Failing state
Un Paese in ginocchio. Te ne accorgi appena esci dall’aeroporto e i tassisti cambiano la valuta americana in bolivares: ci vuole uno zaino per contenere i pacchi di banconote freschi di stampa che valgono un biglietto da cento dollari. Carta straccia. Sembra di essere nella Baghdad di Saddam, quando ci voleva una carriola di dinari per saldare il conto dell’albergo.
Poi vai al bar e chiedi un caffè. “Si señor, ma non c’è zucchero”. Nemmeno nel mio hotel, in un quartiere medio-alto di Caracas. E niente vino, niente birra, niente insalata. Cibo che scarseggia, stipendi da fame, inflazione alle stelle. Un Paese che ha le più vaste riserve di idrocarburi del pianeta sull’orlo della bancarotta. Come è possibile?
Il presidente Nicolás Maduro, delfino del fondatore della Repubblica bolivariana Hugo Chávez, al potere dal 1998 alla sua morte di cancro nel marzo 2013, non ha dubbi. Responsabili del “sabotaggio” sono gli Stati Uniti, le multinazionali, i grandi imprenditori e l’estrema destra: le forze coalizzate del capitalismo nazionale e internazionale impegnate in una guerra economica per distruggere la Revolución.
Le cause della drammatica crisi venezuelana sono in realtà molto più complesse.
La straordinaria traiettoria politica di Chávez era decollata sull’onda del prezzo del barile di greggio, schizzato dai 10 dollari del 1999 agli oltre 125 del 2008. Una manna petrolifera che aveva permesso di finanziare grandiosi programmi sociali nei settori dell’edilizia, dell’istruzione, della sanità, dell’agricoltura. Con notevoli risultati. La disoccupazione era scesa dal 14 al 7 per cento. Il reddito medio pro capite era salito da 4 a 10 mila dollari, con una sostanziale riduzione della forbice della ricchezza. I tassi di mortalità infantile, di povertà e di povertà estrema si erano dimezzati, l’analfabetismo era di fatto scomparso.
Il “socialismo del XXI° secolo” si sbarazzava delle vecchie oligarchie corrotte, spalancava la politica alle classi disagiate, apriva le università agli indigenti, prometteva un’era di benessere e stabilità ai campesinos, agli operai e alle masse diseredate dei ranchos di Caracas. Tenendo testa, con l’aiuto di Cuba, della Cina e dell’Iran, all’“imperio norteamericano” e ai “nemici della Revolución”. Ma i segni premonitori della catastrofe, che molti convinti chavisti imputano ora all’erratica e fiacca leadership di Maduro, erano già evidenti.
I massicci investimenti sociali, le misiónes, erano finanziati dai petrodollari e dal debito pubblico. Quando il greggio è crollato a meno di 50 dollari sono emerse le distorsioni e le debolezze di un sistema basato su politiche economiche non sostenibili: l’eccessiva dipendenza dal petrolio (metà del bilancio dello stato e più del 90 per cento delle entrate in valuta), la spesa pubblica fuori controllo, il rigido controllo dei prezzi e dei cambi, le restrizioni all’import e ai movimenti di capitale.
La nazionalizzazione di oltre 1.200 società private, incluse 76 nel comparto degli idrocarburi, ha finito col deprimere la competitività dell’industria locale, compromettendone l’efficienza e le capacità produttive. La compagnia petrolifera statale Pdsva, che tra il 2001 e il 2015 ha destinato gran parte dei suoi introiti (250 miliardi di dollari) ai programmi sociali del governo e oggi fatica a pagare gli stipendi ai propri dipendenti, produce 2,4 milioni di barili al giorno: un milione in meno rispetto al 1998. Gli impianti negli immensi bacini di Maracaibo e dell’Orinoco, dove spesso la fedeltà al regime prevale sulle competenze manageriali, sono afflitti da una cronica mancanza di pezzi di ricambio e di manutenzione, dai versamenti di greggio dalle condutture e dai furti perpetrati dalle mafie del contrabbando. Le raffinerie sono in grado di soddisfare solo il 30 per cento del fabbisogno nazionale. Le società di servizio straniere come Halliburton e Schlumberger ritirano i propri tecnici, mentre due terzi delle rendite petrolifere vanno a rimborsare i debiti con la Cina e gli altri creditori, compreso l’“imperio norteamericano”, da cui la Pdvsa è costretta a importare ogni giorno 50 mila barili per far fronte all’emergenza.
I numeri sono impietosi. Gli alberghi nelle località turistiche di Los Roques e isola Margarita sono semivuoti e il Venezuela chiuderà il 2016 con i peggiori indicatori economici dell’America Latina: calo di 8-10 punti del prodotto interno lordo, inflazione che supera il 700 per cento, un disavanzo fiscale pari al 17 per cento del Pil, un debito estero di 130 miliardi di dollari, una disoccupazione galoppante, un tasso di corruzione e di criminalità tra i più elevati al mondo. Con 120 omicidi ogni centomila abitanti e 111 poliziotti assassinati nei primi dieci mesi di quest’anno, Caracas condivide con la messicana Acapulco e l’hondureña San Pedro Sula il primato di città più violenta del pianeta.
L’impatto sulla popolazione è devastante: razionamento alimentare, assalti e file interminabili ai negozi, blackout elettrici, ospedali al collasso. Rodrigo, un amico fotografo che ha vissuto all’estero, ha smesso di mangiare pane per evitare le snervanti code dal fornaio. Dice di sentirsi in una prigione. Ha tre figli. “Uno è in Francia, un altro in Cile. Sono due anni che non li vedo: non ho i soldi per viaggiare. Al telefono mi raccontano di una vita riconquistata: una festa con gli amici, una cena al ristorante, una passeggiata notturna per le strade. Qui è impossibile: rapine, furti, aggressioni. Il mio terzo figlio la sera non esce di casa: se ne sta in camera al computer e sogna solo di andarsene. Tutti cercano di andare afuera: sono più di due milioni i venezuelani emigrati. La classe media è stata distrutta. Stiamo precipitando in un baratro e non si intravede una via d’uscita”. Da Città del Messico ho portato a Rodrigo un libro che aspettava da mesi: è impensabile spedire o ricevere lettere e pacchi. Il servizio postale è di fatto sospeso per mancanza di fondi.
Quando cala il sole El Silencio, il centro storico di Caracas, sprofonda nel buio. Calle Urdaneta, un tempo scintillante di luci e di boutique, è a malapena illuminata dalle luci dei semafori e dai fari delle auto. La maggior parte dei lampioni è spenta: pare che manchino le lampadine per sostituire quelle guaste. Decine di esercizi hanno chiuso i battenti: in quelli ancora aperti si trovano articoli cinesi di bassa qualità. I centri commerciali sono pieni di prodotti che la gente non può comprare, mentre mancano i generi di prima necessità: latte, farina, zucchero, riso, olio, burro, dentifricio, shampo, carta igienica. “È la dieta di Maduro”, ironizzano i venezuelani.
Entro in un supermercato statale, il Bicentenario: scaffali vuoti, niente uova, niente carne, niente caffè; solo quantità industriali di crema da barba e di fazzolettini di carta. Al Gama Express, che è privato, si trova tutto: vino, liquori, persino il panettone di Natale. A prezzi impossibili.
“Il governo fa enormi sacrifici per mantenere la spesa pubblica e i programmi sociali” afferma lo scrittore e drammaturgo Luis Britto García. “Ma non contrasta con sufficiente energia le tre piaghe che affliggono il Paese: la corruzione, il contrabbando dei prodotti petroliferi e la mafia degli intermediari del mercato nero, che realizzano profitti superiori a quelli dei narcotrafficanti”.
Dopo i moti del pane, i saccheggi e le proteste di piazza della scorsa estate, Maduro è corso ai ripari: ha riaperto la frontiera con la Colombia, dove migliaia di venezuelani vanno in cerca di cibo e di medicinali, ha incaricato l’esercito della distribuzione degli alimenti di base sovvenzionati, ha trovato i fondi per importare quantitativi supplementari di farina e consegnare con maggiore regolarità le bolsas, le razioni per i poveri dei barrios, che non si vedevano da mesi.
Le code, però, non si sono accorciate. “Sono qui dalle 3 di notte” racconta Gysela, maestra elementare, in fila davanti al supermercato Lubebras. E spiega: “Non so cosa ci sarà in vendita. Compriamo quello che troviamo: se c’è sapone, prendiamo il sapone; se c’è la margarina, prendiamo quella. Se c’è pane, non è consentito acquistare più di due canillas, le baguettes. Possiamo entrare a giorni fissi, in base al numero della cédula, la carta d’identità. La polizia controlla. Ma ci sono persone che hanno tre o quattro cédulas. E i poliziotti chiudono gli occhi”.
Come nella Napoli del dopoguerra di Eduardo De Filippo, il grande business è la borsa nera. La gestiscono i bachaqueros (da bachaco, un tipo di grossa formica), gli accaparratori: pagano le donne che fanno la coda per loro, fanno incetta di prodotti e li spacciano sottobanco a cifre astronomiche. Rivendono a mille bolivares una saponetta per lavare i panni che ne costa 8 e a 4.500 bolivares un cartone di 36 uova che ne vale 500. Il paniere di base (consumi e servizi) è fissato a 350 mila bolivares, ma il salario minimo è di 27 mila: ci vogliono 13 salari minimi per raggiungere il paniere. I prezzi, anche quelli delle arepas, le comuni tortillas di farina di mais, aumentano da un giorno all’altro, mentre il governo continua a stampare banconote alimentando l’inflazione.
Si vedono ragazzi setacciare i mucchi di rifiuti in strada: cercano avanzi di cibo e di dentifricio. Miguel, che ha 15 anni e otto fratelli, suona ai campanelli delle case per mendicare un po’ di riso. “Da scuola” dice “mi hanno espulso. Mia madre non ha marito, vive nel rancho di Guarenas. Dormo sotto un ponte. Cerco nei rifiuti, ma devo stare attento alla polizia”.
Veronica, infermiera volontaria delle Damas azules, racconta: “Ho visto al pronto soccorso un uomo che stava morendo avvelenato: si era cibato di immondizia. Negli ospedali mancano i farmaci di base e i famigliari dei pazienti fanno il giro delle farmacie e dei bachaqueros nella speranza di trovarli. All’ospedale di San Bernardino i pediatri guardano morire i bambini senza poter fare niente. Non ci sono antibiotici, non ci sono gli antiretrovirali per l’aids, non ci sono garze, non ci sono provette. E non possiamo ordinarli su internet perché è vietato trasferire fondi all’estero. È una tragedia”. Anche negli ambulatori di quartiere della “Misión Barrio Adentro”, fiore all’occhiello della cooperazione con l’Avana, i farmaci scarseggiano.
Negli ultimi tre anni il tasso di mortalità neonatale negli ospedali pubblici, dove il salario di un medico vale al mercato nero meno di due dollari al giorno, è centuplicato: da 0,02 a 2,1 per cento. E quello delle donne morte di parto è quintuplicato. Gli ospedali psichiatrici hanno dovuto dimettere migliaia di pazienti che non sono più in grado di curare. L’import di materiale medico-chirurgico e di medicinali è sceso del 40 per cento in un anno e la carenza di materie prime costringe le 13 aziende farmaceutiche venezuelane a lavorare al 65 per cento della capacità.
C’è però un’altra Caracas, quella del Country Club, il quartiere dei super-ricchi. Auto blindate, campi da golf, dimore da favola immerse nella vegetazione tropicale, nascoste da muri alti sei metri, protette da guardiani, cancellate, reticolati elettrici, rasoi di concertina e filo spinato. E accanto alle lussuose residenze coloniali sono sorte le ville-bunker dei boliburgueses, come i venezuelani chiamano i nuovi oligarchi della borghesia bolivariana che ha ammassato enormi fortune grazie ai legami con la nomenklatura al potere.
“Ci sono due Paesi” dice lo scrittore Tulio Hernández, opinionista del Nacional, l’unico giornale ancora indipendente. “Quello reale e quello inventato dalla propaganda: un mondo parallelo dove la censura, gli arresti arbitrari, i drammatici problemi economici e sociali non esistono e la rivoluzione è minacciata da un complotto reazionario e imperialista orchestrato dagli Stati Uniti. Io all’inizio ho appoggiato Chávez, ero uno dei candidati al posto di ministro della Cultura. Ma ho capito subito che la Revolución era una farsa. Oggi il regime è totalmente screditato: sta in piedi solo grazie all’esercito, comprato a suon di prebende e di privilegi”.
Maduro, ex autista di autobus e leader sindacale, si è circondato, come Chávez, di adulatori incompetenti. Come Chávez occupa i mezzi di comunicazione per annunciare riforme scavalcando il parlamento e intrattenere le masse: va in onda ogni martedì su tutti i canali tv del Venezuela e ha da poco inaugurato un nuovo programma radiofonico, L’ora della salsa, che conduce dal palazzo presidenziale di Miraflores, in cui alterna dichiarazioni politiche e brani musicali. Ma come telepredicatore è una pallida controfigura del suo carismatico predecessore.
Nel rancho di Petare, un tempo bastione del chavismo, gli slogan rivoluzionari e i ritratti di Chávez sbiadiscono sui muri delle case. Alle porte sono affissi manifesti scritti a mano: “Ci sono uova”, “Si vende formaggio”. Per Danilo, tassista che ha perso un figlio di 19 anni, ucciso in uno scontro armato tra le bande di malandros del quartiere, “non importa chi c’è a Miraflores. La sola cosa che conta è tornare in famiglia la sera con qualcosa da cucinare”.
Danilo mi accompagna alla scuola di boxe della Montañita, il barrio più violento e degradato di Petare, dove Jairo Ruza, ex pugile di professione, cerca di inculcare i valori dello sport a un’ottantina di ragazzini tra i 5 e i 14 anni: orfani, figli di madri alcolizzate e di padri drogati. “Insegno il rispetto per gli avversari, per le opinioni e le idee degli altri” spiega. “È questo che manca oggi nella società venezuelana”.
Il governo e l’opposizione coalizzata nella Mud, Mesa de la unidad democrática, che nonostante le divisioni al suo interno ha vinto le elezioni politiche del dicembre 2015, sono in aperto conflitto. E il dialogo promosso lo scorso ottobre da papa Francesco sembra destinato a fallire: l’ex sindaco di Caracas Leopoldo López, uno dei leader anti-Maduro, in carcere dal 2014, si rifiuta di partecipare. D’altra parte la Corte suprema, passacarte del regime, mette sistematicamente il veto a tutte le leggi votate dal parlamento e, violando la costituzione, ha ratificato il bilancio dello stato per il 2017 senza sottoporlo al vaglio dei deputati, mentre compiacenti tribunali hanno invalidato le firme (due milioni) raccolte dall’opposizione per chiedere con un referendum le dimissioni del presidente.
Persino la roccaforte chavista del barrio 23 de Enero ha votato in maggioranza per l’opposizione. Ma Alejandro, detto “Mao”, responsabile del collettivo Tupamaros, è ancora sulle barricate: “Qui comandiamo noi. Abbiamo combattuto e abbiamo vinto. Abbiamo tolto di mezzo i ladri, gli spacciatori di droga, gli elementi corrotti: indietro non si torna”. Secondo Human Rights Watch i colectivos, le organizzazioni comunitarie create da Chávez per promuovere attività sociali e culturali, non sono altro che “bande armate che utilizzano la violenza con impunità” per minacciare gli oppositori e la stampa indipendente. Per Alejandro “Mao” sono invece i paladini della Revolución.
I militanti “puri e duri” sono convinti che i due nipoti della first lady Cilia Flores arrestati dalla Dea e condannati da un tribunale di New York perché pianificavano di contrabbandare 800 chili di cocaina negli States siano stati “incastrati”. E che la mafia dei generali che per anni ha trafficato coca con le Farc colombiane sia “un’invenzione dei circoli reazionari”. Non colgono neppure il paradosso di una surreale “viceministra de la suprema felicidad social”, Carolina Cestari, che esorta i musicisti del Sistema delle orchestre giovanili del Venezuela ad appoggiare la rivoluzione o a “cercare un lavoro altrove”.
Forse, dovrebbero andare a Higuerote, sulla costa atlantica. Dovrebbero camminare tra i campi di yucca del pueblo La Esperanza fino a una baracca di lamiera e cartone e fermarsi ad ascoltare Carla, 23 anni, genitori separati, sette fratelli e in collo una bimba di un mese: Victoria, sua figlia. Sarà l’unica, perché Carla ha deciso di farsi sterilizzare da un chirurgo cubano, il prossimo 25 gennaio. “Non posso permettermi di restare di nuovo incinta. E non ho i soldi per comprare gli anticoncezionali dai bachaqueros. Nemmeno i pannolini. Al mercato nero una scatola di latte in polvere da 10 bolivares non costa meno di 4 mila. Ho seminato i fagioli nell’orto. E i pomodori. A volte ho solo un po’ di riso, ma niente per accompagnarlo. A volte non mangio. La sera mi chiudo in casa, al buio. Addormento mia figlia. E a volte piango”.