Giovanni Porzio – da Città del Guatemala (15.12.09)
La soffiata segnalava un carico di droga parcheggiato in un deposito della zona industriale alla periferia di Città del Guatemala. Ma quando la squadra antinarcotici si è avvicinata è stata investita da un micidiale fuoco di sbarramento: 5 poliziotti sono rimasti uccisi e i killer, membri della gang messicana degli Zetas, braccio armato del cartello del Golfo, sono fuggiti lasciandosi alle spalle 350 chili di cocaina, 11 mitragliatrici M-60, 8 mine Claymore, un razzo anticarro di fabbricazione cinese e più di 500 granate.
La guerra contro i narcos sembra già perduta: i 20 mila agenti della polizia, corrotta e priva di mezzi, non sono in grado di fronteggiare gli agguerriti eserciti al soldo dei trafficanti che hanno trasferito le loro basi operative in Guatemala e hanno trasformato il paese nella principale piattaforma di transito della coca colombiana verso i mercati degli Stati Uniti e dell’Europa.
L’offensiva antidroga lanciata nel 2006 dalla Casa Bianca e dal governo messicano ha costretto i potenti boss dei cartelli del Golfo e di Sinaloa a spostare il baricentro delle attività illecite in America Centrale. E le opportunità offerte dal Guatemala, dove i narcos locali fanno capo al clan dei Lorenzana, sono di gran lunga le più favorevoli. Trentasei anni di guerra civile (1960-1996) con un bilancio di 200 mila morti, un milione di sfollati e migliaia di desaparecidos hanno lasciato un’eredità di miseria e di violenza diffusa, di istituzioni fragili, di impunità generalizzata, di militari e di politici collusi, di giudici ricattabili, di banche che riciclano il denaro sporco.
In Guatemala l’insicurezza alimentare colpisce il 50 per cento della popolazione, metà dei bambini sotto i cinque anni soffre di denutrizione acuta e il tasso di mortalità infantile è secondo, nell’emisfero occidentale, solo a quello di Haiti. La prolungata siccità che ha danneggiato i raccolti di mais e di fagioli, alimenti base della dieta, ha causato la morte di 470 persone e ha costretto il governo a dichiarare lo stato di emergenza. La recessione mondiale ha tagliato rimesse degli emigranti, che equivalevano al 12 per cento del pil. Le disuguaglianze sociali sono impressionanti anche per gli standard latinoamericani. Ed è facile per i narcos, nel baratro di una povertà estrema, reclutare manovalanza a buon mercato e sicari pronti a tutto.
Il presidente Álvaro Colom, eletto nel 2007, ha già destituito tre ministri dell’Interno e quattro capi della polizia nazionale implicati in traffici di droga. Ma la sua azione è pesantemente condizionata dalle lobby che controllano il paese: quella dei cafetaleros e dei cañeros, i latifondisti del caffè e della canna da zucchero (principali prodotti d’esportazione), discendenti dei coloni spagnoli che espropriarono le terre degli indigeni maya; quella dei gruppi economici emergenti legati al settore bancario e assicurativo; e quella, sempre più aggressiva, della criminalità organizzata.
“Le forze dell’ordine erano infiltrate dai narcos: ho appena rimosso tutti i comandanti della polizia” dice a Panorama il nuovo ministro dell’Interno Raúl Velásquez. “Abbiamo creato una forza speciale antidroga, con unità navali e quattro elicotteri forniti da Washington, collaboriamo con l’intelligence americana e messicana e stiamo cercando di fare approvare una legge per il sequestro dei beni e dei capitali darivanti dal narcotraffico. Ma i nostri mezzi sono insufficienti. Dobbiamo pattugliare la costa atlantica e quella del Pacifico, 400 chilometri di confine con l’Honduras e 962 chilometri di frontiera messicana con oltre 40 valichi utilizzati per far passare la droga”. I trafficanti, che controllano intere province nel nord e nell’est del paese, si servono anche di rudimentali sommergibili e di dozzine di piste di atterraggio clandestine: il Guatemala ha la più alta percentuale al mondo di aerei privati in rapporto alla popolazione.
Droga e violenza sono facce della stessa medaglia. In un anno si sono registrati più di 6 mila omicidi, una media di 17 al giorno, il 48 per cento dei quali connessi al traffico di stupefacenti: cocaina, crack, marijuana, amfetamine, ecstasy, oppiacei e sostenze sintetiche. E la giustizia latita. Degli oltre 94 mila processi istruiti dai tribunali per crimini vari nel 2008, solo il 3,75 per cento è arrivato a sentenza. Sono all’ordine del giorno casi come quello del giudice della città di Cobán Moises Chavarria, che ha ordinato la scarcerazione di quattro sicari della gang Zetas e di tre membri della famiglia del noto boss della droga Horst Walther Overdick Mejía. Ed è nella capitale, dove vive un terzo dei 14 milioni di guatemaltechi, che si coagula l’infernale impasto di criminalità, degrado, corruzione e impunità.
Ciudad de Guatemala sembra Baghdad. Diplomatici, ricchi impresarios e boss del narcotraffico vivono asserragliati nei compound con eliporti privati della Zona 14, la “zona verde” della città: ville con piscina e campi da tennis, Porsche e Ferrari, lussuosi centri commerciali, guardie del corpo, cani lupo, sistemi elettronici di allarme. I “gringos” si avventurano di rado, e mai a piedi, nei quartieri del centro e nelle periferie dove si può morire ammazzati per un telefonino e dove imperversano le “maras”, le bande giovanili come la “18” e la Salvatrucha (nate tra gli immigrati salvadoregni di Los Angeles), che si combattono selvaggiamente e si dedicano all’estorsione, ai sequestri di persona, allo spaccio di droga e alle rapine, anche in pieno giorno.
“Dall’inizio dell’anno hanno fatto fuori più di 200 autisti di autobus” racconta Julio, che mi fa da guida nelle insidiose “zone rosse” della capitale. “Non volevano pagare il pizzo. Qui tutti i trasporti sono in mano alle mafie dei narcos, che controllano anche il racket della prostituzione e della pedofilia, lo smaltimento dei rifiuti, il traffico di armi e l’edilizia. I boss investono nel mattone: sono spuntati nuovi palazzi e grattacieli, ma almeno 6 mila appartamenti restano sfitti”. Solo di recente il governo è riuscito ad arginare il losco business delle adozioni: negli ultimi 18 anni 36 mila bambini guatemaltechi, in gran parte orfani di guerra, sono stati letteralmente venduti (anche, si sospetta, per espiantarne gli organi) nelle hall degli alberghi Camino Real e Marriott e sono spariti negli Stati Uniti.
Camminiamo verso il centro. Gli uffici e le banche sono presidiate da contractor privati armati di pistole e fucili a pompa addestrati da società israeliane come la Asi, Agencia de seguridad israelí: sono più di centomila, dieci volte più numerosi dell’esercito nazionale. I negozi hanno sbarre di ferro al posto delle vetrine. Non si vedono stranieri nemmeno al Portalito, lo storico ristorante frequentato da Che Guevara e dal premio Nobel Miguel Angel Asturias, gloria nazionale; e neppure al Parque Central, di fronte alla Cattedrale, dove l’orchestra municipale offre un concerto gratuito di marimbas. “I turisti fanno il giro della piazza in pullman e se ne vanno” spiega Julio.
L’insicurezza è palpabile. Dopo il tramonto le strade si svuotano e al mattino i giornali e Radio Punto diffondono il quotidiano bollettino di guerra: “Cinque autisti assassinati”, “Agente di polizia linciato”, “500 chili di coca rubati da funzionari della dogana”. I quartieri direttamente controllati dai narcos sono, paradossalmente, i meno pericolosi. A El Gallito, alla Verbena, alla colonia El Limon e a Los Olivos non ci sono rapine e non si sente sparare: i trafficanti non vogliono fastidi dalla polizia, che in quelle zone non si azzarda a entrare.
Alla Verbena, 15 mila abitatori di baracche di lamiera e di cemento a picco sul barranco del “relleno”, l’immensa e putrida discarica della capitale, tutto fila liscio: i “mareros” della Salvatrucha sono stati addomesticati o eliminati a raffiche di mitra, le scarpe da tennis appese ai fili della luce indicano le case dove si spaccia e dove i padrini fanno la legge, organizzano cene di compleanno, distribuiscono birra gratis e regali di Natale ai bambini. Le sera la gente accorre alla festa della Vergine della Medaglia miracolosa, patrona del quartiere: bancarelle con tortillas, pannocchie di mais e zeppole fritte, ragazze imbellettate e guappi tatuati in sella a potenti motociclette. Musica, danze e fuochi d’artificio sono offerti dei boss che sgommano a bordo dei Suv, sfoggiando catene d’oro al collo, vistosi anelli e doppiopetto di tessuto acrilico.
Ma se Città del Guatemala è la centrale logistica e – insieme a Panama – finanziaria dei narcos, i grossi carichi di droga transitano nelle province settentrionali al confine con il Messico e nelle aree costiere. I rapporti della Dea e della sezione narcotici dell’ambasciata americana, che ha appena elargito 6,7 milioni di dollari al governo Colom per la lotta alla droga, sono allarmanti: ogni anno passano dal Guatemala più di 400 tonnellate di cocaina, ma solo 2,2 tonnellate sono state sequestrate negli ultimi 12 mesi. L’unico trafficante arrestato nel 2008, Waldemar Loranzana, è stato rilasciato per un cavillo giuridico. L’import di precursori chimici utilizzati nella raffinazione della coca e nella fabbricazione delle droghe sintetiche è in costante aumento, mentre si diffonde la coltivazione del papavero da oppio le cui sementi sono fornite ai contadini dai cartelli messicani, che grantiscono l’acquisto del prodotto.
Nel Pacifico le “navi madri” scaricano le partite di cocaina in acque internazionali a bordo di piccoli pescherecci che raggiungono la costa, dove la droga viene parcellizzata e inoltrata in Messico. Lungo il versante caraibico la coca viaggia su veloci lance che dall’Honduras raggiungono le isole guatemalteche e i porti di Livingston e Puerto Barrios, per poi risalire i fiumi verso il confine messicano. Quantitativi più ingenti transitano in container via terra e via mare. Mentre la giungla a nord e a ovest della “città perduta” di Tikal, straordinario complesso di piramidi e rovine maya, cela una fitta rete di aeroporti clandestini a disposizione dei narcos: i giornali locali pubblicizzano la vendita di “fincas con annessa pista di atterraggio”.
Il Guatemala, secondo gli analisti della Dea, è sul punto di convertirsi in un narco-stato. Come previsto dall’avvocato Rodrigo Rosenberg, che la scorsa primavera aveva accusato in un video registrato la banca Banural, controllata da uomini vicini al presidente, di riciclaggio di denaro. Il 10 maggio, mentre andava in bicicletta, Rosenberg è stato assassinato.