Giovanni Porzio - da Gaza (29.12.08)
La rappresaglia israeliana contro Hamas era nell’aria da tempo: il ministro della Difesa Ehud Barak l’aveva pianificata nei minimi dettagli fin dalla scorsa primavera. E quando è scattata, alle 11,30 di sabato 27 dicembre, si è sviluppata con una potenza di fuoco devastante. Almeno 60 cacciabombardieri F-16 hanno investito la Striscia di Gaza colpendo caserme della polizia, edifici pubblici, ministeri, basi militari. Ma anche quartieri civili, campi profughi, carceri, moschee, l’università islamica e il porto della città, seppellendo nella carneficina centinaia di palestinesi. Era dalla guerra dei Sei giorni del 1967 che Israele non scatenava un’offensiva di simili proporzioni.
Con quali obiettivi? Ufficialmente l’operazione denominata “Piombo fuso” è la risposta al ripetuto lancio dei razzi Qassam sulle cittadine israeliane del Negev. Razzi artigianali, di scarsa potenza, che in dieci anni non hanno mietuto più di una dozzina di vittime e che però rappresentano una costante minaccia per gli abitanti di Sderot, Netivot, Ashqalon e Ashdod. Ma è improbabile che i raid dell’aviazione e le incursioni dei reparti blindati riescano a fermare gli artificieri di Hamas e della Jihad islamica. E nessuno, neppure Barak, dopo la fallimentare e sanguinosa guerra in Libano nel 2006, auspica una rioccupazione permanente della Striscia. E’ al contrario prevedibile – come insegna la storia degli ultimi 40 anni – che l’attacco israeliano inneschi una nuova spirale di violenza e di attentati suicidi. Da Damasco il leader di Hamas Khaled Meshaal ha esortato i palestinesi a lanciare una terza intifada.
Lo stesso primo ministro dimissionario Ehud Olmert ha del resto dichiarato che Israele dovrà prima o poi ritirarsi dai territori occupati e dalla Gerusalemme araba. L’offensiva sembra dunque dettata da calcoli politici, più che militari. Le elezioni sono fissate per il 10 febbraio e i sondaggi danno favorito l’intransigente leader del Likud Banjamin Netanyahu. Con il via libera all’operazione Piombo fuso i suoi principali avversari, il laburista Barak e il ministro degli Esteri Tzipi Livni, candidata di Kadima, il partito fondato da Ariel Sharon, hanno ridotto lo svantaggio guadagnando consensi nell’elettorato di destra. Non a caso la Livni ha più volte affermato che se diventerà premier farà di tutto per rovesciare il regime islamico di Hamastan.
Un primo risultato, intanto, è già stato conseguito: esasperare le profonde divergenze che dividono i palestinesi. Il presidente dell’Anp Abu Mazen, accusato di tradimento, è sempre più in difficoltà e le elezioni previste alla scadenza del suo mandato, il 9 gennaio, sono state rinviate sine die., assieme alle prospettive di una riconciliazione tra Fatah e la dirigenza islamista di Gaza. Un ridimensionamento di Hamas, al di là delle rituali attestazioni di solidarietà araba, è inoltre visto con favore in molte capitali del Medio Oriente. Al Cairo come a Riyadh la saldatura politica e militare tra gli integralisti sunniti di Hamas e gli sciiti dell’Hezbollah libanese e dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad è fonte di crescente apprensione.
Attraverso gli oltre 600 tunnel scavati dai palestinesi della Striscia lungo il Philadelphia Corridor di Rafah, sul confine egiziano evacuato dagli israeliani nell’estate del 2005, i miliziani di Hamas e della Jihad si riforniscono di esplosivi, lanciarazzi, granate, Kalashnikov e mine anticarro: le gallerie sono state tra i primi obiettivi bombardati dall’aviazione di Tel Aviv. Ma i tunnel sono anche l’unico canale commerciale rimasto aperto dopo l’embargo economico imposto nel giugno 2007. Garantiscono la sopravvivenza del milione e mezzo di palestinesi intrappolati nella Striscia, che con il contrabbando riescono a procurarsi cibo, indumenti, carburante, fertilizzanti per l’agricoltura, detersivi, medicinali.
“La Striscia è una prigione a cielo aperto” dice a Panorama il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum. “Non siamo noi ad avere rotto la tregua. E’ Israele che non l’ha mai rispettata”. La “hudna” in vigore da sei mesi era in realtà una finzione. E Hamas non poteva non sapere che la decisione di non rinnovarla, il 19 dicembre, avrebbe scatenato la reazione israeliana. Anche se le uniche vittime dei razzi Qassam, alla vigilia dei raid su Gaza, sono state due bambine palestinesi centrate per sbaglio mentre giocavano nel cortile di casa. Secondo lo scrittore Amos Oz gli estremisti del braccio armato di Hamas avrebbero cinicamente provocato la sanguinosa rappresaglia di Tsahal con l’obiettivo di suscitare lo sdegno dell’opinione pubblica mondiale e di conquistarsi il sostegno dei palestinesi della Cisgiordania.
Ma neppure Israele è esente da responsabilità. La chiusura dei valichi anche durante la “hudna”, anche per i camion con gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, ha strangolato la già disastrata economia della Striscia, dove il tasso di disoccupazione supera il 60 per cento, il reddito pro capite è di 15 volte inferiore a quello israeliano, il costo della vita è quadruplicato e un palestinese su due vive al di sotto della soglia della povertà. Una forma di punizione collettiva, contraria al diritto internazionale, che non ha in ogni caso raggiunto lo scopo dichiarato di minare le basi del potere di Hamas.
Il movimento religioso fondato dallo sceicco Ahmed Yassin, ucciso nel 2004 da un missile israeliano, ha fatto piazza pulita delle temute e corrotte milizie di Fatah sostituendo all’anarchia il rigido rispetto della legge islamica. E grazie ai generosi contributi delle associazioni benefiche musulmane e degli ayatollah iraniani ha tessuto, sulla falsariga dell’Hezbollah nel Libano meridionale, una rete di protezione sociale e un network di propaganda forieri di consensi politici: dagli asili nido agli assegni per le vedove e per le famiglie dei martiri, dagli orfanotrofi alle scuole gratuite per gli indigenti, dai siti web ai programmi televisivi anti israeliani dedicati ai bambini.
La tempistica dell’operazione Piombo fuso, infine, non è soltanto regolata sull’orologio delle votazioni per la Knesset. E’ probabile che nel decidere l’attacco il governo abbia tenuto conto dell’imminente passaggio di consegne alla Casa Bianca: sono in molti in Israele a ritenere che Barack Obama, pur riaffermando l’appoggio americano a Tel Aviv, non sia disposto a concedere allo stato ebraico l’ampio spazio di manovra di cui si è avvalso negli otto anni della presidenza di George W. Bush.