Congo wars
Le guerre ci hanno abituato a scenari apocalittici: le macerie fumanti dei villaggi del Donbass, gli scheletri degli edifici sventrati dai missili, le città e gli ospedali della Striscia di Gaza rasi al suolo dai tank e dall’aviazione israeliana. Immagini che ogni giorno riempiono i media del mondo intero. L’apocalisse del Congo, dove più di sei milioni di esseri umani sono stati massacrati e altrettanti sono morti per fame e malattie, si consuma da trent’anni in silenzio, lontano dalle telecamere, nell’assoluta indifferenza della comunità internazionale.
Nel Nord Kivu il paesaggio trae in inganno. Il triangolo dell’orrore tra la Repubblica democratica del Congo (Rdc) e le province occidentali del Rwanda e dell’Uganda, la “Svizzera dell’Africa”, è un susseguirsi di laghi e lussureggianti colline che tra bananeti e campi di mais salgono fino a lambire la grandiosa catena dei vulcani Virunga. Della guerra non si scorgono che colonne di fumo e sinistri bagliori di fuochi notturni: eccidi che si compiono in zone remote e inaccessibili, stupri di massa, cadaveri abbandonati negli oscuri recessi della foresta pluviale. Unici testimoni i sopravvissuti, che si rintanano nei campi profughi a ridosso dei confini.
Nkamira è un campo di prima accoglienza gestito dall’Unhcr, a poca distanza dai parchi dove i turisti vanno a fotografare i gorilla. Sotto tendoni di plastica e lamiera piantati nella roccia lavica sono ammassati 2.500 adulti e 3.000 ragazzini, molti rimasti orfani: una frazione degli otto milioni di congolesi, sfollati e rifugiati, sradicati dal conflitto. Le donne cucinano nei fetidi vialetti tra le tende. I pochi vecchi si scaldano al sole fissando nel vuoto. In un capannone dove centinaia di bambini attendono di essere pesati e visitati aleggia – qui come in tutti i campi profughi del pianeta – l’odore del Plumpynut, la pasta proteica a base di arachidi che è sinonimo di malnutrizione.
“Abbiamo molti casi di malnutrizione acuta” dicono gli infermieri. “E poi: malaria, hiv, tubercolosi, malattie respiratorie”. Con i donatori impegnati nelle emergenze dell’Ucraina e della Palestina, le risorse scarseggiano. “Prima riuscivamo a distribuire tre pasti al giorno con riso e verdure” spiega Lilly Carlisle, responsabile comunicazione dell’Unhcr. “Ora solo due pasti, mais e fagioli”.
Arriva una famiglia, i genitori con tre figli piccoli. Stremati. Quattro giorni di cammino dal villaggio di Kalehe, braccati dai loro aguzzini. “Le milizie hanno attaccato di notte” racconta Gashabizi, il padre. “Hanno ucciso i vicini e incendiato le capanne. Siamo scappati appena in tempo”.
Si avvicina una donna con una cicatrice sulla guancia. Viene da Mushaki, sull’altopiano di Masisi. “Mi hanno sparato in faccia mentre saccheggiavano la casa. Non so se mio marito e i miei figli sono vivi o morti. Io sono svenuta. Un soldato mi ha caricato su una moto e mi ha portato in ospedale. Qui sono sola, ma mi prendo cura di un’orfana di 14 anni che è stata stuprata e ha appena partorito”. La donna mi accompagna dalla madre-bambina, tendone n° 3, alloggio 7, una porta di ferro arrugginito, uno stanzino senza luce, un materasso e un telo steso su un corpo scosso da un pianto disperato. Non riesce a parlare.
Prova Charmante, 24 anni e due figli, a descrivere le violenze subite. Tiene le mani sul volto, per coprire le lacrime e la vergogna, per non vedere le immagini che sta ricordando: “Quando hanno attaccato il villaggio ci siamo nascosti in una piantagione di miglio, ma ci hanno trovato. Mio marito era via con le vacche. Mi tenevano ferma, con le gambe aperte. Ridevano e puzzavano di birra. Poi hanno stuprato mia sorella, l’hanno uccisa e gettata in una latrina. I bambini piangevano, erano terrorizzati. Siamo vivi perché c’è stata un’altra sparatoria e le milizie se ne sono andate”
L’agonia del Congo, innescata dal genocidio del 1994 in Rwanda e dal crollo del regime cleptocratico di Mobutu Sese Seko a Kinshasa, è inarrestabile. Solo nelle province orientali più di cento gruppi armati si contendono con disumana ferocia il territorio e le immense ricchezze del sottosuolo. A nulla sono serviti i militari inviati dalla Comunità dei Paesi est-africani e i 18.000 caschi blu dell’Onu: il presidente congolese Felix Tshisekedi, rieletto nel voto-farsa del 20 dicembre, ne ha ordinato l’immediato ritiro.
La guerra civile, riesplosa con maggiore intensità negli ultimi mesi, è già alle porte di Goma, il capoluogo del Nord Kivu. Si combatte a Kibumba, venti chilometri dalla città, dove nel febbraio 2021 perse la vita in un agguato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Le strade per l’Ituri e Masisi, infestate da bande di killer, sono impercorribili, mentre l’ondata degli sfollati (800 mila dallo scorso marzo) continua a ingrossarsi.
Le principali forze in campo sono il Movimento 23 marzo (M23), sostenuto, armato e addestrato dal Rwanda di Paul Kagame, che afferma di voler proteggere i congolesi di etnia Tutsi perseguitati dalle milizie Hutu implicate nel genocidio; l’esercito congolese (Fardc), notoriamente corrotto, brutale e indisciplinato, che ha affidato la difesa di Goma a un battaglione di mercenari ed ex legionari romeni e si avvale di un’accozzaglia di milizie locali, i Wazalendo, “patrioti”, responsabili – al pari degli altri gruppi – di efferati crimini: stragi, esecuzioni sommarie, mutilazioni, cannibalismo rituale, violenze contro le donne. Ogni anno in Congo, stimano le agenzie dell’Onu, vengono stuprate più di 15 mila donne, tra cui molte bambine. E solo tra le rifugiate nei campi intorno a Goma gli operatori di Medici senza frontiere registrano 70 casi al giorno di violenza sessuale.
Altri pericoli allignano nelle foreste ai piedi del vulcano Nyiragongo: le epidemie di colera, le frecce avvelenate dei batwa, i pigmei, gli agguati dei kadogo, i bambini-killer, i soldati ubriachi in caccia di bottino, le incursioni dei Mayi Mayi, guerrieri che infusi di erbe (e molta chanvre, marjuana) renderebbero invulnerabili. Non manca un gruppo affiliato all’Isis, l’Adf, Allied democratic force, che dall’Uganda si è spostato nel Nord Kivu, dove a colpi di attentati kamikaze e massacri di centinaia di civili ambisce a instaurare un califfato islamico nel cuore dell’Africa.
L’assenza di una credibile strategia politica e diplomatica e la proliferazione dei movimenti armati alimentano la spirale di violenza. Anche perché nessuno è intenzionato a riconoscere, tanto meno a recidere, le vere radici dell’interminabile conflitto: gli interessi che regolano il saccheggio indiscriminato delle risorse del sottosuolo. Un business che coinvolge governi, imprese multinazionali, industrie militari, elettroniche, aeronautiche. Un fiume di sangue, di armi e di dollari che dalle miniere del Congo risale lungo mille rivoli ai caveau delle banche di Kinshasa, Kigali, Kampala, finendo per sfociare nel circuito del commercio internazionale dei minerali strategici e dei metalli pregiati.
Il Congo possiede gran parte delle riserve mondiali di coltan (columbite-tantalite), il conduttore utilizzato nei microchip dei telefoni cellulari, nelle centrali nucleari, nei missili di lunga gittata e nell’avionica militare; il 70 per cento del cobalto, componente essenziale nella produzione delle batterie al litio delle auto elettriche e dei computer portatili; estesi giacimenti di oro, diamanti, uranio, petrolio, rame, argento, carbone, stagno, zinco, manganese, wolfranio, cadmio, berillio, cassiterite, manganese.
Nelle province centrali e orientali, dove le piogge trasformano le piste in fiumi d’argilla e gli unici mezzi di trasporto sono le piroghe, dove l’autorità di Kinshasa è simbolica come ai tempi di re Leopoldo, i trafficanti e i signori della guerra godono di un’impunità assoluta. Il contrabbando dei minerali verso l’Uganda e il Rwanda prosegue indisturbato, mentre le società straniere – occidentali e cinesi – si contendono a suon di miliardi le concessioni per l’estrazione industriale su larga scala. Ma l’Eldorado del Congo, con un pil pro capite inferiore a 500 dollari, resta uno dei più poveri Paesi del mondo, e un inferno per chi lo abita.
Nelle miniere controllate dalle milizie e dai contractor delle compagnie private lavorano come schiavi migliaia di creuseurs, “cercatori”, in gran parte minori che hanno abbandonato la scuola: solo nelle cave di cobalto ne muoiono duemila all’anno, annegati o schiacciati dai crolli nelle gallerie sotterranee. La ricerca del massimo profitto, l’opacità delle transazioni bancarie, l’intreccio di corruzione e connivenze politiche, sono meccanismi da tempo consolidati nella Rdc. Come dimostra l’emblematica vicenda di Dan Gertler, un personaggio che ricorda il Kurtz del Cuore di tenebra di Conrad.
Dopo la cacciata di Mobutu Gertler, nipote di Moshe Schnitzer, uno dei fondatori della Borsa dei diamanti di Tel Aviv, si precipita in Congo e ottiene l’esclusiva per l’esportazione delle preziose gemme. Negli anni seguenti acquisisce a prezzi stracciati licenze nel settore petrolifero e minerario che rivende con enormi ricavi alle multinazionali e allo stesso governo di Kinshasa, accaparrandosi allo stesso tempo nuove lucrose concessioni. Solo tra il 2010 e il 2012 il magnate israeliano, con operazioni finanziarie condotte da società offshore, avrebbe sottratto alle casse dello stato congolese un miliardo e 360 milioni di dollari.
Sanzionato nel 2017 dal Tesoro americano per corruzione, Gertler ha continuato a intascare royalty e a investire, aggirando l’embargo attraverso un network internazionale di riciclaggio e con la complicità della Afriland First Bank: due funzionari della banca, accusati di cospirazione per avere rivelato lo schema, sono fuggiti all’estero inseguiti da una sentenza di condanna a morte.
Dan Gertler ha amici potenti: l’ex capo del Mossad Yossi Cohen è volato tre volte in segreto a Kinshasa per patrocinare la sua causa. E ha soldi a palate: con la promessa di restituire al Congo due miliardi di dollari in “diritti minerari” ha convinto il presidente Tshisekedi a chiedere ufficialmente a Washington di revocare le sanzioni che intralciano i suoi affari.