Giovanni Porzio – da Gaza e Tulkarem
Puntuale, ogni mattina, l’infermiere specializzato Naser Afifi accompagna i figli a scuola e si presenta al lavoro: ha in gestione il pronto soccorso dell’aeroporto internazionale di Gaza, un bugigattolo nel pomposo salone delle partenze affacciato sulla pista di atterraggio. Toglie il lucchetto alla porta, prepara una tazza di tè sul fornellino a gas, si accomoda sul lettino delle visite e accende la prima sigaretta. Poi aspetta l’ora di smontare, saltando da un canale all’altro del piccolo televisore appeso al muro. Perché di pazienti, Naser non ne vede da oltre tre anni: da quando gli israeliani, all’inizio dell’intifada, hanno bombardato con gli F-16 il radar e divelto con i bulldozer l’asfalto della pista.
Ma Naser presidia con ostinazione il suo posto di lavoro. L’impiego garantito è più importante dello stipendio, di cui ha perso anche il ricordo. La tahdia, la tregua provvisoria, e l’imminente evacuazione delle colonie ebraiche lasciano sperare in una riapertura dello scalo, costruito dagli olandesi nella desolata landa di Rafah, a ridosso del confine egiziano. Nel frattempo Naser tiene in ordine la scarna attrezzatura dell’infermeria: due bombole di ossigeno, un polveroso armadietto con medicinali scaduti, misteriose fiale prive di etichetta, qualche siringa. A ogni chiamata del muezzin compie le abluzioni rituali nella toilette e si inginocchia in direzione della Mecca nella sala di preghiera. Poi si sgranchisce le gambe aggirandosi come un fantasma nei corridoi deserti, nella penombra surreale della grande hall, tra i banchi del check in, la biglietteria e le vetrine del duty free. “L’ultimo aereo civile” racconta Naser con una vena di tristezza “è atterrato 5 anni fa”. Lui però non molla. “Quando l’aeroporto funzionerà di nuovo” dice “io sarò qui: come sempre, al mio posto”.
Naser non vuole finire come Ziad, falegname, che a 48 anni e con 11 figli da mantenere passa tutte le notti all’addiaccio con altri trecento disoccupati davanti al check point della zona industriale di Erez aspettando di essere reclutato per un lavoro a cottimo, qualsiasi lavoro, pagato la miseria di 6 shekel all’ora, poco più di un euro. “A volte aprono, a volte no. Restiamo qui accampati, sotto la pioggia: i soldati hanno abbattuto le tettoie e le latrine. Quando ci chiamano per la perquisizione entriamo in una specie di gabbia, in fila indiana. Se abbiamo in tasca una moneta scatta l’allarme e ci mandano indietro”.
Anche Ziad aspetta la pace. Tre anni di intifada hanno strangolato l’economia della Striscia, 363 chilometri quadrati tra i più affollati al mondo (1,4 milioni di palestinesi e 8 mila coloni israeliani barricati in 21 insediamenti) dove Yasser Arafat si era illuso di gettare le basi di uno stato indipendente e dove invece è continuato a scorrere il sangue. La disoccupazione supera il 30 per cento, quella giovanile il 60. Il reddito pro capite è 14 volte inferiore a quello di Israele, un palestinese su due vive al di sotto della soglia della povertà.
Ci si aggrappa alla speranza. “C’è voglia di rinnovamento” dice il dottor Ghazi Hamad, direttore di Risala, il settimanale di Hamas, che ha passato 5 anni in carcere con 12 imputazioni per attività sovversive. “I giovani vedono alla tv quello che accade in Libano, chiedono democrazia, libere elezioni. Noi siamo pronti a collaborare, senza però rinunciare all’opzione militare: sappiamo che il conflitto durerà ancora a lungo, fino all’evacuazione totale dei territori occupati”.
Qualcosa, nel frattempo, dovrà pur cambiare con il ritiro dei coloni. Spariranno i presidi armati e i posti di blocco, come il temuto check point fortificato di Abu Huli che taglia in due la Striscia. Le strade distrutte dai blindati saranno rese transitabili. E Mahmud Hawidi, uno dei 1700 pescatori di Gaza, potrà spingersi a cercar sardine con la sua lampara nelle acque oggi proibite di Khan Younis. Qualcosa è già cambiato: non si sente sparare. L’accordo siglato al Cairo dai gruppi radicali palestinesi non è una hudna, un cessate il fuoco definitivo. Ma la tregua regge. Gli attacchi suicidi sono sospesi, come le rappresaglie israeliane, le incursioni aeree, i rastrellamenti.
Le incognite sono però gigantesche. Abu Mazen sta tentando di mettere un freno alla corruzione, di por fine alle faide, di riorganizzare i servizi di sicurezza. I risultati sono deludenti. Dopo che la scorsa settimana alcuni militanti delle Brigate hanno sparato contro la Muqata, a Ramallah, contestando la decisione di disarmarli, il capo dell’intelligence Tawfiq Tirawi si è dimesso e il rais è stato costretto a licenziare il generale Ismail Jaber, comandante della polizia, minacciando persino di rinunciare al proprio incarico. Sintomi preoccupanti delle difficoltà del presidente, che per attuare le riforme deve fare i conti con lo strapotere delle milizie e con le mafie economiche della vecchia guardia arafatiana, rappresentata dal premier Abu Ala. Mentre Hamas continua a guadagnare consensi.
A Jabalia tutto è pronto per la preghiera del venerdì nella moschea Ezzedin al-Qasam, pavesata di manifesti con il ritratto dello sceicco Ahmed Yassin. Gli attivisti, alla guida di trattori e scavatrici, rimuovono i mucchi di rifiuti e le macerie delle case bombardate. “L’Anp” sostiene Nadia Abu Ala, animatrice del Center for women affairs, “è un apparato di sicurezza. Dal punto di vista sociale è inesistente”. Hamas, invece, ha creato una fitta rete di solidarietà. “Gestiamo asili, scuole, consultori famigliari, presidi sanitari, orfanotrofi” spiega Umm Mohammed, vedova di Abdelaziz Rantisi, il leader di Hamas ucciso lo scorso anno da un missile israeliano. Sono altrettanti luoghi di reclutamento e di propaganda. Come le moschee, unica distrazione del weekend per adulti e bambini dove cinema e luna park non si sono mai visti.
Alle elezioni municipali Hamas ha stravinto. Di fronte alle divisioni dell’Anp, si mostra compatto e organizzato, con parole d’ordine comprensibili. Alle fumose promesse e alle ciniche tattiche della diplomazia contrappone la forza del messaggio islamico e la visione di una società fondata sui principi del Corano. “Vogliamo far parte delle istituzioni politiche della Palestina” dice Mushir al-Masri, il portavoce di Hamas. “Ma volere la pace non significa rinunciare a usare le armi per costringere gli israeliani a evacuare i territori occupati. Temiamo che Sharon, mantenendo un ferreo controllo sui confini, trasformi Gaza in una grande prigione”.
A Rafah, sul confine con l’Egitto, in un campo di addestramento che Panorama ha potuto visitare, i miliziani continuano a esercitarsi con le armi: giovani della Jihad islamica, di Hamas, delle Brigate al-Aqsa. “La tregua e solo temporanea” afferma Abu Sakker “Ramzi”, leader dei Falchi di al-Fatah. “Tutto lascia pensare che dovremo presto riprendere le operazioni militari”. Neppure Raghad si fa illusioni: sua figlia Nur, 9 anni, è stata uccisa da un proiettile israeliano mentre entrava in classe, in una scuola dell’Onu a Rafah, quando il cessate il fuoco era già stato dichiarato. “La tregua” dice tra le lacrime “serve a darci il tempo di crescere altri figli, destinati a essere ammazzati”.
Tulkarem, in Cisgiordania, è la seconda città dopo Gerico consegnata all’amministrazione palestinese in seguito agli accordi di Sharm el-Sheikh. “E’ una truffa” sbotta il ministro Saeb Erekat, responsabile dei negoziati con Israele. “A Gerico e a Tulkarem si sono limitati a spostare di alcune centinaia di metri un posto di blocco. E intanto Sharon da il via a nuovi insediamenti nei territori occupati. Non erano questi i patti”. Anche Yasser Abed Rabbo, membro del consiglio esecutivo dell’Olp e promotore, con l’israeliano Yossi Beilin, dell’iniziativa di pace di Ginevra, è pessimista: “Israele e gli Usa non vogliono una soluzione globale, ma con la frammentazione degli accordi non arriveremo alla pace. Il ritiro da Gaza interessa meno del 5 per cento dei territori occupati. E’ una trappola, uno stratagemma per far dimenticare Gerusalemme e la Cisgiordania, dove il muro continua ad avanzare all’interno delle zone palestinesi creando dei nuovi bantustan”.
Lungo il muro, che a Tulkarem è alto 8 metri, corre una grata metallica con filo spinato, telecamere, sensori e torri di avvistamento. “Per venire a scuola” spiega il deputato Hassan Khreish “i bambini dei villaggi devono attraversare la barriera e il varco, al mattino, resta aperto per soli 15 minuti. E’ come vivere in un carcere. Siamo circondati. I militari pattugliano le colline e impediscono agli arabi israeliani di entrare in città: la nostra economia è stata azzerata”.
Si fanno incontri inquietanti a Tulkarem. In un “domicilio sicuro” il capo delle Brigate al-Aqsa, Sheikh al-Zetawey, 29 anni, pistola alla cintura, racconta la sua vita clandestina. E’ scortato da una decina di miliziani, tutti ricercati dalle forze speciali israeliane, alcuni reduci dal carcere e con i segni delle torture sul corpo. “Sono sfuggito a due attentati e per due volte sono stato ferito” dice Al-Zetawey. “In uno scontro armato ho perso sei compagni. Ieri, per la prima volta dopo sette mesi, ho rivisto le mie figlie. Mi sono accorto che una di loro, tre anni e mezzo, accarezzava il mio Kalashnikov: per lei era un gioco”.
Poco distante, in una casa contadina, un vecchio con la kefiah mostra la foto del figlio: Abdallah Badran, 21 anni, studente universitario, l’ultimo kamikaze che si è fatto esplodere a Tel Aviv, il 25 febbario, uccidendo 5 civili israeliani. “Era molto religioso” riesce a dire. “Ma non sapevamo che fosse un membro della Jihad islamica. Non abbiamo potuto seppellirlo. Nessuno è venuto per le condoglianze”. Said, il fratellino di 8 anni, sta facendo un disegno per la scuola: il muro, i carri armati, i mitra. E in cielo una scritta: uein as-salam? Dov’è la pace?