Giovanni Porzio – da Rosia Montana
I giochi si protrassero per 123 giorni consecutivi: davanti a 350 mila spettatori si esibirono diecimila gladiatori e undicimila fiere. L’imperatore Traiano, in quell’estate del 106 dopo Cristo, celebrava a Roma la conquista dei territori dei Daci a nord del Danubio, l’odierna Transilvania. E pagava i festeggiamenti con l’oro estratto dai giacimenti di Alburnus Maior, i più vasti e ricchi d’Europa.
Passano quasi duemila anni. Il villaggio è stato ribattezzato Rosia Montana, “ruscello rosso”, per il colore dei metalli disciolti nei torrenti della valle. Nel caotico dopo Ceausescu la miniera finisce nel mirino della Gabriel Resources, società creata da Frank Timis, finanziere romeno emigrato in Australia (dove è stato condannato per possesso di eroina), deciso a sfruttare le riserve aurifere che venti secoli di ininterrotti scavi non hanno esaurito. Ottiene la concessione, entra in joint venture con il governo di Bucarest e nel 1997 dà il via alle esplorazioni. Ma non ha fatto i conti con Stephanie Roth.
Svizzera, ambientalista d’assalto, inviata di The Ecologist, il prestigioso mensile fondato da Teddy Goldsmith, Roth arriva in Romania nel 2001 e riesce a bloccare la costruzione di un hollywoodiano parco a tema su Dracula vicino alla cittadina medievale di Sighisoara. Informata dei piani della Gabriel, decide di lanciare una “campagna per salvare Rosia Montana” insieme a un gruppo di residenti del villaggio riuniti nell’associazione Alburnus Maior.
E’ l’inizio di una battaglia legale dagli esiti incerti: una lotta tra Davide e Golia che nel 2006 ha fruttato alla Roth il Goldman Prize, il Nobel dell’ecologia, e che ha mobilitato la società civile nel più esteso e combattivo movimento di protesta in Europa. La campagna è sostenuta da Greenpeace e da oltre 300 associazioni ambientaliste, dai governi olandese e ungherese, dalla chiesa ortodossa e da quella cattolica, dalla Open Society Foundation di George Soros e da personalità di spicco come l’attrice inglese Vanessa Redgrave. Il governo di Bucarest sta facendo marcia indietro. Frank Timis ha gettato la spugna e ha venduto le sue azioni nella Gabriel (la maggioranza della società, quotata alla Borsa di Toronto, è oggi controllata dal colosso minerario Newmont). I tribunali, sentenza dopo sentenza, danno ragione agli ecologisti. Ma la Gabriel non è disposta a cedere.
“Abbiamo già speso 300 milioni di dollari” spiega il responsabile della comunicazione Catalin Hosu “e non ci fermeremo. Abbiamo le carte in regola. Investiremo 1,2 miliardi di dollari e prevediamo un ritorno economico di almeno il doppio. Lo stato romeno incasserà 3,5 miliardi di dollari. Il nostro progetto si avvale delle tecnologie più avanzate e sicure dal punto di vista ambientale. Daremo lavoro a 1.200 operai nella fase di costruzione e a 600 durante i 14 anni della successiva fase estrattiva. Abbiamo un budget di 25 milioni di dollari per la conservazione del patrimonio storico e culturale”.
Il villaggio è semivuoto. Nell’unico caffè siedono due vecchi dall’aria assonnata. Del Casinò edificato al tempo di una passata corsa all’oro non resta che la facciata dilapidata con una data, 1854, e due nomi ungheresi: Gyorgy Korny e Anna Neimer. Le ville d’epoca asburgica sono abbandonate: tra gli stucchi e i bassorilievi si nota il simbolo dei cercatori, un martello e un cesello incrociati. Sui fabbricati si leggono gli striscioni della guerra mediatica in corso: “Stiamo lavorando per Rosia Montana” proclamano i manifesti degli esperti di marketing della Gabriel; “Questa casa non è in vendita” rispondono i residenti, ai quali la compagnia mineraria offre 50 mila dollari in contanti per andarsene. O, in alternativa, il reinsediamento in un villaggio “modello” che sarà costruito a qualche chilometro di distanza. Perché il progetto della Gabriel prevede l’evacuazione dei duemila abitanti della valle.
“Spariranno 900 case” dice Stephanie Roth “nove chiese, nove cimiteri, la foresta, due montagne. E insieme la storia di questa gente, le loro tradizioni e il loro futuro”. Sparirà anche gran parte dei 140 chilometri di gallerie scavate dai romani, dove mi conduce a lume di candela Andrei Gruber, ex holoangar (cercatore freelance), ultimo di tre generazioni di minatori venuti dalla Germania: budelli trapezoidali, scavati a mano nelle viscere delle colline. “Ci sono monumenti funerari” racconta “templi, altari, abitazioni: secondo l’Unesco è il più importante complesso archeologico minerario d’Europa. E rischia di scomparire”.
La Gabriel assicura che le principali zone archeologiche saranno salvaguardate e che garantirà la bonifica delle acque: la roccia denudata nei secoli distilla l’acido solforico che scioglie nei fiumi alcune tra le sostanze più tossiche conosciute. Arsenico, cadmio, piombo, zinco e ferro in concentrazioni centinaia di volte superiori ai limiti legali. Ma per estrarre le 330 tonnellate di oro le 1.600 tonnellate di argento presenti rispettivamente in quantità di di 1,5 e 7,5 grammi per tonnellata sarà necessario polverizzare 250 milioni di tonnellate di roccia, trattarla con cianuro di sodio e scaricare i detriti inquinati in in un lago artificiale chiuso da una diga alta 185 metri. Nel 2000 il crollo di un’analoga diga nella miniera romena di Baia Mare aveva provocato una catastrofe ecologica nel tratto ungherese del Danubio e contaminato le risorse idriche di 2,5 milioni di persone.
La campagna di Alburnus Maior sta dando i primi frutti. Una nuova valutazione di impatto ambientale presentata dalla Gabriel è stata respinta. Licenze e permessi sono stati sospesi dalla magistratura. I certificati urbanistici sono stati annullati. Il parlamento di Strasburgo ha approvato una risoluzione che sottolinea i rischi per l’ambiente. E il 5 maggio il senato di Bucarest ha proposto di istituire a Rosia Montana una riserva naturale e archeologica. Il governo, però, non si è ancora pronunciato in via definitiva, anche perché dovrebbe rimborsare milioni di euro alla società mineraria. La battaglia, allora, continua a infuriare nelle aule dei tribunali.
La vecchia miniera, sfruttata a cielo aperto tra il 1986 e il 2006, è stata chiusa alla vigilia dell’ingresso della Romania nell’Ue, poiché la normativa europea vieta i sussidi statali, prima generosamente erogati. Il “pozzo principale” è una voragine di roccia scorticata e dilavata. Ma rappresenta una minima frazione del progetto (12 chilometri quadrati) della Gabriel. “Quando avranno preso tutto l’oro se ne andranno lasciandoci un deserto” afferma Eugen David, presidente di Alburnus Maior e uno dei 300 agricoltori che si rifiutano di vendere i terreni alla Gabriel. “Ma non ci riusciranno. Vogliamo uno sviluppo sostenibile, basato sulla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico. Non siamo più ai tempi di Ceausescu: la deportazione forzata è vietata dalla legge. E noi da qui non ci muoviamo”.