Giovanni Porzio – da Tbilisi (22.12.08)
Sui tetti delle case bombardate sono in agguato i cecchini. E una muraglia di sacchi di sabbia e di blocchi di cemento sbarra il passaggio: meno di 200 metri separano il check point georgiano dalla postazione russa su cui sventolano le bandiere di Mosca e dei secessionisti osseti. La nuova cortina di ferro passa qui, alla periferia di Tskhinvali, capoluogo dell’Ossezia del Sud. Da una parte il paese natale di Stalin, convertito dalla Rivoluzione delle rose del 2003 nel più fedele alleato di Washington sulle sponde del Mar Nero, che aspira a entrare nella Nato e nell’Unione europea. Dall’altra l’ex impero sovietico, deciso a mantenere anche con le armi la propria sfera d’influenza nel Caucaso.
La tensione, in agosto, è sfociata in un conflitto breve quanto devastante: alle provocazioni dei separatisti filo russi dell’Abkhazia e dell’Ossezia la Georgia ha reagito con un avventato e disastroso blitz militare. In cinque giorni le armate del Cremlino hanno sbaragliato le esigue e impreparate forze di Tbilisi attestandosi alle porte capitale, invasa da un fiume di 60 mila rifugiati.
Solo le pressioni europee e americane hanno convinto Mosca a ripiegare. Ma il presidente georgiano Mikheil Saakashvili, che di fronte al parlamento ha ammesso di avere attaccato l’Ossezia, ribadisce di avere agito per difendere la sicurezza e l’integrità territoriale della nazione: “E’ stata una decisione difficile, ma non avevamo altra scelta. La Russia ammassava truppe alle nostre frontiere. I separatisti attaccavano i villaggi georgiani. I caccia del Cremlino sorvolavano il nostro territorio. Nessun governo occidentale lo avrebbe tollerato”.
Laureato in legge a Kiev, studi alla Columbia di New York e alla George Washington University, carismatico e ardente nazionalista, “Misha” Saakashvili accusa Mosca di voler bloccare lo sviluppo della democrazia in Georgia: “Il nostro sistema politico e i nostri rapporti con l’Occidente sono di esempio per le altre repubbliche dell’ex Urss e rappresentano una minaccia per le ambizioni egemoniche del Cremlino”.
Gran parte dell’opinione pubblica, orientata dalla propaganda dei mass media, rigidamente controllati, continua ad appoggiare il presidente. Ma i contraccolpi della disfatta di agosto cominciano a farsi sentire, sul piano economico e politico. La crescita del pil, complice la crisi finanziaria internazionale, è prevista in forte calo: dal 12 al 3 per cento; il tasso di disoccupazione supera il 15 per cento; gli investimenti esteri hanno subito un brusco rallentamento, mentre almeno 4 miliardi di dollari dovranno essere spesi per riabilitare le infrastrutture.
Gli avversari di Saakashvili rialzano la testa. L’ex premier Nino Burjanadze, protagonista con Misha della Rivoluzione delle rose, ha fondato un nuovo partito e chiede nuove elezioni: “La guerra poteva essere evitata” afferma. “In qualsiasi paese civile il responsabile di un simile disastro si sarebbe dimesso”. I leader degli altri movimenti di opposizione hanno sottoscritto un patto d’azione. E il giovane e brillante ambasciatore georgiano alle Nazioni Unite Irakli Alasania si è dimesso dall’incarico per tornare in patria e sfidare il presidente. Che però si rifiuta di riaprire le urne. “Non siamo una repubblica delle banane” dice. “Non possiamo andare al voto ogni volta che l’opposizione lo pretende, sprecando il denaro pubblico che dobbiamo utilizzare per affrontare l’emergenza. La chiave della sopravvivenza della Georgia è il successo della nostra economia e la sua integrazione nel sistema occidentale”.
Tbilisi gode di ampie facilitazioni commerciali: non c’è Iva sulle esportazioni, il 90 per cento dei beni è esente da tasse sull’import e, dopo la recente visita del senatore John Kerry, il trattato di libero scambio già in vigore con la Turchia e i paesi della Csi dovrebbe essere esteso anche agli Stati Uniti. Sono agevolazioni dettate dall’importanza strategica del piccolo paese caucasico. Dalla Georgia passano le pipeline che trasportano gli idrocarburi del Caspio alle coste del Mediterraneo: rotte alternative alla rete distributiva russa, come l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum.
La guerra ha congelato gli investimenti per il megaprogetto Nabucco, un gasdotto da 30 miliardi di metri cubi all’anno (“E’ evidente” sostiene Saakashvili “che l’obiettivo del Cremlino è controllare l’unico corridoio energetico non russo tra l’Europa e l’Asia centrale”). E ha compromesso le possibilità di un’intesa con Mosca sulle enclave secessioniste.
Nei giorni scorsi il nono rimpasto di governo in cinque anni ha catapultato al ministero degli Esteri Grigol Vashadze, un diplomatico di carriera che ha anche la nazionalità russa, è sposato con l’ex prima ballerina del Bolshoi Nino Ananiashvili e vanta solide amicizie a Mosca. “Chiediamo all’Ue e all’Italia” dice il nuovo ministro “di fare da ponte tra noi e la Russia per giungere a una soluzione pacifica della crisi”.
Finora, il solo canale aperto è però quello ecclesiastico. Il capo della chiesa georgiana Ilia II°, in visita a Mosca per i funerali del patriarca russo Alessio II°, è stato ricevuto dal presidente Medvedev. E il 19 dicembre il nunzio apostolico Claudio Gugerotti si è recato in Abkhazia – unico tra gli ambasciatori accreditati a Tbilisi – per incontrare i dirigenti del governo secessionista. “Le posizioni restano rigide” spiega. “Stiamo lavorando per la ripresa del dialogo”.
A Tbilisi, dove una strada è dedicata a George Bush, si attendono progressi dopo l’insediamento di Barack Obama, “con il quale” assicura Saakashvili “abbiamo già ottimi rapporti”. Intanto, sono gli osservatori dell’Ue al comando del capitano di fregata Lorenzo Tavella a controllare il rispetto del cessate il fuoco dal Mar Nero al check point fortificato del ponte di Rukhi, fino al “triangolo sporco” di Pakulani, oltre il fiume Inguri, nella terra di nessuno dove resiste la minoranza georgiana. In tutto una settantina di uomini disarmati, di cui 35 italiani. A loro è affidato il compito di monitorare gli spostamenti dell’orso russo sul gelido confine dell’Abkhazia.