Havana under siege
Ora si è spenta anche l’ultima stella. Dopo il Comandante en Jefe, Cuba ha perso il genio artistico di Alicia Alonso, l’indiscussa étoile del Ballet Nacional, scomparsa il 17 ottobre all’età di 98 anni. Fidel e Alicia erano legati da un patto di reciproca convenienza. Per Castro la compagnia di danza, osannata in tutto il mondo, rappresentava un potente strumento di propaganda, il simbolo che incarnava e legittimava i valori della cultura rivoluzionaria. Alla Bailarina en Jefa la protezione e l’appoggio finanziario del governo erano vitali, tanto da indurla a giustificare – con altri intellettuali osservanti – la fucilazione di tre giovani che nel 2003 avevano sequestrato una lancia per emigrare negli Stati Uniti.
La Revolución si ritrova doppiamente orfana mentre sono in pieno svolgimento i festeggiamenti per il 500° anniversario (16 novembre) della fondazione dell’Avana. Vi partecipa in grande stile anche il nostro Paese, che ha trasformato l’avenida Galiano in una vetrina del made in Italy: enogastronomia, musica, arti plastiche e visuali, cinema, moda. Ma oggi a Cuba non c’è molto da celebrare, se non l’oscuro splendore delle chiese barocche e dei monasteri, le meraviglie dell’architettura ispanoamericana restaurate dall’historiador de la ciudad Eusebio Leal e le facciate dei palazzi dell’Habana Vieja, che muratori, pittori e stuccatori stanno risanando.
Balli e concerti non riescono a dissipare l’atmosfera d’incertezza che grava sull’isola. Da quando Donald Trump ha affossato le speranze suscitate dalle aperture commerciali e diplomatiche di Barack Obama, Cuba è di nuovo in trincea, assediata da un embargo che prosciuga le scarse finanze dello stato e strema la fragile economia del Paese.
Falliti i tentativi di spodestare Nicolás Maduro in Venezuela, la Casa Bianca ha preso di mira il suo principale alleato nella regione con una raffica di misure punitive, soprattutto nel settore energetico. Cuba non produce più di un terzo del proprio fabbisogno petrolifero (145 mila barili al giorno) e l’importazione di greggio venezuelano a prezzi agevolati, che dal 2000 ha colmato il gap, si sono ridotte – per effetto del crollo dell’industria petrolifera venezuelana e del boicottaggio americano – da 100 mila a meno di 50 mila barili al giorno.
Trump ha rincarato la dose. In aprile ha firmato una legge che prevede ritorsioni contro i Paesi che commerciano con Cuba. In giugno ha proibito alle navi da crociera americane l’ingresso al porto dell’Avana. Nei mesi successivi ha posto sotto embargo la società petrolifera cubana e le società di navigazione che trasportano greggio all’isola, ha espulso due diplomatici cubani di stanza alle Nazioni Unite, ha approvato ulteriori restrizioni commerciali e ha revocato le licenze per i leasing di aerei alla compagnia di bandiera Cubana de Aviación. Il 26 settembre il dipartimento di Stato ha annunciato sanzioni contro Raúl Castro e i suoi quattro figli, compreso Alejandro Castro Espín, che nel 2014 aveva segretamente negoziato per conto del padre l’accordo per la riapertura delle relazioni diplomatiche con Washington.
Il giro di vite colpisce anche i richiedenti asilo. Solo in ottobre 21 mila cubani si sono presentati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. Ma ora rischiano la deportazione: dall’avvento di Trump il numero dei cubani rispediti in patria è decuplicato. L’ambasciata Usa all’Avana non concede più visti e dal 9 ottobre ai cubani residenti in America è stato imposto un tetto di mille dollari ogni tre mesi alla somma che possono inviare ai famigliari sull’isola.
“Siamo ripiombati negli anni più duri del Periodo Especial” afferma Irene Sanchez, 62 anni, che vive in un appartamento al piano terra di una casa popolare dell’Habana Vieja e ha affittato una stanza a un tecnico che ripara vecchi televisori. “Così almeno riesco a pagare la bolletta della luce”.
Lo spettro del Periodo Especial, la crisi economica innescata dalla dissoluzione dell’Urss e dall’interruzione dei generosi sussidi sovietici, è stato evocato anche da Miguel Díaz-Canel, nominato come da copione il 10 ottobre presidente della repubblica (Raúl Castro resta a capo del regime come primo segretario del comitato centrale del partito comunista) con voto unanime del parlamento. Per fronteggiare l’emergenza il governo ha adottato provvedimenti di austerità che i cubani sono da sempre rassegnati a sopportare: razionamento di alcuni generi alimentari come pollo, uova, riso, fagioli, sapone e altri generi di prima necessità; riduzione dei trasporti pubblici e dell’orario di lavoro negli uffici statali; esortazioni a evitare gli sprechi, a risparmiare elettricità e benzina; a impiegare animali da tiro al posto dei trattori nelle piantagioni di canna da zucchero.
L’arrivo di una petroliera russa ha infuso una boccata di ossigeno. Le chilometriche code alle stazioni di servizio si sono assottigliate, ma il traffico nelle strade dell’Avana è insolitamente scarso: l’auto si usa solo se necessario. E per salire su un autobus i pendolari devono armarsi di pazienza. “Ormai ci ho rinunciato” dice Oscar, impiegato in un’agenzia di viaggi. “Ogni mattina mi faccio un’ora a piedi per raggiungere l’ufficio. Anche se è quasi inutile. Il turismo è in calo. Si sente soprattutto l’assenza degli americani e dei loro dollari”. I nuovi hotel a 5 stelle sono semivuoti e le casas particulares, le pensioni private a conduzione famigliare, stentano a trovare clienti, mentre flotte di variopinte Pontiac, Dodge e Chevrolet anni Cinquanta aspettano invano gli appassionati del vintage tour della città.
Non resta che arrangiarsi. C’è chi offre dulce de leche davanti ai ristoranti e chi raccatta lattine da riciclare, chi trasforma la cucina di casa in un banco di street food e chi si improvvisa barbiere, chi propone sesso a pagamento e chi confeziona bigiotteria e giocattoli da pochi pesos sul Malecón, chi canta Guantanamera nei caffè e chi trafuga sigari nelle tabacaleras, chi vende rum di incerta provenienza e chi installa cavi clandestini per captare le tv del vituperato imperio norteamericano.
Cuba importa il 70 per cento del proprio fabbisogno alimentare. Ma ora con la libreta, la tessera di razionamento, è sempre più complicato ottenere riso, zucchero, pesce. “Bisogna comprare al mercato nero” dice Sara, che gestisce un paladar al Vedado. “Ma i prezzi continuano a salire. Mia madre ha una pensione di 280 pesos, 11 dollari al mese. E un chilo di carne costa quasi 100 pesos!”
Per recuperare liquidità, il governo ha annunciato che consentirà l’apertura di conti bancari in una decina di valute straniere: dovranno servire per comprare nei negozi di stato prodotti di lusso come televisori, frigoriferi e condizionatori, attualmente importati in modo informale dai mules, le migliaia di cubani che fanno incetta di elettrodomestici all’estero (un salasso di due miliardi di dollari l’anno per le casse dell’Avana) per poi rivenderli a prezzi esorbitanti in patria. Ma è una misura che rischia di essere inefficace per l’elevata imposizione fiscale comunque prevista e di approfondire il fossato esistente tra i lavoratori dipendenti pagati in pesos (il salario non supera i 25 dollari al mese) e i privilegiati che hanno accesso al mercato in valuta.
Come accade per l’Iran, l’inasprimento delle sanzioni finisce per colpire gli strati più deboli della popolazione senza indebolire il regime, che può anzi serrare i ranghi e bloccare ogni accenno di riforma politica sfruttando la carta dell’orgoglio e della sicurezza nazionale: un meccanismo che all’Avana, da decenni sotto embargo, è perfettamente oliato. Come in Siria, anche a Cuba l’erratica e fallimentare strategia dell’amministrazione Trump ha spianato la strada a Vladimir Putin, che ha annullato il 90 per cento del debito dell’isola e convertito il resto in esportazioni russe. Come Fidel nel 1962, il governo castrista è costretto a rivolgersi a Mosca.
Díaz-Canel, dopo un viaggio-lampo in Messico per ottenere forniture di greggio dal presidente López Obrador, ha ricevuto in ottobre all’Avana il primo ministro russo Medvedev, con il quale ha siglato accordi nei settori petrolifero, dei trasporti e della produzione di energia. E nel centro dell’Avana risplende nel sole tropicale la restaurata cupola dorata del Campidoglio: el oro de los rusos, l’oro dei russi, spiegano le guide ai visitatori.
In tempi di crisi il controllo sistematico dello stato sulla società si rafforza: le voci critiche non sono tollerate. E a farne le spese sono i giornalisti, gli intellettuali, i difensori dei diritti umani. Molti sono costretti all’esilio, molti altri finiscono in galera, come José Daniel Ferrer, leader del partito di opposizione Unión Patriótica de Cuba, arrestato l’1 ottobre a Santiago.
Jorge Ángel Pérez, scrittore dissidente e pluripremiato (in Italia il suo romanzo Candido a Cuba ha vinto nel 2004 il premio Grinzane Cavour-La Habana), convive con la paura. Lo incontro nella modesta casa piena di libri dove abita con l’anziana madre malata di cuore e il “figlio” Gogol, l’inseparabile husky siberiano. Lo scorso maggio la polizia ha bussato alla sua porta e l’ha portato via in manette. “La mia colpa? Avere chiesto che un gruppo di ubriachi smettesse d’insultarmi. Dopo alcune ore mi hanno rilasciato, ma le aggressioni e le minacce non sono finite”.
Cuba, sostiene Pérez, non è mai stata così divisa e così distante dalla propria cultura: “Dopo sessant’anni di Revolución siamo il Paese più filoamericano al mondo. I giovani hanno un solo obiettivo: emigrare negli Stati Uniti, illudendosi che poter comprare una cassa di birre o un iPhone significhi essere liberi. È molto triste. Come è triste vedere le nostre donne che si umiliano per farsi mantenere da uno straniero”.
Gli informatori prezzolati che tormentano Pérez, “avanzi di galera, alcolisti e trafficanti al mercato nero, ma con ineccepibili credenziali rivoluzionarie”, gli hanno teso una trappola da cui si è salvato per puro caso. “La notte del 28 settembre” racconta “dal tetto di questa casa sono partite delle bottiglie contro i militanti che in strada celebravano l’anniversario della fondazione dei Comitati di difesa popolari. Per fortuna in quel momento ero affacciato al balcone: non hanno potuto incriminarmi”.
Ma la paura lo perseguita. “Paura di uscire col cane, di camminare nel quartiere, di lasciare sola mia madre, di ricevere visite, di rispondere al telefono. Ma anche il regime ha paura se teme così tanto le parole di uno scrittore. E io, anche se ho paura, non smetterò mai di scrivere”.