Fallujah frontline
Giovanni Porzio - Baghdad
Un altro esercito ha attraversato l’Eufrate. E la sindrome dell’assedio, che ha scandito nei secoli la storia di Baghdad, è tornata a impadronirsi di un popolo sfibrato, in perenne oscillazione tra la smania di ricominciare a vivere e lo spettro di un’incombente catastrofe.
Per sette volte la città sul Tigri ha capitolato. Si è dovuta arrendere ai mongoli di Hulagu, ai persiani, ai sultani ottomani, all’Impero britannico. Il primo a espugnarla fu il califfo abbaside Al-Ma’mun, il figlio di Harun ar-Rashid: nell’812 ordinò al generale Tahir ibn Husayn di spodestare il fratellastro Al-Amin, sconfitto e decapitato dopo 13 mesi di accanita resistenza. L’ultimo è stato George W. Bush: nel 2003 ai suoi marines sono bastate tre settimane per sbaragliare l’armata di cartapesta di Saddam e pochi mesi per mandare il rais sulla forca e consegnare l’Iraq nelle mani di Tehran e delle milizie sciite. Oggi, dopo anni di guerra civile e di governi fantoccio, di massacri, rappresaglie, torture, rapimenti, raid aerei, bombe al fosforo, attacchi terroristici e centinaia di migliaia di morti, un nuovo califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, ha piantato le tende della sue armate jihadiste nella pianura mesopotamica issando il vessillo nero di Daesh, il sedicente Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), da Mosul a Fallujah, fino alle porte della capitale irachena.
Acquattati nelle trincee sotto le bandiere verdi con l’immagine dell’imam Hussein, i combattenti dell’Ansar al-Marjia mantengono la posizione di difesa più avanzata a una quarantina di chilometri da Baghdad, tra l’Eufrate e i sobborghi di Fallujah, crocevia strategico sull’asse stradale che conduce a Ramadi e al confine siriano. I proiettili degli obici sono accatastati nelle tende mimetiche e nei ripari di fortuna protetti da un terrapieno dove gli uomini si rifugiano nelle pause degli scontri: cercano di dormire, mangiano riso e fagioli, fumano una sigaretta dopo l’altra, seduti sulle casse delle munizioni. I cecchini di Daesh sono a poche centinaia di metri, tra i ruderi dei casolari e gli scheletri delle palme carbonizzate dal fuoco dei mortai: così vicini che le ricetrasmittenti captano le loro voci.
Ci spostiamo seguendo le ondulazioni del terreno, a bordo di un vecchio blindato che mostra le cicatrici delle battaglie: un mezzo lasciato in eredità dagli americani che avanza con circospezione lungo la linea del fronte, una landa piatta e desolata, un deserto interrotto da fattorie disabitate, macerie di abitazioni fatte esplodere dai combattenti in ritirata, casematte crivellate di colpi e marchiate dai simboli del Califfato islamico. Il villaggio di Suq Naz, dove si teneva un mercato agricolo, è una spettrale galleria di intelaiature incenerite e di botteghe saccheggiate. Poco oltre, in un edificio fortificato, i mujahiddin dell’Ansar al-Marjia hanno stabilito il loro quartier generale: centro logistico, deposito di munizioni, viveri, carburante e base operativa del loro comandante, Sayed Hamid al-Yasiri.
Sayed Hamid è un uomo di religione, studioso di storia e di teologia islamica. Ma dopo la caduta di Mosul, quando le armate jihadiste avanzavano inarrestabili impadronendosi delle province di Dyala, Salahaddin e Anbar, giungendo a minacciare la capitale, Sayed Hamid ha obbedito alla fatwa del grande ayatollah Ali al-Sistani, il marjia-e-taqlid, la “sorgente dell’imitazione”, suprema autorità spirituale sciita, che imponeva ai fedeli di impugnare le armi per proteggere “il Paese, il popolo e i luoghi sacri”: si è tolto il turbante nero dei discendenti del Profeta, ha indossato il giubbotto antiproiettile ed nel giugno 2014 è partito per Baghdad alla testa di una manipolo di 480 volontari. “Dopo tre settimane eravamo 1.800 e ora siamo quasi il doppio” racconta. “L’esercito iracheno si era dissolto. È toccato a noi bloccare l’avanzata di Daesh nel settore cruciale tra Baghdad e Fallujah. In sei mesi abbiamo avuto 76 martiri e 600 feriti. Grazie alla copertura aerea americana abbiamo ripreso terreno, ma la battaglia è ancora in corso”.
L’Ansar si è trovato di fronte i jihadisti appoggiati dalla tribù sunnita degli Zobah e dai baathisti della Brigata della Rivoluzione del Venti: un avversario meglio equipaggiato, motivato e bene addestrato. “Nel nostro arsenale” spiega Sayed Hamid “abbiamo solo i Kalashnikov, i lanciarazzi, le mitragliatrici, gli obici e qualche fucile di precisione. Daesh dispone di artiglieria, missili, mezzi blindati e sofisticati sistemi di comunicazione. I loro comandanti sono militari esperti: professionisti dell’ex esercito di Saddam ed ex qaedisti veterani dell’Afghanistan e della Cecenia. Il morale dei loro soldati è molto elevato, non combattono per soldi e non si arrendono mai: si uccidono piuttosto, e uccidono anche i loro feriti se non possono portarli in salvo. Ai comandanti caduti tagliano la testa, per non farli riconoscere”.
Da Najaf l’ayatollah Sistani invia provviste, coperte, stufe e denari per risarcire i contadini dei danni di guerra e ripristinare l’elettricità nei villaggi liberati, anche se nessuno ha finora avuto il coraggio di tornare. E Sayed Hamid tiene a sottolineare la disciplina e la correttezza dei suoi uomini: “Siamo l’esercito del Marjia! Questa non è una guerra contro i sunniti, ma contro dei criminali che vogliono distruggere l’Iraq”. Parole che hanno un preciso significato. Sono più di cinquanta le milizie raggruppate nelle Fmp, le Forze di mobilitazione popolari che il governo del primo ministro Hayder al-Abadi ha dovuto controvoglia riconoscere dopo la disfatta dell’esercito regolare. Milizie che operano al di fuori del controllo dello stato e accettano ordini solo dai loro leader politici e religiosi.
Abadi non aveva scelta. A Mosul, dove le forze di sicurezza irachene si sono liquefatte, 1.700 soldati sono stati catturati e uccisi. A Tikrit, a Fallujah, a Ramadi l’esercito si è dato alla fuga abbandonando i civili al loro destino. La corruzione nei ranghi, come nel governo, nella polizia e in tutte le istituzioni del Paese, era ed è scandalosa: a decine di migliaia di inesistenti “soldati fantasma” venivano erogati stipendi che finivano nelle tasche di colonnelli e generali da operetta. Le uniche unità in grado di difendere Baghdad erano e sono tuttora i 120 mila paramilitari delle brigate sciite.
Nelle Pmf, il cui stemma ricorda da vicino quello dell’Hezbollah libanese, sono confluite tutte le principali milizie, dall’ex Esercito del Mahdi di Muqtada al-Sadr, ribattezzato Saraya as-Salam, Brigate della pace, alle formazioni più marcatamente filo iraniane come l’organizzazione Badr di Ammar al-Hakim, la Lega dei giusti di Qais al-Khazali e le Brigate Hezbollah di Abu Mahdi al-Muhandis, responsabile di fatto delle operazioni militari delle Forze di mobilitazione assieme a Hadi al-Ameri, leader politico del Badr. Entrambi hanno come referente e principale fornitore di armi e consiglieri il generale Qassim Suleiman, comandante delle Brigate Quds, le forze speciali per le operazioni all’estero dei Pasdaran iraniani. Un’altra milizia dipendente da Tehran e di recente creazione, le Brigate Khorasani, ha avuto il battesimo del fuoco nelle battaglie del monte Sinjar e della raffineria di Baiji, ed è attualmente dispiegata nella provincia orientale di Diyala
Nel tentativo di superare i settarismi Abadi ha annunciato il 14 gennaio l’inclusione nelle Pmf di un contingente di 40 mila miliziani sunniti, preludio alla formazione di una Guardia nazionale su base provinciale. Ma il progetto rischia di fallire per l’opposizione dei deputati sciiti più oltranzisti. E i sunniti restano scettici.
Lo sceicco Wissam al-Hardan, uno dei leader della potente tribù al-Dulaimi, è appena tornato a Baghdad dal funerale di due congiunti uccisi a Ramadi da un mortaio di Daesh. “Ci sentiamo traditi, dal governo e dagli americani” dice. “Abbiamo combattuto al-Qaida e Daesh. Abbiamo avuto centinaia di martiri. La tribù Abu Nimr è stata sterminata dai jihadisti. Con quale risultato? Continuiamo a subire soprusi e ritorsioni. La mia casa è stata attaccata da tre kamikaze con 600 chili di esplosivo. Non abbiamo armi per difenderci. La mia gente è assediata e nessuno ci aiuta: a Fallujah in questi giorni dieci bambini sono morti di fame e Ramadi è un cimitero senz’acqua e senza luce, pieno solo di cadaveri e di bombe inesplose”.
La riconquista di Ramadi, sbandierata come la prima vittoria dell’esercito iracheno senza il concorso delle milizie, è stata ottenuta grazie all’impiego dell’unità antiterrorismo addestrata dalle forze speciali americane tra il 2003 e il 2011 ed è stata preceduta da bombardamenti aerei che hanno distrutto gran parte del capoluogo dell’Anbar: una tattica impossibile da replicare a Mosul, città con oltre un milione di abitanti. Senza contare che nei sobborghi e nel territorio limitrofo, sostengono i leader tribali, le cellule jihadiste, attive e dormienti, sono una minaccia costante.
Il body count diffuso dall’Onu registra nel solo mese di gennaio 2.299 iracheni uccisi o feriti, con una recrudescenza di attentati soprattutto nei quartieri sciiti di Baghdad. L’11 gennaio l’esplosione di un’autobomba ha mietuto 18 vittime in un centro commerciale di Jadida: un segnale che la guerriglia jihadista è ancora in grado di penetrare all’interno del perimetro fortificato della capitale e che i terroristi del Califfato restano all’offensiva nonostante il relativo arretramento nell’Anbar. Nello stesso giorno hanno colpito anche nella provincia di Diyala, a Muqdadiya (26 morti), innescando la sanguinosa rappresaglia delle bande sciite: moschee sunnite incendiate, case bruciate, negozi saccheggiati e almeno 12 vittime. L’indomani nella vicina Ba’quba sono stati raccolti altri 8 cadaveri, tra cui quelli di due giornalisti della tv al-Sharqiya: Saif Talal e Hasan al-Anbaki.
“La verità è che Abadi non è in grado di tenere a bada le milizie” afferma Raid Fehmi, vecchio militante comunista ed ex ministro della Scienza del governo al-Maliki, che ogni venerdì partecipa in piazza Tahrir alla settimanale manifestazione degli oppositori del governo. “Sono loro a comandare e a dettare l’agenda dell’esecutivo. La guerra a Daesh è un pretesto per completare la pulizia etnica delle comunità sunnite”.
A Baghdad la sicurezza al di fuori della zona verde, il bunker dove sono asserragliate le rappresentanze diplomatiche, il parlamento e la più grande ambasciata americana al mondo, è sempre stata precaria. Ma il rischio di attentati e di infiltrazioni terroristiche è oggi accresciuto dal flusso di decine di migliaia di sfollati dalle zone di conflitto a ridosso della città. Tanto che il generale al-Shammari, capo del Comando operativo della capitale, ha deciso di erigere un muro, l’ennesimo, a difesa di Baghdad: uno sbarramento i cui lavori dovrebbero iniziare a giorni e la cui efficacia si presta a qualche ironia. Il nuovo muro contribuirà in ogni caso ad alimentare l’impressione di un’isola sotto assedio, percorsa da militari e mezzi blindati, paralizzata da centinaia di posti di blocco e ostaggio delle milizie armate.
Baghdad è sempre più una città sciita. I quartieri a popolazione mista sono oggi dominati dagli sciiti, che hanno espulso i sunniti con la violenza: minacce, rapimenti, esecuzioni sommarie. I vessilli con i ritratti dell’imam Hussein sono apparsi anche nei distretti sunniti di Mansur e Adhamiya e sventolano su tutti i check point delle forze di sicurezza. Le barriere di cemento che proteggono banche, uffici pubblici, ministeri, caserme, stazioni della polizia, alberghi, scuole, università e compound residenziali sono tappezzate di gigantografie degli ayatollah e di proclami delle milizie. E gli sfollati dell’Anbar, guardati con sospetto, sono confinati nei campi profughi.
Nelle tende di un campo sulla strada per Kerbala vivono 60 famiglie provenienti da Karma e Hit, roccaforti di Daesh. Jasim al-Jumaili, un anziano contadino, è qui con la moglie e i sette figli. “Quando i jihadisti sono arrivati a Karma” racconta “è stato come andare all’inferno. Mi hanno sequestrato tutto, la casa, l’automobile, gli animali. Era persino vietato fumare. C’erano libici, tunisini, afghani ma anche molti iracheni. Con 300 dollari arruolavano i giovani disoccupati. E chi resisteva veniva ucciso all’istante”.
Nel quartiere di Yarmuk la moschea Burr al-Rahim distribuisce ogni sabato razioni alimentari a più di 8 mila famiglie: donazioni private che coprono a malapena le necessità di base. Troppo poco per sfamare il milione e mezzo di sfollati che incombono sulla città: un’emergenza umanitaria che solo la solidarietà e le organizzazioni internazionali possono affrontare. Perché Baghdad subisce un doppio assedio: quello delle armate del Califfo e quello, forse ancora più drammatico, di una crisi economica incalzante. Il crollo del prezzo del petrolio è una catastrofe per l’Iraq, i cui proventi dalla vendita del greggio sono sono precipitati: da 8 miliardi di dollari al mese a meno di 3.
“La banca centrale non ha più riserve” afferma il politologo Ahmed el-Abiad. “L’insaziabile ingordigia dei ladri al governo e le spese militari – un miliardo di dollari solo per foraggiare le Pmf – hanno prosciugato le casse dello stato, che spende 4 miliardi di dollari per importare benzina dall’Iran e non ha contanti per pagare i dipendenti pubblici. La raffineria di Baiji è semidistrutta. I salari sono stati ridotti. Gli ospedali sono senza medicine. Nessuno paga le tasse. E la disoccupazione è in aumento”. I negozi e i centri commerciali sono pieni di prodotti che restano invenduti. Le armi, tra i beni più richiesti, hanno prezzi inarrivabili: un Kalashnikov, che fino a qualche anno fa costava meno di 600 dollari, si vende oggi a più di tremila.
La popolazione di Baghdad, abituata a convivere con la violenza, la corruzione, i kamikaze, i rapimenti, le corse all’ospedale e all’obitorio, dimostra una tenacità e una forza d’animo degne di rispetto. Anche se la ritrovata e instabile concordia di fronte al nemico comune non cancella le crepe profonde che decenni di conflitti settari hanno scavato tra le componenti etniche e religiose del Paese. Tutti si domandano cosa accadrà dopo Daesh. Se lo chiedono anche i cristiani rimasti in città. Che per non essere da meno hanno formato un movimento armato, la Brigata Babylon: oggi i paramilitari con la croce tatuata sul petto collaborano con le milizie sciite che nel quartiere di Dora hanno occupato le loro case, espellendo la quasi totalità dei cristiani. Erano 150 mila: ne sono rimasti 1.500.
Il paradosso non sembra importare al leader dei Babylon, Rayan el-Kildani, tiepido con papa Francesco e grande ammiratore dell’approccio muscolare di Wojtyla. “Partecipiamo alla difesa di Baghdad” dice. “Stiamo operando a Baiji e Salahaddin, ma il nostro obiettivo è liberare i villaggi cristiani della piana di Ninive. Dispongo di 1.650 uomini e di una piccola fabbrica di mortai. La chiesa di Roma non appprova, ma abbiamo avuto la benedizione degli abuna di Baghdad e riceviamo armi e aiuti dai cristiani del Libano e della Siria, dall’Iran e dal governo iracheno”.
L’Iraq è del resto un groviglio di contraddizioni su scala mondiale. Nella vana speranza di contenere il flusso dei profughi verso l’Europa l’Ue si appresta a regalare tre miliardi di dollari alla Turchia, fingendo di ignorare che Ankara ha per anni foraggiato e incoraggiato Daesh; ma recalcitra di fronte alle richieste di aiuti economici di Baghdad. In Kurdistan gli americani sostengono con raid aerei e consiglieri militari le forze curde che hanno liberato Kobane, ma si ostinano a considerare il Pkk un’organizzazione terroristica e consentono all’aviazione turca di bombardare le basi e i villaggi curdi in territorio iracheno. L’Iran spalleggiato da Mosca e l’Arabia Saudita si affrontano a distanza, in Iraq come in Yemen e in Siria, per la supremazia nella regione.
Ogni Paese gioca le proprie carte sul cinico scacchiere della politica internazionale. E l’Iraq è oggi uno snodo decisivo. Perché è qui, dove Daesh ha le sue basi, la sua leadership, le strutture logistiche e una città come Mosul, che si sta combattendo – più che a Damasco e tanto meno in Libia – la battaglia risolutiva per sconfiggere il Califfato e ridisegnare i confini del Medio Oriente.