Giovanni Porzio – da Port Harcourt (20.06.07)
La barca punta dritta nella muraglia verde della foresta sulla sponda del creek e scivola in un canale d’acqua ferma che serpeggia nel labirinto di liane e di mangrovie. Piove a dirotto, con la violenza primordiale dei temporali africani. La luce diafana dell’alba filtra di sbieco dalle fessure della volta vegetale. Dai rami, girata un’ansa paludosa, pendono nastri colorati, specchi, feticci intagliati. “Sono i ju-ju: hanno poteri magici” dice Ezekiel, la mia guida. “Proteggono l’accampamento”.
Siamo nel Bayelsa, il farwest della Nigeria, dove le bande armate fanno saltare con la dinamite i pozzi del greggio e le pipeline, assaltano le piattaforme off-shore, ingaggiano sanguinosi combattimenti con l’esercito e si dileguano negli sterminati acquitrini del Delta del fiume Niger. Dove gli “oyibo”, i bianchi, non osano avventurarsi: più di 200 tecnici stranieri delle compagnie petrolifere, Agip, Shell, Chevron, Total, Elf, sono stati rapiti negli ultimi 18 mesi.
Le sentinelle fanno segno di aspettare in una capanna di assi e di frasche. La pioggia batte sulla tettoia di lamiera, le foglie lucenti delle felci giganti stillano gocce sui tronchi fasciati di muschio. E’ il tempio del loro dio, Owu Ase Adumu, il pitone reale. Ci sono chiodi arrugginiti e coltelli, infissi alle pareti; crani e corna di bufali, conchiglie, pelli di animali, idoli d’argilla, marmitte con pozioni d’erbe miracolose. E bottiglie di kai-kai, l’acquavite di palma.
Il rullo dei tamburi di guerra si avvicina. E dal folto della selva sbucano i “boys”: un centinaio di miliziani che avanzano a passo di danza, brandendo fucili, mitraglie e machete. Indossano gli sgargianti abiti rituali. Alcuni hanno il volto coperto dai passamontagna. Altri ostentano visi dipinti, maschere, braccia tatuate e collane di amuleti. Si fanno chiamare “Isein Asawo”, Nove uomini, il numero dei guerrieri delle unità d’assalto. E il loro capo è Oseiekube Kuma Munafa “Clever”, 45 anni, del villaggio di Nembe: un informe agglomerato di palafitte e case col tetto di alluminio ondulato su cui si erge la cattedrale anglicana di San Luca, la più antica del Delta, e dove si sgretolano nell’abbandono le tombe dei re che resistettero ai coloni bianchi.
“Quando attacchiamo non indietreggiamo mai” spiega Clever, ricercato per insurrezione dal governo, mentre si scola l’ultimo sorso di kai-kai. “I teme, gli spiriti della foresta, ci rendono invincibili. Ma uccidere non è il nostro scopo. Lottiamo per difendere i nostri diritti. Le compagnie petrolifere si comportano come i coloni portoghesi e inglesi: trafugano le nostre ricchezze e non ci lasciano niente. Non abbiamo scuole, ospedali, strade. Qui l’unica attività è la pesca, e il petrolio distrugge i nostri fiumi: ha trasformato le terre degli Ijaw e degli Ogoni in un cimitero”.
Clever e gli adepti della sua setta mistica, che oggi conta almeno 460 uomini, sono stati tra i primi a prendere le armi, nel 1987: “Vogliamo investimenti, sviluppo, lavoro” proclama il santone. “Altrimenti metteremo a ferro e fuoco l’intera regione e costringeremo le compagnie petrolifere ad andarsene”. La ribellione si estese dopo la condanna a morte di Ken Saro Wiwa, scrittore e attivista per i diritti umani, giustiziato con altri otto compagni di etnia ogoni il 10 novembre 1995. I sabotaggi alle pipeline e i sequestri cominciarono a moltiplicarsi, come pure le sigle dei gruppi oggi riuniti nel Joint revolutionary council: Mend, Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger; Brigate dei martiri; Coma, Coalition for militant action; Ndvf, Forza popolare volontaria del Delta del Niger.
L’esercito ha inviato motovedette e contingenti di rinforzo, ma non può garantire la sicurezza degli impianti, che pompano 2,2 milioni di barili al giorno. Anche perché dietro i passamontagna dei rivoltosi si celano spesso bande di criminali e di rapinatori manipolati dalle mafie che si dedicano al business degli ostaggi e alla pratica del “bunkering”: il sistematico furto e contrabbando di migliaia di tonnellate di petrolio, organizzato dai trafficanti con la complicità della polizia e dei politici locali. Che si arricchiscono incamerando il 13 per cento dei proventi degli idrocarburi, la quota destinata dal governo di Abuja agli “oil states”.
Le multinazionali sono in allarme: attacchi e sabotaggi le hanno costrette a ridurre del 25 per cento la produzione, con una perdita secca per l’erario di Abuja, nel 2006, di 12 miliardi di dollari. Ma è tutto l’Occidente industrializzato a seguire col fiato sospeso il conflitto nel Delta. La Nigeria è l’ottavo esportatore di greggio al mondo e il terzo fornitore degli Stati Uniti, con riserve accertate di oltre 36 miliardi di barili: olio leggero, a basso tenore di zolfo e di residui, che costituisce il 95 per cento dell’export e la principale fonte di entrate in valuta. I giacimenti di gas naturale contengono oltre 3.500 miliardi di metri cubi.
Eppure il 70 per cento dei 140 milioni di nigeriani vive con meno di un dollaro al giorno e il primo produttore di petrolio del continente deve importare la benzina. Gli oltre 380 miliardi di dollari in royalties incassati in 40 anni dal governo federale sono stati sperperati o semplicemente rubati da una nomenklatura tra le più corrotte del pianeta. Leggendo il bilancio consuntivo 2006 del Rivers State, per esempio, si scopre che l’ufficio del governatore ha speso 65 mila dollari al giorno in limousine, 10 milioni in catering e regali, 38 milioni per l’acquisto di due aerei privati. E solo 22 milioni per il servizio sanitario.
Il neopresidente Umaru Yar’Adua ha promesso un piano d’emergenza per i nove stati del Delta e giovedì 14 giugno ha ordinato la scarcerazione del leader della Ndvf, Mujahid Dokubo-Asari. Ma non è servito. Il giorno stesso i “boys” hanno assaltato e occupato la stazione di pompaggio dell’Agip di Ogboinbiri, nel Bayelsa, uccidendo una decina di militari: l’impianto è stato riconquistato dalle truppe federali dopo una battaglia con una dozzina di morti. Un oleodotto della Shell, una stazione di pompaggio della Chevron e due pipeline dell’Eni sono state sabotate. Il prezzo del barile è risalito a 70 dollari. E nei giorni precedenti, dopo l’ennesimo sequestro di alcuni dipendenti e dei loro famigliari, la società indiana che gestisce il complesso petrolchimico di Eleme aveva annunciato la chiusura della più grande industria della zona. “Gli stranieri sono avvertiti: devono tornarsene a casa” ha ribadito Dokubo-Asari.
All’accampamento di Clever i miliziani sono pronti a entrare in azione. Caricano i bazooka e gli Rpg sulle lance in vetroresina con i potenti fuoribordo Yamaha da 115 cavalli, seguono i tortuosi meandri, attraversano le lagune malariche di cui conoscono ogni anfratto e sbucano nel Niger, zigzagando tra le isole di gigli galleggianti, le piroghe dei pescatori di tilapia, le canoe che trasportano sabbia ai cantieri, noci di cola e pesce affumicato ai mercati. I cartelli che avvertono: “Non ancorare. Pipeline ad alta pressione”. Sui fondali passano migliaia di chilometri di tubi e nelle anse ristagnano chiazze di petrolio: gli “spills” provocati dalla corrosione, dai sabotaggi, dai guasti alle attrezzature sono sempre più frequenti. Spesso s’incendiano, sprigionando masse di fumo nero e oleoso.
Il disastro è aggravato dalle emissioni di gas: due milioni di metri cubi al giorno di metano, monossido e biossido di carbonio e acido solforoso generati dalla combustione dei residui dei procedimenti estrattivi. Il 12 per cento del totale mondiale. Il network di 73 “flares” della Shell potrebbe fornire energia elettrica a tutta la regione; ma bruciare i residui è più facile, più conveniente. Uno scempio ecologico che le multinazionali stanno cercando di limitare riducendo i quantitativi immessi nell’atmosfera. Ma intanto le piogge acide continuano a distruggere la vegetazione. E di notte sono i perpetui bagliori rossastri delle fiaccole del gas a illuminare i miserabili villaggi senza luce e senz’acqua potabile.
Lungo il fiume gli impianti di pompaggio della Shell, difesi da nidi di mitragliatrici e palizzate di filo spinato, ricordano le sinistre stazioni commerciali sul Congo descritte da Conrad in Cuore di tenebra: oro nero, oggi, invece di oro bianco e schiavi. Alla foce, sull’isola di Brass, gli “oyibo” sono stati evacuati: i tecnici stranieri si spostano solo in elicottero e il terminal e le gigantesche cisterne dell’Agip sono presidiate da soldati armati.
Anche da Port Harcourt, la capitale africana del greggio, i bianchi sono in fuga. Nella città paralizzata dal traffico selvaggio e allagata dalle piogge vige la legge del Kalashnikov. Rapine, attentati, sequestri a scopo di riscatto e sparatorie si susseguono a ritmo quotidiano non solo negli slum senza fogne infestati da topi e zanzare ma anche, in pieno giorno, nei quartieri del centro. Bar e ristoranti sono vuoti: persino le ragazze che si prostituivano nei night si sono trasferite a Lagos. Chi è rimasto vive rinchiuso in compound convertiti in bunker. Come gli italiani della Alcon, una ditta che lavora nell’impianto Shell di Okoloma: doppia recinzione in acciaio, altane di avvistamento, sistemi elettronici di allarme, fotocellule, sacchetti di sabbia, postazioni dell’esercito. “Sembra di stare a Guantanamo” raccontano. “Di qui possiamo uscire solo con la scorta, in convoglio”.
Gli insorti hanno ha ottenuto alcuni risultati: l’apertura al negoziato del nuovo presidente, la liberazione di Dokubo-Asari, l’impegno delle compagnie petrolifere a investire nello sviluppo sociale delle 291 comunità del Delta. Ma le multinazionali, sempre più orientate ad ampliare le meno rischiose attività off-shore, non possono sostituirsi al governo nigeriano, la cui strategia sembra per ora limitarsi a una generosa “campagna acquisti” nei confronti dei leader tribali e delle bande ribelli meno politicizzate, avvezze a cambiar bandiera per qualche pugno di dollari. E il misterioso Jomo Gbomo, il presunto capo del Mend, che dal suo nascondiglio comunica soltanto via e-mail, ha fatto sapere che non intende scendere a compromessi.
“Non ci faremo comprare” scrive dal suo rifugio segreto. “Continueremo ad attaccare le società straniere perché è il solo mezzo di cui disponiamo per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale: vogliamo il controllo delle nostre risorse e un’equa distribuzione della ricchezza. Non c’è alternativa alla lotta armata”.