bloody paradise
Il sicario è un chavo qualunque, felpa grigia, nuca rasata, sneakers ai piedi. Sbuca da un angolo oscuro di calle Urdaneta alle spalle di un tipo sulla ventina in bermuda a fiori e T-shirt, gli esplode un colpo in testa, infila la pistola nella cintola dei pantaloni, butta sul marciapiede un foglio di carta e si allontana senza fretta verso le luci della Costera, il lungomare di Acapulco.
I primi ad arrivare sono gli agenti della polizia federale, seguiti dalle camionetas dei marines e dal medico legale. Chiudono la scena del crimine con nastri di plastica gialla, fotografano il cadavere, cercano i proiettili, esaminano la narcomanta, il messaggio lasciato dal killer. I lampeggiatori rossi e blu dei gipponi militari proiettano sui muri delle case le ombre ingigantite dei necrofori della mortuaria. Sistemano la salma nella barella e la caricano su un furgone: se all’obitorio nessuno si farà avanti a reclamare il corpo, finirà insieme ad altre dozzine di cadaveri senza nome nelle fosse comuni del cimitero di El Palmar, sulle alture della sierra di Guerrero.
In un baleno poliziotti e militari si dileguano. I lampi rossi e blu scompaiono nella notte. Il sangue si asciuga sull’asfalto bollente e la strada è deserta. Devo riguadagnare la Costera. Cammino veloce, voltandomi per controllare il movimento sospetto di un’auto, lo scalpiccio di immaginari passi nel buio. Quando salto sulla psichedelica corriera che irrompe con gli amplificatori a massimo volume sull’avenida Miguel Alemán, squilla il cellulare. È Paco, fotoreporter del quotidiano El Sur: “Hola, qué pasó?” “Dos muertos en la colonia Zapata”.
I sicarios colpiscono ovunque. Nei bar e nelle discoteche del centro. Nei barrios della cintura urbana. Nei ristoranti e nei centri commerciali. Uccidono per conto dei narcos. Sequestrano e scannano chi non paga il pizzo. Gettano teste mozzate nei parcheggi dei supermarket. Sparano sulla spiaggia e fuggono a bordo di moto d’acqua. Fanno a pezzi ragazzine di 15 anni i cui resti affiorano nelle discariche di rifiuti e nelle fosas clandestinas dei quartieri popolari.
Un paradiso tropicale piombato in un inferno di violenza. I fasti degli anni Cinquanta e Sessanta sono cartoline sbiadite di un’epoca irrimediabilmente tramontata: John Kennedy e la moglie Jaqueline in luna di miele nella “perla del Pacifico”, Elvis Presley nel film L’idolo di Acapulco, il festival internazionale del cinema, le ville affacciate sulla baia del jet set hollywoodiano, gli alberghi a cinque stelle che si contendevano Marilyn Monroe, Liz Taylor e Johnny Weissmüller.
Con 804 omicidi registrati nei primi dieci mesi del 2016 Acapulco è oggi la città più violenta del Messico e una delle più violente del mondo. Le notas rojas dei giornali allungano ogni giorno il sinistro inventario degli orrori. I pali della luce, i tronchi degli alberi e le vetrine dei negozi sono pieni di manifesti con le foto dei desaparecidos. Le scuole sono presidiate da militari in assetto di guerra. E le celle frigorifere dell’obitorio non riescono più a contenere i corpi delle vittime.
La fallimentare guerra al narcotraffico dichiarata nel 2006 dal presidente Felipe Calderón è finita con un bilancio approssimativo di 150 mila morti e 30 mila scomparsi. E con il suo successore Enrique Peña Nieto la situazione si è ulteriormente aggravata. Dal 2012 al giugno 2016, secondo l’ultimo rapporto della polizia federale, gli omicidi connessi al crimine organizzato sono stati in Messico più di 43 mila. L’elenco dei “narco-stati” della federazione continua ad allungarsi: Tamaulipas, Nuevo Leon, Chihuahua, Durango, Sinaloa, Baja California, Jalisco, Michoacan, Veracruz. E al primo posto Guerrero, lo stato di cui Acapulco è la città principale, dove il barbaro eccidio nel settembre 2014 di 43 studenti della scuola rurale Raúl Isidro Burgos del villaggio di Ayotzinapa ha svelato al mondo quello che i messicani conoscono alla perfezione fin da bambini: la connivenza tra i cartelli della droga, la polizia e l’esercito, la complicità dei politici e degli amministratori locali, l’impunità assoluta degli assassini e dei loro mandanti, la corruzione che pervade ogni ambito sociale fino ai più alti livelli della magistratura, del governo e delle istituzioni dello stato.
Ma le statistiche, per quanto allucinanti, non aiutano a capire. Meglio è salire i ripidi sentieri della colonia El Jardin, sulla collina a nord di Acapulco dove abita Margarita, chiusa nel suo dolore in una baracca di lamiere e pali di legno affacciata sulla bidonville. Margarita, 60 anni, otto figli avuti da chissà chi, vive sola con un nipotino. “Se ne sono andati tutti, anche la mamma di Brian” dice. “Qui è impossibile restare. Ci sono omicidi, sequestri, rapine, spaccio di droga. Quando accompagno Brian a scuola devo stare attenta. E di notte non riesco a dormire senza i tranquillanti”. Margarita non sa perché l’anno scorso i sicari hanno ammazzato suo figlio Luis, 21 anni. Nemmeno perché il 2 febbraio le hanno portato via Miki, 29 anni, che aveva appena trovato un lavoro precario. “Raccoglieva la spazzatura al mercato centrale. Forse spacciava, forse aveva dato fastidio a qualcuno”.
Quanto dolore possono esprimere gli occhi di una madre che ha perso due figli? Più in basso, in una casupola di cemento senz’acqua e senza fogne, siedo di fronte a Tommi, 55 anni, sposata a 14, separata. Tommi aveva quattro figli, due maschi e due femmine. “Mi restano solo le due ragazze. Il primo si chiamava Florentino. Aveva 37 anni quando l’hanno ucciso in uno scontro a fuoco su un autobus, alle tre del pomeriggio del 14 agosto 2013. L’altro, Hugo Luis “Pinky”, 26 anni, sono venuti a cercarlo qui. Dormiva nell’amaca. Gli hanno sparato alla testa. Era il settembre del 2014 e da allora non sono più uscita di casa. Non vado più nemmeno in chiesa, non ho più voglia di vivere. I miei muchachos…Nunca regresáran los niños!” Il dolore di Tommi non rientra nel computo dei “morti. E nemmeno i “danni collaterali”.
Le statistiche non parlano di Mauricio Galeana Solis, 22 anni, pagina Facebook “Amigos de Mau por un dia sin dolor”. Lo incontro in un caffè del Zocalo di Acapulco: è sua madre a spingere la sedia a rotelle. “Ero con la mia ragazza in una piazza del centro, in cerca di un ristorante, nel maggio dello scorso anno” racconta con un sorriso angelico che fa spavento. “A sparare è stato un militare: inseguivano il boss di un cartello che alloggiava all’Hotel Emporio. Sono stato colpito da un proiettile vagante che ha lesionato i nervi della spina dorsale”. Un mese in terapia intensiva, quattro mesi in ospedale, nove interventi in un anno, asportazione di un rene, dialisi, colostomia. Però Mauricio, che è molto credente, non si dà per vinto. “Ho perso l’uso delle gambe, non controllo gli sfinteri, sopporto le fitte con la morfina e con l’aiuto di uno stimolatore impiantato nella spalla che alla mia famiglia è costato una fortuna: manda al cervello impulsi elettrici che placano il dolore. Ma continuo a lottare, vado all’università, faccio fisioterapia. Non mi arrendo”.
A Mario Santana, tassista nella colonia La Cima, è andata peggio. “Era la mattina del 30 agosto ed era fermo in un parcheggio del mercato” racconta la nipote Deydra, giovane avvocata che lavora per la Caritas. “Si sono avvicinati due giovani in moto, senza casco, e gli hanno sparato alla testa. Non è morto subito. Lo abbiamo trasportato all’ospedale di quartiere, una clinica privata dove per accettarlo hanno preteso 20 mila pesos. Li abbiamo trovati, ma per l’operazione ci hanno chiesto altri 30 mila pesos e tre sacche di plasma che abbiamo acquistato alla banca del sangue: altre tre abbiamo dovuto comprarle dopo l’intervento. Però mio zio continuava a peggiorare. Alle due di notte lo abbiamo portato in ambulanza all’ospedale pubblico di Ciudad Renacimiento. È morto a mezzogiorno. Lascia una moglie e quattro bambini. Non abbiamo neppure sporto denuncia: sappiamo che non serve”.
Quanto vale una vita ad Acapulco? “Quaranta pesos, un paio di dollari” afferma padre Bolmaro Hérnandez della Iglesia del Sagrado Corazón, nel centrale quartiere di Costa Azul. “È la cuota doveva pagare la venditrice di tortillas che hanno ammazzato la scorsa settimana di fronte alla mia chiesa”.
Al tramonto, quando il cielo si tinge dei colori dei Tropici, m’incammino sulla Costera. Il mare s’intravede appena, dietro la grande muraglia di cemento degli alberghi e dei condomini, frutto della speculazione edilizia degli anni Settanta, la stagione del turismo di massa, dell’urbanizzazione selvaggia, dell’esplosione demografica nelle colonias periferiche, della diffusione delle droghe: cocaina, crack, amfetamine. Ora i pochi turisti stranieri sono anziani pensionati americani, babyboomers nostalgici dell’Acapulco d’antan. Gli hotel sono semivuoti e offrono prezzi stracciati ai chilangos, i messicani della capitale federale che arrivano nel weekend.
Le navi da crociera attraccano sempre più di rado al porto. Migliaia di negozi e di esercizi commerciali, strangolati dalle estorsioni, hanno chiuso i battenti. La “zona rosa” della Condesa, con i locali notturni rutilanti di luci al neon, i monumenti alla Coca Cola, i bar di prostitute e le patetiche insegne dei ristoranti a buon mercato (Il Pirata, L’aragosta che ride, La Bella Italia), si rianima solo nei fine settimana. Ma la musica più gettonata sono i narcocorridos, gli stornelli che celebrano le gesta dei killer e dei trafficanti di droga. E il whisky più richiesto il Buchanan’s, il preferito dai narcos.
L’amministrazione comunale si sforza di promuovere l’immagine di una città sicura. Però nemmeno la presenza di un battaglione dell’esercito e di sei corpi di polizia (turistica, municipale, statale, federale, ministeriale e gendarmeria), che pattugliano la spiaggia e le vie del centro, organizzano posti di blocco, piantonano banche e casinò, riesce a fermare la mano dei sicarios. In una settimana un killer di medio rango può intascare fino a 300 dollari.
Guerrero è l’Afghanistan del Messico: i campi di papaveri dell’alta sierra sfornano il 98 per cento della produzione nazionale di oppio e Acapulco è lo snodo principale del traffico di oppiacei verso gli Stati Uniti, dove negli ultimi anni il consumo di eroina e i decessi per overdose (47 mila solo nel 2014) sono aumentati in modo esponenziale. Guerrero è anche il terreno ideale per la criminalità organizzata: montagne inaccessibili, una cultura della violenza ancestrale, una popolazione impoverita, un sistema politico corrotto.
Per lungo tempo la plaza di Acapulco è stata gestita – con la copertura dell’esercito e dei governanti locali – dal cartello Beltrán-Leyva e da Joaquín El Chapo Guzmán, boss del cartello di Sinaloa. Gli omicidi non superavano i 300 l’anno e le violenze sui civili erano contenute. Ma con l’uccisione nel 2009 di Arturo Beltrán-Leyva, l’arresto di suo fratello Carlos, del trafficante Édgar Valdez Villarreal “La Barbie” e poi del Chapo Guzmán, la precaria tregua è andata in frantumi, spianando la strada a dozzine di gang criminali sempre più brutali e fuori controllo: Cida (Cartello indipendente di Acapulco), Jalisco Nueva Generación del boss Nemesio Oseguera Cervantes “El Mencho”, Los Rojos, El Comando del Diablo, La Familia Michoacana, Los Caballeros Templarios, La Barredora, e numerosi altri gruppi, una cinquantina, in lotta per accaparrarsi il lucroso business della droga, delle estorsioni e dei levantones, i sequestri.
Falciati dai cuernos de chivo, i Kalashnikov, cadono alti funzionari come il capo della polizia di Guerrero Tomás Hernández Martínez, trucidato il 20 settembre con la moglie, e povera gente come il figlio della señora Ines della colonia La Laja, che ringrazia Dio perché il suo ragazzo non è stato squartato e ha potuto seppellirlo con la testa sul collo.
Nei villaggi della sierra a garantire un minimo di sicurezza sono i volontari delle milizie di autodifesa. A La Concepción, 600 anime nella zona rurale lungo il rio Papagayo, ci sono gli uomini del Crac, Coordinamento regionale delle autorità comunitarie: formano pattuglie, ronde notturne, posti di blocco. A Xaltianguis, 17 mila abitanti, ci sono i miliziani del Fusdeg, Frente unido por la seguridad y el desarrollo del Estado de Guerrero, armati di machete, pistole, vecchi fucili M-1 e mitragliette Uzi. “Qui non entra nessuno” assicura il comandante Carlos mentre mi scorta nel carcere dove languono due detenuti. “Chi ci ha provato l’ha pagata cara. Prima c’erano delitti, rapine, assalti con armi pesanti. Xaltianguis era un villaggio fantasma e qui intorno è pieno di fosse comuni. Da quando sorvegliamo la zona ci sono stati solo due sequestri. È semplice: se vediamo un sospetto che corre, lo inseguiamo e lo uccidiamo”.
Quello che Carlos non dice è che anche le milizie paramilitari hanno cominciato a combattersi tra loro. Il 15 ottobre il comandante del Fusdeg Julio Alarcón è stato assassinato a Chilpancingo dal sicario di un gruppo rivale. E c’è chi sostiene che il movente dell’omicidio sia sempre lo stesso: la guerra per il controllo del fiume di eroina che dalle montagne scende a valle, fino alle spiagge dorate di Acapulco.
Giovanni Porzio
06.11.2016