenti arabi e ceceni, addestrati nei campi controllati da Abu Yahia al-Libi, alias Mohammed Hassan, evaso lo scorso anno dal carcere della base di Bagram, si preparano alla guerra santa. Musharraf è costretto a un pericoloso doppio gioco: non può permettersi di perdere il sostegno militare ed economico di Washington, ma nemmeno quello dei potenti capi tribali pashtun.
Il flusso di armi e finanziamenti alla guerriglia, che adotta tecniche sempre più irachene, è assicurato dal network di al-Qaeda e dai proventi del traffico di droga. Un business da 2,7 miliardi di dollari all’anno, pari al 52 per cento del pil afghano. Nel 2006 il raccolto di oppio ha raggiunto la cifra record di 6.100 tonnellate, il 92 per cento dell’intera produzione mondiale. E quasi la metà delle coltivazioni di papaveri è concentrata nelle fertili valli dell’Helmand, controllate dai taliban.
L’alleanza tra guerriglia islamica e narcotrafficanti, molti dei quali siedono nel parlamento di Kabul, è l’arma più potente di Dadullah. L’oppio, con un valore attuale di mercato di oltre 100 dollari al chilo, è l’unica fonte di sostentamento per centinaia di migliaia di famiglie contadine che non hanno mai visto un centesimo dei fantomatici aiuti promessi dalla comunità internazionale. I warlord difendono a colpi di Rpg i laboratori per la raffinazione dell’eroina. E il controverso programma di eradicazione delle colture è destinato ad alimentare il risentimento degli strati più poveri della popolazione, facile preda della propaganda islamista.
In Afghanistan, cinque anni dopo la sconfitta talibana, il 60 per cento delle abitazioni è ancora privo di corrente elettrica e l’80 per cento è senz’acqua potabile. Un fallimentare bilancio che un lapidario editoriale del New York Times imputa agli errori della Casa Bianca: “Nel momento cruciale l’amministrazione Bush ha distolto la potenza militare americana, l’attenzione dei politici e i dollari dei paesi donatori da una guerra necessaria e potenzialmente vittoriosa in Afghanistan per riversarli in una guerra inutile e perdente in Iraq”.
L’illegalità diffusa, la disoccupazione, il collasso dello stato in vaste regioni del paese, la corruzione che infetta tutti gli ingranaggi della società, dal poliziotto di villaggio alle più alte cariche del governo di Hamid Karzai, sono gli ulteriori fattori di instabilità che hanno consentito la riorganizzazione di al-Qaeda, del movimento fondamentalista Hezb Islami di Gulbuddin Hekmatyar e della variegate anime della guerriglia. Un’eterogenea costellazione di cellule terroristiche e capi tribali, taliban irriducibili e mullah moderati, opportunisti politici e criminali di strada, signori dell’oppio e signori della guerra uniti da un preciso obiettivo: cacciare gli eserciti stranieri e riportare a Kabul il coranico vessillo bianco dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.