Churches on fire
Il Cairo, 22.08.13 - Erano assetati di vendetta. Scandivano slogan islamici. Brandivano bastoni e spranghe di ferro. Cercavano un prestesto per sfogare la loro rabbia. La chiesa del Buon Pastore a Suez è stata tra le prime a essere attaccata, alle 9 del mattino di mercoledì 14 agosto, mentre i carri armati sparavano nelle piazze del Cairo. La folla ha divelto la cancellata, sfondato il portale di legno, lanciato bottiglie molotov all’interno. Nessuno è intervenuto per domare l’incendio.
L’abuna Bishay Isaac si aggira desolato tra le macerie carbonizzate del suo ufficio, tra i lettini calcinati del dormitorio per gli orfani, tra i giocattoli fatti a pezzi dell’asilo nido. “Ero qui da solo con i miei aiutanti” racconta. “Nel pomeriggio sono tornati in forze: hanno portato via i sette computer del centro studi, distrutto la sala musica e sfasciato gli altoparlanti; hanno preso tutti i documenti dell’archivio, i certificati di battesimo e di matrimonio; hanno dato fuoco alla libreria e rubato le 600 mila lire egiziane (circa 70 mila euro, ndr) che avevamo messo da parte per un pellegrinaggio a Betlemme”. L’altare di marmo è spezzato: camminiamo tra i banchi consumati dalle fiamme calpestando vetri infranti, crocefissi frantumati, immagini sacre incenerite.
Nello stesse ore a Suez è stata incendiata anche la Chiesa latina, vecchia di 120 anni. “Noi siamo musulmani” dice Imad Abdou, la cui famiglia da più di mezzo secolo vende sigarette e biscotti in un chiosco incollato al muro della chiesa. “Ma i cristiani sono nostri fratelli. I fanatici parlano di Dio senza sapere cos’è la religione”. La grande navata è un cumulo di calcinacci e di arredi riarsi. Le statue lignee di San Francesco e della Vergine sono state decapitate. I bassorilievi della Via Crucis sono sbriciolati. L’abuna Bishay si china a raccogliere la testa mozzata di un Bambin Gesù. “Continuo a dire messa anche tra le macerie” sospira. “Ma non viene nessuno. La gente ha paura”.
Nell’arco di 48 ore 60 chiese, monasteri e istituti religiosi sono stati bruciati o attaccati in Egitto: al Cairo, Giza, Assiut, Minya, nel Sinai, nel Delta, nell’Alta valle del Nilo. A Bani Suef una suora francescana, Manal, direttrice di una scuola per bambini cristiani e musulmani, è stata sequestrata e trascinata in strada: è stata salvata dall’intervento di un ex insegnante musulmano. Ad Assiut e a Minya, dove per la prima volta in 1.600 anni è stata cancellata la messa domenicale, sono stati uccisi due cristiani e un altro, un tassista colpevole di avere una croce tatuata sul braccio, è stato linciato dalla folla. A Kerdasa e nei villaggi attorno a Giza, roccaforti della Gama’a Islamiya e dei Fratelli musulmani, i fedeli non osano avvicinarsi alle chiese per timore di essere aggrediti, e anche la polizia si è finora tenuta alla larga.
L’atteggiamento passivo delle forze dell’ordine, che non hanno mosso un dito per proteggere i cristiani, percepiti dalle frange islamiche più oltranziste come partecipi del “complotto” per rovesciare il governo dell’ex presidente Mohammed Morsi, solleva qualche interrogativo. Sono in molti a ritenere che nel caos seguito ai sanguinosi raid contro i Fratelli musulmani, decisi all’alba del 14 agosto dal generale Abdul Fattah al-Sisi, si siano attivati gli agenti provocatori del nuovo regime militare: addossare la responsabilità degli attacchi alle chiese unicamente alla Fratellanza (ai “terroristi”, come li definisce con ossessiva insistenza la tv di stato) è infatti un elemento chiave della guerra di propaganda che si combatte al Cairo.
Resta il fatto che i cristiani, l’anello debole della società egiziana, sono oggi nel mirino: in un clima di rinnovato conflitto politico e sociale si sentono minacciati dagli islamisti e abbandonati dai militari.
I copti, circa il 10 per cento degli 85 milioni di egiziani, sono la più grande comunità cristiana del Medio Oriente: seguaci, in larga maggioranza, della Chiesa copta ortodossa retta dal papa Tawadros II. Durante il trentennale regime di Mubarak, che aveva messo al bando la Fratellanza e represso i gruppi fondamentalisti, avevano goduto, non diversamente dai confratelli dell’Iraq saddamita e della Siria alawita, della relativa protezione che alle dittature arabe conviene accordare alle minoranze religiose. Ma sul piano politico, giuridico e sociale, sono stati inesorabilmente emarginati.
“Siamo commercianti, professionisti, imprenditori. Ma siamo sempre considerati cittadini di seconda classe” afferma Yousef Sidhoum, direttore del settimanale copto Al-Watani. “Ci vengono imposte restrizioni legali per la costruzione delle chiese e l’acquisizione di terreni; discriminazioni negli impieghi amministrativi e nelle istituzioni pubbliche. Siamo sotto rappresentati nell’esercito, nella polizia, nel corpo diplomatico, nel settore giudiziario, nelle banche, nelle università. Non abbiamo accesso all’intelligence e ai servizi di sicurezza. E il sistema educativo è sempre più orientato in senso islamico”.
Tra i copti della capitale ci sono anche i 60 mila zabbalin di Garbage City, i raccoglitori d’immondizia che vivono sulla Muqattam, la montagna del Cairo: riciclano da quasi un secolo migliaia di tonnellate al giorno di rifiuti, alimentando un proficuo business informale e svolgendo un’attività essenziale nella caotica megalopoli sul Nilo (oltre 20 milioni di abitanti).
La parola d’ordine tra i cristiani d’Egitto è sempre stata il basso profilo. Ma il 3 luglio scorso Tawadros II ha rotto gli indugi: di fronte al tentativo di islamizzare la costituzione e all’escalation di violenze subite dai kafir, i copti “eretici” nella terminologia degli agit-prop islamisti, è apparso alla tv al fianco del generale Al-Sisi e del Gran Mufti della moschea di Al-Azhar (massima autorità spirituale sunnita), Ahmed al-Tayeb, per giustificare l’estromissione di Morsi. Una mossa rischiosa, subito stigmatizzata dal leader di al-Qaida Ayman el-Zawahiri e dai predicatori wahhabiti delle tv saudite, che pone senza ambiguità i cristiani nella surriscaldata arena politica del Paese.
L’amba Rafael, responsabile delle chiese copte del Cairo, non usa infatti mezzi termini: “I Fratelli musulmani” dice al termine della messa nella chiesa di San Marco, dopo un profluvio d’acqua santa, d’incenso e di benedizioni, “hanno sempre avuto l’intenzione di imporre un governo islamico. Si sono presentati come dei moderati, ma hanno ingannato gli elettori. Non c’è differenza tra loro e i salafiti: non discutono, sparano. Il popolo egiziano lo ha finalmente capito”.