Ogni rivoluzione ha i suoi simboli. Quella tunisina ha avuto il corpo in fiamme di Mohammed Bouazizi, il fruttivendolo ambulante che il 17 dicembre si è dato fuoco nel villaggio di Sidi Bouzid. La rivolta che sta scuotendo l’Egitto e l’intero mondo arabo ha il volto tumefatto di Khaled Said, 28 anni, picchiato a morte dai sicari del rais in un internet cafe di Alessandria. Il 6 giugno scorso Khaled era seduto di fronte a un computer nel bar di Hassan Mosbah, poco distante dal mare, nel quartiere di Sidi Gaber. Stava mettendo sul web il video di due poliziotti che si spartivano il bottino di un affare di droga, come sostengono alcuni testimomi. O forse stava semplicemente controllando la posta prima di andare in spiaggia con gli amici. “Sono entrati due agenti in borghese” racconta Mosbah. “Lo hanno preso a pugni e a calci, gli hanno fracassato il cranio contro un tavolo di marmo e lo hanno trascinato in strada. Poi l’hanno trasportato all’obitorio di Kom el-Dekka”. Il medico legale del ministero dell’Interno ha dichiarato che Khaled è morto soffocato nel tentativo di ingoiare un involucro di marijuana. Nessuno ci ha creduto. La sera stessa le foto di Khaled circolavano nella blogosfera: l’immagine di un giovane sorridente sotto il cappuccio di una felpa grigia e quella di un viso insanguinato, sfigurato dalle percosse. Come quello delle migliaia di dissidenti, attivisti e cittadini comuni torturati e uccisi dagli sgherri del trentennale regime di Hosni Mubarak e dai baltajieh, i mercenari assoldati dal Mukhabarat, i servizi segreti che fino a poche settimane fa erano diretti dall’attuale vicepresidente Omar Suleyman: l’uomo che dovrebbe guidare la transizione democratica in Egitto. Ma nel caso di Khaled l’abituale strategia del terrore e dell’insabbiamento non ha funzionato. Pochi giorni dopo il suo assassinio è apparsa su Facebook una pagina anonima, We are all Khaled Said, che è rapidamente diventata il principale snodo dell’informazione alternativa egiziana: la piattaforma online dove continuano ad affluire foto, video e comunicati che denunciano gli abusi e la brutalità delle forze di sicurezza. Dal sito è nata un’organizzazione per la difesa dei diritti umani che conta oggi più di 473.000 membri ed è in prima linea nelle dimostrazioni di massa in piazza Tahrir. “Grazie a Facebook abbiamo vinto la paura” dice Sharif, 22 anni, studente di medicina e attivista del Movimento giovanile 6 aprile. “La repressione non è più in grado di fermarci: i carri armati non possono soffocare la libera informazione”. Solo lunedì 7 febbraio si è saputo chi fosse l’anonimo creatore di We are all Khaled Said: Wael Ghonim, 30 anni, responsabile marketing di Google in Medio Oriente e Nord Africa, rilasciato dalla polizia dopo 12 giorni di detenzione e di bastonate nelle galere di Mubarak.Anche il Movimento 6 aprile (www.6aprilmove.blogspot.com) è scaturito dal web, quando nella primavera del 2008 centomila cybernauti lanciarono un appello alla mobilitazione a sostegno dello sciopero indetto nelle fabbriche tessili di Mahalla al-Kubra, la città industriale nel delta del Nilo. I suoi aderenti sono cittadini di ogni età, orientamento politico e ceto sociale: ragazzini e anziani, cristiani e musulmani, professionisti e disoccupati. I suoi strumenti di lotta sono i blog, i telefoni cellulari, twitter, i social network. E alla sua testa c’è una giovane donna, Asmaa Mahfouz: è stata lei, il 19 gennaio, in un video di 4 minuti, a pubblicare sul web l’appello a manifestare contro “il governo corrotto” che ha mobilitato milioni di egiziani e innescato la rivolta del Cairo. Martedì 1 febbraio Asmaa ha festeggiato il suo ventiseiesimo compleanno in piazza Tahrir. “Erano tutti convinti che non ci fosse speranza” dice. “Che la gente non avrebbe reagito. Invece il muro della paura è stato abbattuto, per sempre”. Asmaa non ha lanciato una sfida anonima: ci ha messo la faccia, incorniciata dall’hijab islamico. “Temevo che fosse un gesto eccessivo in una società dove le donne sono generalmente sottomesse. Ma ho avuto ragione”. I vecchi partiti, la fiacca e connivente opposizione parlamentare tollerata dal rais e persino i Fratelli musulmani, da decenni al bando e perseguitati, sono stati presi in contropiede da una rivoluzione generazionale prima ancora che politica. E ora cercano di correre ai ripari accodandosi alla piazza. Ma sono in ritardo di anni luce. “I giovani hanno preso l’iniziativa e noi dobbiamo accogliere le loro istanze di cambiamento” ripete l’ex direttore dell’Agenzia atomica internazionale e premio Nobel per la pace Mohamed El Baradei, che già lo scorso anno aveva annunciato di volersi candidare alla presidenza. Tuttavia anche El Baradei, privo di carisma e più noto ai diplomatici stranieri che ai ragazzi del Cairo e di Alessandria, sembra destinato a un ruolo marginale. “Stiamo assistendo al più importante rivolgimento sociale dai tempi di Nasser” dice a Panorama Nabil Abdul Fatah, analista dell’Istituto di studi strategici Al-Ahram. “In piazza Tahrir ci sono i figli della globalizzazione, di una società che è radicalmente cambiata e pretende il rispetto dei diritti umani, delle libertà politiche, religiose, economiche. Sarà la generazione Facebook, che rappresenta la classe media urbana, a plasmare il futuro dell’Egitto”. Un futuro che appare incerto e carico di conseguenze per tutto il mondo arabo. Quasi la metà degli 82 milioni di egiziani ha meno di vent’anni. E il tasso di disoccupazione giovanile supera il 25 per cento. I manifestanti che ogni giorno affrontano i tank dell’esercito non si accontentano delle vaghe promesse del governo. Non si fidano di un regime autocratico e poliziesco che ha potuto sopravvivere così a lungo grazie ai dollari americani (2 miliardi di aiuti all’anno dal 1979), a una sistematica repressione del dissenso e al puntello delle gerarchie religiose tradizionali, dalla chiesa copta agli ulama dell’università di Al-Azhar. Vogliono una riforma strutturale del sistema, non un ricambio della leadership. “Mubarak” afferma Ahmed Maher, 28 anni, uno dei fondatori del Movimento 6 aprile, “è l’ultimo faraone d’Egitto. E finché resterà al potere niente potrà cambiare”.Molti egiziani sono allarmati dal marasma economico in cui il Paese rischia di precipitare. Anche se banche hanno riattivato gli sportelli, la fuga in massa dei turisti è una ferita che resterà a lungo aperta. Gli oltre 12 milioni di stranieri che visitano il Cairo, Luxor e le località turistiche del Sinai e del Mar Rosso versano ogni anno 11 miliardi di dollari nelle casse dello stato e danno da vivere a un quinto della popolazione. Impiegati e commercianti sono tornati al lavoro e il traffico è ripiombato nel caos. Ma ogni pomeriggio decine di migliaia di cairoti affluiscono in piazza Tahrir, trasformata in un presidio permanente della libertà d’espressione e di dibattito politico: una Comune di Parigi autogestita, con le sue cliniche mobili, le rivendite di cibo e di bevande, gli spazi riservati alla preghiera, le tende per trascorrere la notte, le foto dei martiri della rivolta, i palchi dei comizi, i generatori per ricaricare telefonini e altoparlanti, il servizio d’ordine sdraiato davanti ai cingoli dei carri armati. C’è una cosa che colpisce: sugli striscioni e sui muri dei palazzi del potere incendiati dalle molotov, sulle bandiere e sulle fiancate dei mezzi blindati non si vedono i simboli dei partiti e nemmeno i versetti del Corano. Lo slogan, sotto il nome di Mubarak, è uno solo: Rihal! Vattene! E la firma è sempre la stessa: Facebook.