Iraq, 2003-2005

Kharrar

Shu’ala è un quartiere povero di Baghdad: casupole fatiscenti, fogne a cielo aperto, vicoli sterrati pieni d’immondizia. Quando alle 18.30 di venerdì 28 marzo la bomba esplode nel mercato di al-Nasir, le botteghe dei fornai e i carretti della verdura sono affollati di massaie con la borsa della spesa e di ragazzini che giocano a rincorrersi tra i sacchi di riso e le cassette di verdura. Kharrar, 9 anni, muore sul colpo, trafitto al petto e alla schiena dalle schegge che uccidono 13 bambini e 42 civili, in maggioranza donne e anziani. Altri 50 sono ricoverati in gravi condizioni all’ospedale al-Nur.

Il cratere che ha sfondato il marciapiede non ha le dimensioni delle voragini che aprono i Tomahawk o gli ordigni da 900 chili dei B-52 e nella zona non ci sono obiettivi militari. Un razzo iracheno? Una bomba a frammentazione? Un missile di diverso tipo, sganciato per errore? Nella piccola moschea sciita dove si allineano le bare di assi inchiodate, il padre di Kharrar, Abu Mehdi, non si fa queste domande. “Mio bambino” dice piangendo, in un incerto italiano. “Perché?”

Abu Mehdi è stato 4 anni in Italia, marinaio sulle unità della Marina irachena bloccate a La Spezia durante la guerra con l’Iran. “Bella l’Italia” sospira offrendomi una sigaretta. “Milano, Saronno, Genova…Vieni, devi vedere anche tu”.

Nel lavatoio annesso l’imam dirige il rituale lavacro del corpo. Su un bancone di piastrelle verdi gli addetti sfilano gli indumenti di Kharrar: il giubbottino e i pantaloni di jeans, le scarpe da tennis, la biancheria intrisa di sangue. Lo lavano con cura, più volte, recitando versetti del Corano. Riempiono gli orifizi e le ferite di cotone e di incenso profumato. Poi lo avvolgono in un sudario bianco e lo adagiano nuovamente nella bara.

Abu Mehdi si china per l’ultimo saluto. “Era bello mio bambino. Aveva capelli biondi, come sua madre”.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (marzo 2003)

Le sirene dell’allarme aereo hanno ululato alle 5,34 di giovedì 20 marzo, ora di Baghdad. I traccianti della contraerea sono partiti a raffica dalle postazioni irachene, mentre si udivano in lontananza forti esplosioni nella zona della raffineria di Dhora e dell’aeroporto. La guerra è cominciata: non con il diluvio di bombe e con le devastazioni che tutti si attendevano ma – almeno in questa fase – con un attacco chirurgico contro obiettivi selezionati. E il primo missile, che ha colpito un sito dove l’intelligence americana riteneva si nascondesse Saddam, ha indicato quale strategia intende adottare il Pentagono: decapitare la leadership irachena eliminando il rais.

Il primo colpo è andato a vuoto. Un Saddam dal volto gonfio e tirato, o uno dei sosia che si mostrano in queste occasioni, è apparso sugli schermi della televisione per confortare il popolo e galvanizzare le forze armate. Ma la caccia all’uomo più ricercato del pianeta è appena iniziata e nelle prossime ore altri missili si abbatteranno sulla città.

L’offensiva americana è scattata mentre i muezzin chiamavano i fedeli al fajr, la preghiera dell’alba. Ieri Allah aveva mandato vento e sabbia. Un vento rabbioso che per tutto il giorno era spirato da sudovest oscurando la terrea luce di un sole smunto, velato dalle nubi di polvere sospinte dal gharbi, il soffio del deserto. Un sudario di sabbia era sceso sulla città avvolgendo i minareti e le torri dei grattacieli, i palazzi di marmo del rais e le ciminiere della centrale elettrica. Sotto questa coltre giallastra Baghdad si nascondeva, illudendosi che la tempesta potesse accecare gli occhi elettronici del nemico, confondere i suoi sistemi di puntamento, fiaccare la sua determinazione. O almeno ritardare di qualche ora l’appuntamento con l’annunciata apocalisse.

Ma quando la foschia si è diradata e sono comparse le prime stelle, l’angoscia è tornata a soffocare gli animi e la gente si è rinchiusa nelle case. Il silenzio era rotto solo dai latrati dei cani randagi e dallo sbatacchiare di qualche finestra. Le auto correvano veloci nelle strade vuote. I rari passanti si affrettavano verso le farmacie ancora aperte o si infilavano nelle armerie per acquistare le ultime scorte di munizioni.

Dal pomeriggio di ieri i telefoni sono isolati: impossibile comunicare anche all’interno della città. I Kalashnikov sono stati distribuiti ai vigili e alla milizia che presidia gli incroci e gli accessi ai ponti sul Tigri, mentre militari in tuta mimetica sono comparsi ai posti di blocco e davanti agli alberghi dove alloggiano i giornalisti. Agenti dei servizi di sicurezza osservano i movimenti dei corrispondenti stranieri, pronti a confiscare telecamere e satellitari. Molti colleghi sono stati obbligati ad abbandonare le stanze all’hotel Palestine, situato sulla riva sinistra del fiume, relativamente più distante dagli obiettivi dei missili americani, e hanno dovuto rientrare al Rashid, a ridosso dell’edificio dell’Assemblea nazionale e della centrale dei servizi segreti militari. A chi si rifiuta di diventare uno scudo umano è stata notificata l’immediata esplusione dal Paese.

Le voci incontrollate si susseguono. Si sparge la notizia, diffusa dalla radio iraniana, che Tareq Aziz sia fuggito con la moglie in Kurdistan, poi che sia addirittura morto: ma il vice premier in persona è piombato all’improvviso al centro stampa per smentire “l’ignobile falsità fatta circolare per screditare il governo iracheno”. Poco dopo qualcuno afferma che la frontiera con la Giordania è stata chiusa. Altri sostengono, citando “fonti militari di Washington”, che l’attacco terrestre sarà rimandato di uno o due giorni, mentre il sito internet della Bbc segnala che truppe americane avrebbero già varcato la frontiera irachena a sud di Bassora e si sarebbero attestate all’interno della zona smilitarizzata.

Intanto la televisione di stato trasmette a ciclo continuo programmi propagandistici e bellicosi proclami dei gerarchi del regime. Uday, il primogenito di Saddam, promette una battaglia sanguinosa e lancia sinistri presagi di sventura alle madri e alle mogli degli invasori. I soldati prigionieri saranno considerati mercenari e trattati di conseguenza. Le parate militari si alternano alle surreali dimostrazioni contro la guerra degli sparuti gruppi di pacifisti occidentali rimasti a Baghdad: anarchici e no-global, giovani cattolici e bonzi vietnamiti.

Piagnucolanti cantori ufficiali, accompagnati da orchestrine di liuti e cori di fanciulli,  intonano peana all’amato leader supremo, al presidente, al condottiero, al primo mujahid: “Moriremo per te, per te verseremo il sangue dei nostri figli. Sei la nostra vita e la nostra guida: sei il più grande, Saddam! Con te vinceremo, Saddam!” Nei caffè semideserti qualche anziano avventore fuma il narghile e tirando boccate di fumo profumato alla mela guarda disincantato, ma senza tradire il minimo accenno di sarcasmo, le immagini tremolanti sullo schermo: Saddam saluta le folle osannanti da un palco, con un cappello tirolese in testa e una carabina in mano; Saddam si china paterno ad accarezzare una bimba che gli porge un mazzo di rose; Saddam accende un sigaro cubano mentre passa in rassegna i reparti delle brigate al-Qods e ispeziona una batteria di mortai; Saddam tra i curdi, tra i contadini, tra gli arabi del sud. Saddam che ha trascinato il suo popolo in due guerre devastanti e che adesso lo costringe, inerme, alla mortale sfida contro i più potenti eserciti del mondo.

Poco prima della scadenza dell’ultimatum della Casa Bianca, alle 4 del mattino del 20 marzo, ora irachena, mi sono avventurato per un sopralluogo nelle strade di Baghdad. Fino a notte fonda squadre di militari e di manovali hanno continuato a scavare trincee e ad accumulare sacchetti di sabbia intorno alle sedi del partito Baath e della polizia, lungo i muri dei palazzi presidenziali e di fronte ai ministeri, dove prosegue il febbrile lavoro dei traslocatori: furgoni carichi di computer, documenti, scrivanie, mobili e frigoriferi partono verso destinazioni ignote. Non si vedono armi pesanti, carri armati, mezzi blindati. I preparativi sembrano piuttosto finalizzati a difendere i centri nevralgici e istituzionali del regime e a controllare la piazza nella probabile eventualità di un’insurrezione e di una cruenta guerriglia urbana.

La città era immersa in una cupa penombra. Spenti i lampioni dei viali e degli incroci, spenti i festoni al neon delle moschee e dei bar sul lungofiume, poche le finestre illuminate negli uffici pubblici e nei palazzi del governo. Gli scaffali dei negozi nei quartieri commerciali di Mansur e di  Karrada  sono stati svuotati e sulle saracinesche sprangate e cementate sono affissi indirizzi e messaggi per amici e parenti. Le scorte alimentari sono finite, come pure le candele e le lampade a petrolio. Nei cortili della vecchia Baghdad la gente aspettava la preghiera del mattino, o l’allarme aereo, attorno a fuochi di fortuna: nessuno, la scorsa notte, è riuscito a dormire.

Anche i suoni e gli odori sono cambiati. Il consueto brusio della città, un rassicurante miscuglio di voci, clacson, motorette e radio sintonizzate sulle stazioni FM, si è di colpo placato: si sentono solo le sgommate delle jeep della milizia e il rauco ronzio dei generatori. L’aroma del pane e del kebab, che saliva dai vicoli e riempiva l’aria fino alle prime luci dell’alba, è svanito: nelle strade ristagna il tanfo dell’immondizia che nessuno si preoccupa più di raccogliere, del gasolio e della benzina interrati nei giardini delle case, nascosti nelle cantine e nei sotterranei degli alberghi.

Sui tetti sono visibili le canne della contraerea, puntate verso il cielo in ogni direzione: uomini armati trasportano casse di proiettili e blocchi di cemento.

Gli ospedali sono in allerta. Tutto il personale medico e paramedico è mobilitato in permanenza e le ambulanze sono pronte a dirigersi verso i siti che saranno colpiti. “Non avremo plasma sufficiente per le trasfusioni” dice Salima, infermiera al Saddam Hussein Hospital. “Ci sarà carenza di anestetici, di antibiotici, di ossigeno e le sale operatorie saranno sotto pressione. Se salterà la corrente useremo i generatori d’emergenza, ma la loro autonomia è limitata”.

Tornando verso l’hotel Palestine attraverso gli ampi e spettrali boulevard della Baghdad del potere: il ponte 14 Luglio, l’immenso cantiere della moschea Saddam, gli stadi e i mausolei del regime, la spianata delle parate militari, il tetro monumento ai caduti della guerra con l’Iran, il piazzale con i giganteschi avambracci del rais che brandiscono sciabole sguainate. Domani, forse, resteranno solo le macerie.

Manhal, l’autista che ha deciso di passare con me le notti delle bombe, non parla. Anche lui pensa ai suoi figli. Tamara, la più grande, ha dieci anni: da ieri ha smesso di mangiare. Ore 9: le sirene ricominciano a suonare.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (marzo 2003)

Un cielo nero d’inverno incombe su Baghdad. Un cielo plumbeo, senza sole, attraversato dalle spire di fumo denso e oleoso che si sollevano dalle trincee di petrolio incendiate. La città brucia. I lampi delle detonazioni illuminano gli scheletri degli edifici bombardati. I traccianti della contraerea e le scie di fuoco dei missili terra-aria scompaiono nella tetra caligine che ci sovrasta. Il giorno e la notte si confondono.

Contro i Tomahawk computerizzati e le smart bombs del terzo millennio Saddam Hussein combatte con i mezzi rudimentali che il suo conterraneo Saladino metteva in campo per contrastare l’avanzata degli eserciti cristiani alle crociate. Ma la cortina di fumo non impedisce ai sensori degli Awacs di rilevare i bersagli, né ai software dei sistemi di puntamento dei caccia di agganciare gli obiettivi alle coordinate trasmesse dai satelliti. Serve solo ad attutire il fragore delle armi, a soffocare gli schianti delle esplosioni.

Mi sono abituato ai suoni della guerra. Alle sirene degli allarmi aerei che non sempre funzionano o scattano in ritardo, dopo l’impatto delle prime bombe. Al sordo tuono dei B-52 in avvicinamento. Ai boati improvvisi e allo spostamento d’aria che fa tremare i vetri. Alle raffiche delle mitraglie, mentre il muezzin chiama alla preghiera. Al silenzio vigile di una città che attende, con l’angoscia di un condannato a morte che non sa quando la sentenza sarà eseguita.

Ma non riesco ad abituarmi all’informazione pilotata, alla censura, ai bollettini militari, alla tracotanza dei generali, alla propaganda e alle menzogne che accompagnano ogni guerra. Credo solo a quel poco che vedo, ed è già troppo: la paura dei bambini, il lutto delle vedove, la rassegnazione dei vecchi, la miseria della gente, la violenza della morte.

Mentre scrivo queste righe Baghdad è di nuovo sotto attacco. Ecco il ronzio dei bombardieri, i colpi della contraerea, il missile che colpisce uno degli edifici del palazzo presidenziale sul Tigri, a circa 800 metri da dove mi trovo: abbasso istintivamente la testa mentre l’onda d’urto investe le pareti del mio albergo. Poi altre esplosioni: conto i secondi tra il lampo di luce all’orizzonte e il rombo che segue. Sono lontane, verso la cintura nord della città: sotto tiro sono le basi e le divisioni corazzate della Guardia repubblicana, le difese della capitale.

Le avanguardie delle forze anglo-americane hanno ormai raggiunto i dintorni di Baghdad. Nei giorni scorsi hanno percorso più di 500 chilometri di deserto lungo una direttrice sudest-nordovest sulla riva destra dell’Eufrate, incontrando ostacoli superiori alle previsioni. In un discorso registrato e trasmesso il 24 marzo dalla tv di stato, Saddam ha esaltato l’eroismo dei soldati iracheni: “Allah è con voi” ha detto. “Siate pazienti, perché più accanita sarà la vostra resistenza, più dura sarà la reazione del nemico. La nostra guerra è giusta: sarete accolti in Paradiso”.

Il trionfalismo dei comunicati ufficiali è corroborato dai filmati che mostrano i militari americani uccisi in battaglia o fatti prigionieri, i loro indistruttibili tank in fiamme, i loro elicotteri circondati da guerrieri in kefiah armati di Kalashnikov e lanciarazzi. Un ottimismo alimentato da notizie, impossibili da verificare, di caccia abbattuti e di pesanti perdite inflitte agli invasori.

In realtà, la strategia del Pentagono non sembra contemplare, nella fase attuale del conflitto, la conquista delle città del sud con operazioni belliche che rallenterebbero la marcia dei reparti corazzati e avrebbero un elevato costo in vite umane. La tenace resistenza degli iracheni al porto di Umm Qasr ha indotto gli alleati a consolidare la testa di ponte nella penisola di Fao e le posizioni acquisite attorno a Bassora e ai giacimenti petroliferi di Rumailah per puntare su Baghdad, avanzando rapidamente sul fianco occidentale oltre i centri urbani di Suq al-Shuyukh, Nasiriya, Samawa e i santuari sciiti di Najaf e Karbala. Giunti alle porte della capitale, prepareranno l’attacco decisivo facendo affluire uomini e mezzi lungo questo corridoio, oltre che dalla Giordania e dal Kurdistan.

Intanto, Baghdad sprofonda lentamente nel clima dell’assedio. Ma più che alla Stalingrado prefigurata dal rais, la città comincia ad assomigliare a una Grozny in decomposizione. Bande di miliziani in uniforme e in abiti civili pattugliano le strade sparando raffiche di mitra, apparentemente senza motivo. E dietro la facciata compatta del regime sembra tirare un’aria da resa dei conti: la avverti nei nervi scoperti e negli scatti d’ira dei militanti del partito, negli occhi arrossati e nei tratti tesi dei funzionari, nelle richieste di aiuto per ottenere un visto sussurrate a mezza voce, nel caos che si è impadronito dei ministeri e degli uffici pubblici.

Lavorare è sempre più difficile, quasi impossibile. Nei corridoi del Palestine, l’hotel dove alloggiano quasi tutti i 150 giornalisti accreditati e non ancora esplusi, si aggirano poliziotti e agenti dei servizi di sicurezza. Bussano nel cuore della notte e perquisiscono le camere in cerca dei telefoni satellitari (che dovrebbero restare sempre depositati al ministero dell’Informazione) e delle videocassette senza il timbro della censura: chi è colto in flagrante viene immediatamente accompagnato alla frontiera.

Dormo vestito, con l’orecchio teso ai passi e ai rumori inconsueti, la pila a portata di mano in caso di blackout e il telefono nascosto nelle prese d’aria sul soffitto o nella cassetta svuotata dello sciacquone del bagno. Un sonno leggero, interrotto di continuo dagli spari e dal frastuono delle bombe: quando il boato è vicino, esco con la macchina fotografica sul balcone per vedere dove il missile è caduto e cercare di inquadrare l’esplosione successiva.

In molte zone della città non arriva più la corrente elettrica ed è meglio evitare l’uso degli ascensori. Ombre furtive si arrampicano sulle rampe buie delle scale. Colleghi che si scambiamo informazioni e consigli: “Hanno espulso la Cnn”, “Stanotte dormo al Rashid”, “Hanno scaraventato in strada dal 17° piano la Canon di Jim Nachtwey”, “Oggi è meglio non farsi vedere al centro stampa”, “Ho trovato un negozietto aperto che vende lattine di birra”, “Stai attento a quel tipo senza baffi, è una spia”.

Al mattino la prima tappa obbligata è il ministero dell’Informazione. In una bacheca sono affissi i comunicati con le mutevoli regole imposte ai giornalisti e gli avvisi con gli appuntamenti programmati, quasi sempre privi di interesse: conferenze stampa e interviste con gli scudi umani. Non ci si può allontanare: da un momento all’altro, ma di solito l’attesa si protrae per ore, potrebbero comparire tre autobus azzurri: il segnale che è imminente la gita sociale per i giornalisti alla palazzina sventrata da un Tomahawk e all’ospedale del quartiere, dove improbabili feriti di guerra rilasceranno generiche dichiarazioni tradotte da “interpreti” autorizzati. Le visite ai siti militari colpiti sono fuori discussione. Vietato anche uscire dalla città, avvicinarsi alle trincee in fiamme, fotografare o filmare qualsiasi cosa senza autorizzazione preventiva e senza una guida ufficiale.

Sul tetto del ministero, per disposizione del governo, sono concentrate tutte le attività tecniche dei pochi network televisivi ancora a Baghdad: postazioni audiovideo per le trasmissioni in diretta e tende con le apparecchiature per il montaggio e i collegamenti satellitari. C’è anche l’ufficio di corrispondenza di Panorama: una sedia sistemata tra grovigli di cavi e antenne paraboliche, generatori e sacchetti di sabbia, a poche decine di metri da una batteria della contraerea. La sedia dovrebbe preludere a una stanzetta con le pareti di plastica e cartone in un sottoscala dell’edificio: l’ho affittata con regolare contratto due mesi fa e da due mesi pago, come richiesto dalle leggi irachene, un fantomatico guardiano e un “direttore amministrativo incaricato dei rapporti con le autorità del Paese”. Ma il locale non è ancora disponibile.

Quando suona la sirena dell’allarme, il ministero dev’essere evacuato: ospita l’Ina, l’agenzia di stampa irachena, ed è un possibile obiettivo dei Cruise americani. Abbiamo un paio di minuti per spegnere i computer, staccare i telefoni, riavvolgere i cavi e le prolunghe, afferrare le borse e precipitarci dalle scale esterne nel parcheggio sottostante, dove con 50 dinari si può mangiare un uovo sodo o bere un bicchierino di tè bollente al banchetto del vecchio Khuteiba, mentre gli autisti scrutano il cielo per vedere i missili in picchiata e gli operatori riprendono i bagliori delle esplosioni. Nessuno scende nelle catacombe dei rifugi.

Cadono gocce di pioggia nera. Respiro fumo e gas combusti, puzzo di raffineria. Una patina di gasolio si deposita sulle foglie degli aranci e delle palme, sui finestrini delle auto, sui vestiti, sulle mani. Il vento del deserto agita folate di polvere grigia. Shirin, la ragazzina triste che chiedeva l’elemosina davanti al centro stampa, è sparita con le prime bombe. Ma ci sono sempre Hassan e Mustafa, con la cassetta di legno dei sciuscià, le toppe sul sedere e la faccia imbrattata di lucido da scarpe: me le faccio pulire, anche se non serve, perché non accettano mance se non fanno il lavoro.

Aspetto il momento della battaglia campale, quando potrò sfuggire al controllo dei censori. Intanto mi muovo con cautela, cercando di non dare nell’occhio, come un clandestino nella stiva di una nave: so che è destinata ad affondare e devo capire dove saranno le scialuppe di emergenza. Una chiesa? Una moschea? La casa di un amico? Una sede diplomatica?

Mi spingo ai margini della città, evitando i posti di blocco: i missili cadono sui bunker e sui terrapieni, la grande base militare di Taji è in fiamme. Il cerchio si stringe. Ma nei quartieri popolari di Adamiya e Khadimiya la vita ha debolmente ripreso a pulsare. I ragazzini giocano a calcio nei vicoli, incuranti delle bombe. Gli uomini trovano il tempo di andare dal barbiere. I carretti con le bombole del gas hanno ricominciato a circolare. I pochi negozi aperti vendono sigarette, antenne tv, taniche di plastica. Le donne fanno la spesa sulle bancarelle dei mercati: frutta, verdura, uova, riso, polli, farina. Mi metto in fila con loro, anche le mie provviste si stanno esaurendo. Compro formaggio di pecora e pane appena sfornato. Le mosche hanno invaso Baghdad: nessuno raccoglie i rifiuti, che si accumulano sui marciapiedi, in pasto ai cani randagi.

Ahmed, 13 anni, paffuto figlio di un funzionario locale del Baath, indossa una tuta mimetica e mostra con orgoglio il suo Kalashnikov con il caricatore innestato. Dice che difenderà al-watan, la sua patria. La famiglia Abu Shakir, nonno, figli, nipotini in fasce, sta trasportando casse di munizioni e scorte di carburante nel cortile. Le armi sono dappertutto, nelle sezioni del partito e nelle centrali della polizia, nelle cantine e nei bagagliai dei taxi. Anche il mio autista si è procurato una pistola: “Era di mio nonno” spiega. “Ha l’impugnatura d’avorio: un regalo di re Faisal”.

Si sente all’improvviso una sparatoria sulle rive del Tigri. Sirene, grida, gente che corre sugli argini tra il ponte Sinek e l’hotel Mansur. “E’ il pilota di un aereo abbattuto” urlano i miliziani inferociti. “Lo abbiamo visto scendere con il paracadute, è finito nel fiume, non può essere lontano”. Il regime ha promesso una taglia di 50 milioni di dinari (circa 20 mila euro) per ogni americano catturato vivo e una folla eccitata si lancia nella caccia all’uomo. I più volonterosi incendiano le canne con la benzina, mentre piccoli motoscafi dell’esercito perlustrano le sponde. Nessuno fa più caso ai missili che continuano a piombare sulla città.

Poi, dopo tre ore di inutili ricerche, qualcuno avanza dei dubbi: “Ma sarà vero? E dov’è il paracadute? Non sarà una messa in scena?”. E’ il tramonto e quando la luce comincia a calare scatta un coprifuoco non dichiarato. La folla si disperde, tutti si affrettano verso casa. Al buio solo agli agenti dei servizi di sicurezza è consentito proseguire la battuta di caccia. Raffiche di mitra. Torce e pile che scavano tra i cespugli. Falò di sterpi. Il rombo delle esplosioni che si avvicina.

Un’altra notte di fuoco nel cielo di Baghdad.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (09.04.03)

Baghdad è caduta. “Khalàs! Khalàs! E’ finita! Morte a Saddam! Morte a Saddam!” A Jamila, a Khadumiya, a Karrada, nei quartieri popolari, la gente liberata dall’incubo del dittatore si riversa nelle strade a gridare la sua rabbia. Migliaia di donne, uomini, ragazzini affamati danno l’assalto ai magazzini del governo, saccheggiano i depositi di riso e di farina, caricano jeep, furgoni e carretti tirati da macilenti cavalli di sedie, frigoriferi, ventilatori, lattine di olio, taniche di carburante, televisori, cartoni d’acqua e di bibite, scatolame, barili di lenticchie e di fagioli. Nessuno è in grado di fermarli. Scomparsi i temuti sgherri dei servizi di sicurezza, svaniti i miliziani del partito e i poliziotti, fuggiti i militari. Nessuno dà più ordini. L’esercito ha disertato le caserme, i bunker, le barricate, le postazioni di sacchetti di sabbia intorno agli edifici pubblici e alle sedi del Baath.

I soldati si sfilano l’uniforme e indossano abiti civili, confondendosi con la massa degli sfollati che si allontana a piedi dalle zone degli scontri: vecchi e bambini con i fagotti in spalla e le coperte sotto il braccio che corrono verso le rare auto disponibili o bussano alle porte delle moschee. Agli incroci si vedono i rottami carbonizzati dei mezzi blindati e dei carri armati T-54 colpiti dai caccia, i mortai, i camion e i pezzi di artiglieria abbandonati sotto i ponti dei viadotti. Si sentono colpi isolati, raffiche di mitra, e il frastuono delle bombe e dei missili che piovono da un cielo gonfio di sabbia e di fumo.

Raggiungo la colonna americana che avanza da sudest verso in centro della città. Mi avvicino con cautela, sventolando un lenzuolo bianco. Le avanguardie procedono a piedi strisciando lungo i muri degli edifici dove la gente sbircia dalle finestre, puntano i mitra verso i tetti, cercano con i binocoli i cecchini. Alle loro spalle 150 veicoli: carri armati Abrahms, mezzi da combattimento Bradley, Humvee, anfibi corazzati e blindati per trasporto truppe.

“Sono un giornalista!” grido alzando la macchina fotografica. “Sono il sergente Dino Marino, Settimo reggimento marines di 29 Palms, California” è la risposta. “C’è della birra al Palestine Hotel? E’ lì che andiamo”.

Seguo il battaglione che si avvia lentamente verso Samud street. Qualche iracheno esce allo scoperto con le dita aperte in segno di vittoria. Altri si arrampicano su un’insegna e fanno a pezzi un ritratto di Saddam. Ai lati della strada si formano capannelli di ragazzini che applaudono e urlano “Hello!”. Ma quasi tutti restano tappati in casa o affacciati ai balconi. “Quando vi siete mossi?” chiedo al sergente Marino. “Questa mattina”, dice. “Avete incontrato resistenza?” “Niente di importante: scaramucce, alcune raffiche di mitra. Superata Kut, è andato tutto liscio”.

La colonna imbocca il viale che porta al Palestine e la folla s’ingrossa. Le auto strombazzano in segno di saluto. L’hotel dei giornalisti è l’obiettivo finale, l’ultimo lembo della capitale ancora fuori controllo: tutti sanno che la battaglia di Baghdad sarà finita quando i marines metteranno piede nell’albergo.

Gli Abrahms entrano nella grande piazza della moschea, girano intorno alla colossale statua di bronzo del rais e si fermano davanti all’ex Meridien. Una pattuglia in assetto di guerra scende da un tank e segue il comandante nella lobby dell’hotel. Ora è davvero finita.

Sono le 17 di mercoledì 9 aprile, ora di Baghdad. Meno di due ore dopo la statua bronzea del rais è nella polvere, strappata dal suo piedestallo dal cavo d’acciaio di un blindato. Il regime di Saddam ha cessato di esistere.

Corro a scrivere queste righe nella camera 1603 di questo albergo che era diventato quasi una prigione. A terra, sul terrazzino, c’è una telecamera carbonizzata. I vetri sono sfondati, le schegge sono dappertutto.

Sembra passato molto tempo, invece era solo ieri mattina. Ero appoggiato a quel balcone: in ottima posizione per osservare i tank della Terza divisione di fanteria che avevano raggiunto le sponde del Tigri. Dopo una notte insonne di bombardamenti, guardavo i carri armati farsi largo a cannonate tra le palme nel grande giardino del palazzo presidenziale sulla riva destra del fiume, mentre sugli argini i soldati di Saddam fuggivano verso la città deserta. Vedevo i Tornado e gli F-14 scendere in picchiata sugli obiettivi, le vampate di fuoco, la nuvola bianca che si solleva dalle macerie. Sentivo il fischio delle granate che ci passavano vicine, gli schianti delle esplosioni, la contraerea e il secco crepitio delle mitragliatrici.

I caccia A-10 Warthog bombardavano il ministero della Pianificazione con grappoli di proiettili ad alta penetrazione (6 mila colpi al minuto). Due Apache volteggiavano a bassa quota sopra un quartiere a sudest, in direzione di Karrada street, e prendevano di mira con i missili Hellfire il compound che ospita un comando della Guardia repubblicana.

Era da poco arrivata la notizia che Tareq, un collega giordano, era morto: stava filmando i combattimenti vicino al ponte Jumhuriya quando la sede di al-Jazeera, la televisione per cui lavorava, è stata centrata da un missile americano. Un errore, ha commentato il Pentagono.

Era quasi mezzogiorno. Avevo acceso il telefono satellitare e stavo parlando con mio figlio Francesco, 7 anni. All’improvviso una granata ha colpito l’appartamento sottostante. Un boato, fumo nero e schegge di fuoco sotto i miei piedi. Sono caduto all’indietro. Per alcuni secondi ho perso l’udito, una vibrazione sorda mi risuonava nei timpani. Mi sono precipitato fuori e giù per le scale, 16 piani al buio pensando che la morte mi aveva sfiorato: due metri più in alto e il proiettile mi avrebbe investito.

Il terrazzino mi aveva riparato, ma nelle altre stanze è stato un massacro. Una scheggia ha sventrato Taras, il giovane fotografo polacco di Reuters. E’ morto sul colpo. José, il cameraman spagnolo di Telecinco, respirava ed era ancora cosciente, ma aveva una gamba squarciata, la mandibola fracassata e profonde ferite nel petto e nel collo. Si è spento tre ore dopo, sotto i ferri del chirurgo, all’ospedale al-Nafis.

E’ stato un tank americano, ha ammesso il Pentagono. I marines pensavano di avere visto cecchini e “uomini con binocoli” che osservavano i loro movimenti dall’albergo. Invece erano gli obiettivi dei giornalisti. Sono già 12 i reporter uccisi dagli iracheni o dal “fuoco amico” dall’inizio della campagna militare.

Anche il Palestine, che credevamo il posto più sicuro dove stare, era diventato un bersaglio. Da martedì la lugubre atmosfera dell’hotel degli inviati era diventata più greve. John, collega e amico di José, era riuscito a fare la sua diretta televisiva senza piangere, circondato e sorretto dai giornalisti spagnoli e messicani: avevamo acceso le candele sul bancone di legno dove sono accatastati i computer e i telefoni di Telecinco.

Poi, la macchina dell’informazione si è rimessa in moto. Le telecamere e le luci al quarzo delle postazioni televisive si sono riaccese nel giardino e sul terrazzo dell’albergo, dove sono installate le parabole e le antenne. Ma adesso fotografi e operatori indossano i giubbotti antiproiettile e sono in pochi ad avventurarsi nelle strade della città. Baghdad è caduta, ma bande di fedaiyn armati di Rpg e di Kalashnikov sono ancora appostate sui tetti delle case. E in molti quartieri li marines non hanno consolidato le loro posizioni.

Adesso i carri armati americani circondano l’albergo. Gli spioni del ministero dell’Informazione, gli agenti del mukhabarat che giravano nei corridoi con la pistola alla cintura, gli scagnozzi del regime che per mesi ci hanno braccato e rapinato, sono scomparsi nel nulla. Sono rimasti i venditori di sigarette e di Pepsi calda, la bancarella del tè del vecchio Khuteiba, il narghile e il caffè amaro di Karim e il piccolo Hasan, con la sua cassetta di sciuscià.

Abbiamo i nervi a pezzi: per tre settimane siamo stati sempre sotto le bombe. Rientravamo nelle nostre tane a notte fonda, sperando di riuscire a riposare qualche ora: ci tiravamo su dal letto solo quando i colpi diventavano assordanti, quando i vetri e le pareti tremavano per l’onda d’urto. Forse questa notte potremo dormire.

Uno strato di polvere giallastra copre ogni cosa: i computer, le cassette quasi vuote delle scorte alimentari, i cavi di alimentazione collegati al generatore e alle batterie che serpeggiano sulla moquette tarlata, le lenzuola e gli asciugamani che non vengno più cambiati. Non c’è luce e non c’è acqua corrente per lavarsi. Facciamo il bucato nel lavandino del bagno e friggiamo le uova su un fornelletto a gas.

Niente al Palestine ricorda lo sfarzoso Meridien degli anni Ottanta. E il degrado dell’albergo sembra riflettere quello della città. Gli ascensori non funzionano e nelle scale ristagna l’umido fetore dell’immondizia e degli scarichi intasati. Il ristorante Orient Express serve solo riso freddo e quarti di pollo. Nella lobby è spento da alcuni giorni anche il video che trasmetteva le immagini di Saddam, gli appelli dei generali e degli imam alla guerra santa e i patetici inni canori al “padre di tutte le vittorie”: radio e tv sono state bombardate. Al bar Aladdin, immerso in una cupa penombra, i camerieri sono spariti e un bambino, figlio di qualche gerarca rifugiatosi in albergo, strimpella sui tasti scordati del pianoforte a coda.

Fuori, nell’aria aleggia un odore acre di gasolio e di metallo fuso, di rifiuti in decomposizione e di escrementi. La farmacia di piazza Nasser è l’unico negozio aperto: vende Valium all’ingrosso. Si sente sparare, mitra e cannonate, ma non si capisce in quale direzione. Le ambulanze si dirigono a folle velocità verso gli ospedali che ricevono fino a 100 feriti ogni ora, sono a corto di medicinali e funzionano solo grazie ai generatori. In una strada vicino alla moschea Gailani incontro uomini che vagano senza meta: malati di mente, scappati da un vicino manicomio. A Khadumiya vedo decine di cadaveri nelle celle frigorifere dell’obitorio: molte donne, molti neonati, molti ragazzini con le scarpe da tennis come quelle di mio figlio Francesco.

Baghdad è caduta. Forse nei prossimi giorni i marines riusciranno a scovare Saddam, vivo o morto. Forse troveranno anche le fantomatiche armi di distruzione di massa del suo esercito da operetta. Ma per i milioni di sfollati, di bambini denutriti, di militari allo sbando, di giovani senza futuro di questo Paese devastato dalle bombe, la guerra è appena cominciata.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (aprile 2003)

Un’anonima palazzina a due piani nel quartiere di Khadumiya, non lontano dalla grande moschea sciita di Baghdad, nascondeva alcune delle più sconvolgenti attività segrete del regime di Saddam. La villetta, numero civico 22/1, protetta da un muro con reticolato, con sbarre di ferro alle finestre e vetri oscurati, è stata abbandonata dai suoi occupanti poco prima dell’inizio della guerra. Ma i vicini la guardano ancora con terrore. “Non osavamo fare domande” racconta Ibrahim, che per anni ha spiato il sospetto andirivieni dal giardino accanto. “Sapevamo che succedevano cose strane”.

Domenica 13 aprile, con Gabriella Simoni di Studio Aperto e Fausto Biloslavo del Giornale, ho ottenuto dall’ayatollah Hussein Ismail al-Sadr, che controlla le milizie nel settore settentrionale della città, l’autorizzazione a effettuare un sopralluogo all’interno della palazzina.

Dopo aver forzato il cancello e la porta d’ingresso, penetriamo in due locali immersi nella penombra. Al centro un banco da tornitore made in China, in un angolo un altro tornio, macchinari per lavorare i metalli e un trapano a colonna. Su un tavolaccio di legno mine anticarro, detonatori, sacchetti di plastica pieni di fili elettrici, colla a presa rapida “Aralidite rapid”, compresse di “glibenclamide”, congegni elettronici e una scatola di medicinali trasformata in “booby trap”. Per terra casse di esplosivo al plastico, granate, candelotti di tritolo, cavi per micce, un libro svuotato per contenere sostanze detonanti e centinaia di fogli sparsi o raccolti in cartelle e classificatori. Tutti con lo stemma della presidenza e l’intestazione “IRIS”, Iraqi Intelligence Service.

Ci sono numerose valigette 24 ore “truccate”, pile Duracell a 9 volt per gli inneschi, ampolle di vetro e di plastica contenenti polvere bianca, disegni e foto che spiegano come confezionare i detonatori. Su una cassa è stampigliata la scritta “PLASTIC EXPLOSIVE, LOT SPE 37-9/83”. Su un’altra: “AL QAQAA STAFF ESTABLISHMENT-LATIFIYA, CASE N° 6188, WEIGHT 40 KG”.

Siamo in un laboratorio clandestino dei servizi segreti militari dove i killer del rais fabbricavano i loro strumenti di morte: batterie d’auto imbottite di tritolo, mine comandate a distanza, ordigni a scoppio ritardato. La prova è nelle carte. Ordini d’acquisto per armi e munizioni, elenchi di materiali, lettere firmate da alti funzionari dell’Amn al-Amm, il servizio di sicurezza interno, del Mukhabarat (l’intelligence) e dell’Amn al-Khass, il servizio segreto speciale della presidenza, diretto dal secondogenito di Saddam, Qusay Hussein.

Tra i documenti troviamo la “richiesta di un manuale per fabbricare bombe al plastico”, una fattura di 800 marchi intestata nel 1999 alla società tedesca specializzata in strumentazione elettronica UNISTO e fotocopie di fogli illustrativi di un fucile di precisione con visore notturno. In una lettera si legge: “Stiamo studiando l’offerta per le apparecchiature di intercettazione telefonica”. In un’altra (5/11/91, n° 941/80: dal vice direttore del Mukhabarat alla direzione dei servizi segreti militari): “Confermiamo di aver ricevuto 72 kg di esplosivo plastico”. Una cartella contiene il depliant di un sistema laser di ascolto a distanza prodotto dalla R. & W. Security Ltd., 21 Victoria Road Surrey, United Kingdom: prezzo, 16.800 sterline. Ci sono poi le istruzioni per l’uso di un “Robot 3.500 Slow Scan Television” e di una telecamera da polso realizzata in Germania dalla SIPE Electronic Gmbh.

Il documento protocollato con il n° 1829, firmato dal capo dell’Amn al-Khass, richiede l’invio di vari campioni di armi realizzate dall’officina irachena-palestinese “Al-Ghafiqi”: finto candelotto esplosivo; assicella di legno esplosiva; congegno elettronico che esplode con il calore; microfono con pallottola calibro 35,6 mm; asciugacapelli con proiettile calibro 35,6 mm; mazza da polo con proiettile calibro 35,6 mm; 50 proiettili a salve calibro 35,6 mm; fotografia generica imbottita di esplosivo.

I militari americani hanno già visitato la palazzina: torneranno domani con una squadra di specialisti per bonificarla. Ma neppure i marines hanno osato aprire le quattro porte al piano superiore, limitandosi a praticare dei fori di osservazione. Perché dietro quelle porte si cela, con ogni probabilità, un laboratorio per la produzione di armi batteriologiche.

Fatichiamo a orientarci. In una stanza troviamo strani contenitori sferici di plastica, taniche di reagenti chimici, bottiglie di etanolo, microscopi e una macchina per il trattamento di liquidi a basse temperature con la scritta “BOC Cryoproducts-Liquid Nitrogen”. Nella seconda ci sono monitor a colori Samsung arrivati con il corriere americano Federal Express e sette casse di alluminio con la dicitura MELTRON contenenti apparecchiature portatili a raggi X (ognuna ha incollata la copia della lettera di credito della Banca centrale irachena). Sugli scaffali della terza stanza, accanto a un letto pieno di lanciagranate Rpg, sono accatastate fiale, ampolle, provette, buste di polveri, reagenti da laboratorio. Ma è nel quarto locale che il mistero comincia a chiarirsi.

Ci sono incubatori e spettroscopi della Karl Kolb, una società tedesca di prodotti chimici usati in agricoltura che è fin dal 1991 nel mirino degli ispettori dell’Onu perché sospettata di aver fornito all’Iraq le apparecchiature per la produzione di armi biologiche individuate a Salman Pak e a Muthanna, nei pressi di Baghdad, dove sono stati trovati ingenti quantitativi di botulino, antrace e aflatossine. Di fianco, tra cartucce e fiale “per campioni diagnostici da utilizzare solo in vitro”, uno sterilizzatore della ditta francese Jouan e due incubatori per colture di muffe e funghi della Memmert, una ditta – anch’essa tedesca – che produce apparecchiature per laboratori biologici. C’è infine un “Vacutainer” per il prelievo del sangue prodotto in Inghilterra su licenza della francese Europ Bp di Meylan, Cedex-Flans.

La chiave di lettura è un voluminoso dossier dal vago titolo “Test biologici sugli alimenti”. E’ diviso in tre sezioni: la prima riguarda i funghi; la seconda le tossine; la terza gli effetti delle radiazioni nucleari.

Sfogliando il dossier si passa dai funghi allucinogeni a quelli velenosi, con dettagliate spiegazioni sulle spore, la tossicità, gli effetti sull’organismo umano. I capitoli seguenti si occupano di vibrioni e batteri, quali Salmonella Typhosa, Clostridium Tetanus e Bacillus Anthracis. L’ultima parte disquisisce su reattori nucleari, reattori a grafite, acqua pesante, uranio e conseguenze di un’esplosione atomica con riferimenti a studi occidentali degli anni Ottanta (tra gli altri: Wahi e Banner, Radioactivity applied to Chemistry, Wiley, 1988).

Ma la sezione di maggiore interesse è quella che tratta le micotossine, metaboliti secondari prodotti da muffe che colonizzano gli alimenti. In particolare l’aflatossina e la ocratossina, entrambe letali, che si estraggono dai funghi (Aspergillus, Penicillum, Fusarium, Alternaria, Cladosporium e Rhizopus) mediante solventi quali cloroformio, etanolo e metanolo. Sono tossine mortali, altamente cancerogene, che si formano in natura nelle muffe di piante infette (cereali, cotone, pistacchi, arachidi, mandorle) e nelle derrate in magazzino. L’aflatossina, scoperta in Inghilterra negli anni Sessanta in seguito a una moria di tacchini, è il più potente epatocancerogeno conosciuto. L’ocratossina provoca in breve tempo tumori ai reni, al fegato e alle vie urinarie.

Ora cominciamo a capire il senso di quei lunghi capitoli sui “funghi magici” e sull’Aspergillus, a comprendere il possibile utlizzo di quelle fiale di etanolo, degli incubatori, dei microscopi. Nei documenti e nei fascicoli sparsi sui tavoli e sui davanzali delle finestre ci sono le formule chimiche, le istruzioni per l’uso dei reagenti e dei distillatori, grafici e disegni che spiegano gli effetti delle sostanze tossiche. In un foglio si legge: “queste tossine, mescolate al cibo, sono letali e uccidono sempre”. In un altro: le micotossine persistono a lungo anche dopo la morte del fungo.

Dobbiamo andarcene alla svelta. I miliziani che ci accompagnano sono nervosi: hanno paura. E anche noi ci chiediamo se abbiamo toccato qualcosa di infetto, se davvero in quel laboratorio siano state prodotte armi biologiche e da quanto tempo sia inattivo.

Mi chiudo alle spalle il cancello della palazzina degli orrori. Fuori la gente ci scruta tenendosi a distanza. Quanti scheletri come questo ha nascosto Saddam nelle viscere della città? Dopo l’imposizione dell’embargo e l’arrivo degli ispettori delle Nazioni Unite molte “attività speciali” devono essere state camuffate in appartamenti e villette dei quartieri residenziali, nei retrobottega, nelle cantine della case. Altre, nelle caserme e nelle stazioni della polizia, sono venute alla luce nei giorni del sacco di Baghdad.

Negli uffici dell’Amn al-Khass ho sfogliato i voluminosi elenchi dei prigionieri politici, dei ricercati, dei “comunisti condannati a morte” e dei desaparecidos; le schedature dei sospetti e i videotape degli interrogatori; i dossier degli agenti che spiavano i leader religiosi; i nomi e gli indirizzi degli informatori del Mukhabarat in Bulgaria, negli Stati Uniti e a Londra; i rapporti dell’ambasciata irachena a Mosca (“tutto lo staff deve far parte dell’intelligence militare”), i nastri con le registrazioni telefoniche, le foto segnaletiche, i dossier “top secret” dell’intelligence, le mappe dei quartieri sciiti e delle prigioni segrete. Un file riguarda “l’agente 1372”: a sua volta è controllato da un funzionario che veniva pagato 10 mila dinari al mese. Un altro (n° 8.391) certifica l’avvenuta impiccagione di tale Abbas Darwish Abud “Ambari”, militante del partito sciita Dawa, la cui famiglia è “sotto controlla da 14 anni”.

Quello di Saddam era un apparato repressivo gigantesco e capillare: nulla sfuggiva allo sguardo dei pretoriani di un regime cementato dalla delazione e dal terrore. Nella sede dei servizi segreti militari, a Khadumiya, ho visto le celle di sicurezza e di isolamento, le stanze insonorizzate per gli interrogatori, le camere delle torture. E un buco coperto da una grata di ferro in un cortile interno: vi lasciavano marcire i condannati prima dell’esecuzione.

Una folla rabbiosa armata di mazze e picconi cerca di sfondare una botola di cemento: sotto, grida un uomo con le lacrime agli occhi, ci sono i sotterranei dove finivano i prigionieri politici. “Li hanno murati vivi prima di scappare” dice mostrando la pianta degli scantinati. “Forse non sono ancora tutti morti”.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (8/8/03)

L’alba è lontana, ma il muezzin ha già chiamato i fedeli al fajr, la prima preghiera del giorno. Le Humwee della Task Force 20, l’unità speciale che dà la caccia a Saddam, circondano un edificio nel quartiere di Mansur, mentre due elicotteri Apache volteggiano a mezz’aria in formazione di tiro. Il blitz dura pochi minuti. I marines fanno saltare il cancello d’ingresso e irrompono all’interno sparando raffiche di mitra: due arresti, due casse di proiettili e di esplosivo al plastico, un fascicolo di documenti. Ma del rais, nessuna traccia.

A metà mattina un’autobomba imbottita di tritolo devasta l’ambasciata giordana: una folla inferocita si fa largo tra le macerie e i cadaveri carbonizzati (almeno 11) per dar fuoco ai ritratti di re Abdallah, accusato di sostenere l’occupazione militare dell’Iraq. I Cobra e gli occhi elettronici dei Predator, gli aerei senza pilota, scandagliano la città dal cielo. La polizia militare perquisisce i veicoli ai posti di blocco. Ma gli attentatori si sono dileguati nei meandri della sterminata capitale.

Nel briefing pomeridiano il generale Ricardo Sanchez, comandante delle forze americane, conferma che nella notte due soldati sono stati uccisi in Rashid street, il cuore della vecchia Baghdad. Nel frattempo, a Karrada, un convoglio viene centrato da un Rpg: nello scontro muore una donna. Più tardi, di fronte al ristorante Bahr al-Abiad, entra in azione una banda di rapinatori: fermano una Mercedes a colpi di Kalashnikov, gettano a terra il conducente atterrito e scompaiono sul lungo Tigri, inghiottiti in un pauroso ingorgo. Poco dopo, rientrando in albergo, vedo un uomo imbrattato di sangue con un coltello in mano: è inseguito da cinque individui armati di pistole, a 20 metri da un check point. Nessuno interviene.

La cronaca di una normale giornata nella Baghdad del dopo Saddam si conclude con una granata scagliata da un’auto in corsa contro uno dei tank che proteggono il Palestine Hotel e con il consueto crepitio di fucili mitragliatori che accompagna il coprifuoco.

La guerra in Iraq non è finita. I marines hanno arrestato quasi tutti i gerarchi della dittatura baathista e hanno mostrato al mondo i volti sfigurati degli odiati figli del tiranno. Ma non hanno ancora la sua testa. Saddam continua a far circolare cassette con gli appelli alla jihad. E gli shabbah, i fantasmi che lo nascondono, alimentano le illusorie aspettative di rivincita dei fedelissimi del rais. “Non ha scampo” assicura il colonnello Steve Russell. “Riceviamo segnalazioni sempre più precise. Deve spostarsi ogni 2 o 3 ore in compagnia di un esiguo manipolo di guardie del corpo. E’ solo questione di tempo”.

I raid della Task Force 20, che hanno lasciato sul terreno decine di vittime civili, fomentano la rabbia e il risentimento della popolazione: anche di chi, perseguitato da Saddam, aveva accolto gli americani come dei liberatori. Il moltiplicarsi degli attacchi, dei sabotaggi, degli attentati, delle manifestazioni di protesta e degli slogan anti Usa sui muri di Baghdad segnala un pericolo reale. Il nucleo duro della resistenza è costituito da irridicibili del partito Baath, mujahiddin arabi, fanatici islamisti, ex guardie repubblicane ed ex agenti dei servizi segreti: privi di una struttura di comando e di coordinamento, operano in modo autonomo e disorganizzato. Ma gli arresti indiscriminati, i campi di prigionia allestiti allo stadio al-Shaab e all’aeroporto, la penuria d’acqua e di energia elettrica, la disoccupazione, l’orgoglio ferito, la mancanza di medicinali e il dilagare della criminalità agiscono come detonatori capaci di innescare un clima di guerriglia urbana permanente e di ingrossare le file di quanti, dagli ayatollah integralisti sciiti alle minoranze etniche e religiose, dai nazionalisti sunniti ai militari rimasti senza lavoro, vorrebbero cacciare i 150 mila GI americani dall’Iraq.

“Prima avevamo solo Saddam” dice Abu Faris, venditore di kebab all’angolo di Karrada street. “Ora abbiamo 25 piccoli Saddam e un esercito di occupazione”. Abu Faris si riferisce ai 25 membri del consiglio provvisorio di governo (13 sciiti, 5 sunniti, 5 curdi, un turcomanno e un cristiano, 9 dei quali assumeranno la presidenza con turni di due mesi), che si sono installati nelle ville degli ex generali di Saddam e che, come i boss mafiosi nella Chicago degli anni Trenta, si muovono in cortei di jeep con le canne dei Kalashnikov sporte dai finestrini.

Baghdad è in preda all’anarchia. Le istituzioni e i servizi pubblici sono stati polverizzati. L’esercito e i servizi di sicurezza si sono dissolti, polizia e tribunali sono inesistenti, i ministeri sono stati distrutti, le banche sono chiuse, le poste e i telefoni non funzionano, i rifiuti marciscono sui marciapiedi, i trasporti sono paralizzati. E il proconsole di Bush Paul Bremer, in un accesso di zelo, ha licenziato centinaia di tecnici e di impiegati della vecchia amministrazione, molti dei quali odiavano il rais, trasformandoli in altrettanti nemici di Washington.

Nessuna autorità, neppure quella dei carri armati Abrahms, è in grado di imporre una parvenza di ordine nel caos prodotto da una libertà sfrenata, senza norme e senza legge. Vaste zone della capitale sono prive di corrente elettrica e gli Ali Baba, i ladri che infestano le strade, approfittano dei black out per agire nelle tenebre. Assassini, stupratori e migliaia di delinquenti scarcerati in ottobre da Saddam per festeggiare la sua rielezione con il 100 per cento dei voti seminano il terrore nella capitale. “Quando sono al lavoro” dice Abu Tamara, autista, “mia moglie ha l’obbligo di chiudere a chiave le porte e di non aprire a nessuno, per nessun motivo. Vivo con il cuore in gola: il mio vicino è stato ammazzato per una rapina l’altro ieri, in pieno giorno”.

L’obitorio dell’Istituto di medicina legale, una moderna palazzina di mattoni color ocra, è assediato da una moltitudine silenziosa e disperata: genitori e figli in attesa di riconoscere, quando è possibile, il cadavere di un famigliare. Li sfilano dalle celle frigorifere e li mostrano due alla volta, rigidi come statue e grigi come il marmo. “Nel solo mese di luglio” spiega il dottor Faeq Amin Bakr “abbiamo eseguito l’autopsia su 702 casi di morte violenta. E nell’ultima settimana la media è salita a più di 25 cadaveri al giorno. Ragazzine violentate e strangolate, uomini e donne con il cranio sfondato o uccisi da proiettili sparati a bruciapelo. Persino una bambina di 10 anni decapitata”.

In piena espansione è anche l’industria dei sequestri. Jamil Taher, un benestante uomo d’affari, è riuscito a rivedere il figlio di 8 anni solo dopo aver venduto la propria casa per poter pagare i 50 mila dollari del riscatto. Samir Khalef, ex ufficiale dell’esercito, non è stato così fortunato: ha trovato la figlia di 2 anni con la gola tagliata, in un sacco della spazzatura. La paura è palpabile. Due ore prima del tramonto Baghdad è una città fantasma. I suq sono deserti. I negozi abbassano le saracinesche. Le stazioni di benzina, dove al mattino si formano code indescrivibili di auto, sono vuote. In Sheikh Omar street, brulicante bazar di lattonieri e officine meccaniche, si aggirano solo cani randagi. Anche i due anziani ebrei che da anni vivono segregati nella sinagoga si rintanano nel buio.

La gente si barrica in casa. E i marines si rinchiudono nei loro bunker: nei palazzi di Saddam trasformati in impenetrabili fortezze difese da nidi di mitragliatrici e chilometri di filo spinato; nelle prigioni del mukhabarat e nell’ex club degli ufficiali; nelle ex sedi del Baath e nelle caserme della Guardia repubblicana. Le forze della coalizione hanno occupato fisicamente, per ovvi motivi logistici, i luoghi simbolo della dittatura. Ma hanno anche scavato un fossato sempre più profondo tra il nuovo potere e la realtà di un Paese di cui non comprendono la mentalità e i costumi. E che, anche per questo, faticano a governare.

La ricostruzione stenta a decollare. La ritrovata libertà ha suscitato un’ondata di entusiamo e di iniziative. Solo a Baghdad si pubblicano 50 giornali, anche se spesso inattendibili e diretti da ex giornalisti di regime. I partiti politici sono più di 70, talvolta costituiti da un paio di persone. Le antenne paraboliche e gli internet café sono spuntati ovunque e i cinema proiettano i film erotici di Tinto Brass sfidando gli anatemi e le minacce degli ayatollah. Ma gli iracheni si aspettavano altro: acqua, elettricità, medicinali, sicurezza.

Nei caffè e nelle librerie di Mutanabbi, dove i santini di Ali e dell’imam Khomeini hanno sostituito i ritratti di Saddam, si parla a bassa voce. Spie e delatori sono sempre in ascolto, anche se hanno nuovi padroni. Le conversazioni vertono sullo stesso tema: sparatorie, aggressioni, vendette e rapine a mano armata producono un’insopportabile angoscia, acuita dal caldo torrido e dal senso di incertezza. L’orrore del caos fa rimpiangere il passato. “Democrazia?” si indigna il professor Bayati, insegnante di matematica. “Allora lei non sa cos’è l’Iraq! Qui solo un dittatore può rimettere le cose a posto”.

A quattro mesi dalla caduta di Saddam il Paese con le seconde riserve mondiali di petrolio è costretto a importare greggio per far fronte alle necessità di base (la produzione è precipitata a 750 mila barili al giorno) e le condizioni di vita della popolazione sono ulteriormente peggiorate. “Sono 13 anni che attendiamo le cartucce di cobalto” dice Abed Ali Mahdi, direttore dell’unico ospedale radiologico di Baghdad. “E i farmaci per la chemioterapia sono ancora sotto embargo? Quando in maggio ho inoltrato le richieste pensavo che in una settimana gli americani li avrebbro consegnati. Finora, non è cambiato niente”.

“I progetti devono essere pianificati” rispondono i funzionari delle Nazioni Unite. “Non si può ricostruire una nazione in poche settimane”. Ma gli iracheni sembrano avere esaurito le loro formidabili scorte di pazienza. I medici protestano contro la corruzione del sistema sanitario, i disoccupati organizzano sit in, i turcomanni calano dal nord pretendendo “almeno quattro ministeri” e le prostitute si lagnano perché non hanno accesso alle basi dei GI. Gli unici a non lamentarsi sono i cambiavalute di via Saadun, che lucrano sul dollaro, e gli Ali Baba che continuano indisturbati a depredare abitazioni e uffici.

Nel derelitto quartiere di Thawra, dove i montoni pascolano nell’immondizia e i bambini giocano nelle pozzanghere, non ci sono né luce né gas. Ma nelle strade è esposto tutto il bottino del grande saccheggio di Baghdad: auto rubate, armi automatiche, computer, televisori, frigoriferi, casseforti e l’arredamento completo delle banche, delle ville e dei ministeri dilapidati, dalle scrivanie dirigenziali alle piastrelle dei gabinetti.

Si sono invece miracolosamente salvati, grazie al tempestivo intervento del clero sciita, oltre 350 mila volumi della biblioteca nazionale. “Il 10 aprile” racconta lo sceicco Muhammad Jawad al-Tamimi, imam della moschea al-Haq di Sadr City, “abbiamo avuto notizia che la biblioteca era in fiamme, assaltata dai ladri. Ho subito organizzato sei camion e 50 volontari. Con la protezione di Allah, e di un gruppo di giovani armati, siamo riusciti a mettere al sicuro i libri nella moschea. Ci sono preziosi testi di esegesi coranica e antiche copie della Torah e dei Vangeli: scritture sacre che appartengono agli uomini di tutte le religioni”.

Anche tra gli sciiti, unica vera forza organizzata del Paese, le opinioni sono però all’apparenza inconciliabili. “Dobbiamo collaborare con gli Stati Uniti finché non saremo in grado di governarci da soli” dice a Panorama il bonario e canuto ayatollah Hussein Ismail al-Sadr, una delle massime autorità religiose di Baghdad. Ma a Najaf suo nipote, il giovane e bellicoso Sayed Muqtada, recluta milizie per le brigate al-Mahdi e tuona nelle moschee contro gli infedeli, auspicando l’avvento di una repubblica islamica.

Gli americani hanno vinto la guerra. Come sempre, vincere la pace sarà molto più difficile.

 

Giovanni Porzio – da Nassiriya (novembre 2003)

“Movimento ore 6”. Il parà del Tuscania che seguo come un’ombra nella missione di pattugliamento prende posizione al riparo di un muretto di pietra e punta il raggio laser del mitra verso la moschea. Solo le lampadine verdi del minareto e una debole falce di luna rischiarano la strada deserta. Si sentono alcuni colpi di fucile o di pistola. Vediamo uomini che imbracciano il Kalashnikov correre a testa bassa e allontanarsi a bordo di un pick-up. “Movimento cessato”. Possiamo avanzare dalla sponda dell’Eufrate in direzione del Saddam Hospital, ribattezzato al-Jumhurriah, ospedale della repubblica, dove sono ancora ricoverati gli iracheni feriti nell’attentato terroristico del 12 novembre.

Sono le 2 di una notte di Ramadhan e la città è immersa in un’oscurità quasi totale. Gli unici suoni sono i latrati dei cani randagi e i ragli degli asini. Attraversiamo miserabili quartieri addormentati: fogne a cielo aperto, mucchi di rifiuti, macerie di edifici crollati, pozze di putridi liquami e paludi di fango. Illuminata da un potente faro, la facciata di Animal House, la palazzina investita dall’esplosione che ha fatto strage dei nostri soldati, e che è poi stata saccheggiata da un’orda di famelici Ali Baba, è uno spettrale monumento all’11 settembre italiano: nel gigantesco cratere sono finite matasse di filo spinato, risme di carta, schegge di legno e frammenti di metallo contorto.

“Movimento ore 3, non sparate”. E’ il pick-up che si avvicina, questa volta scortato da un’auto della polizia. Sono miliziani di al-Dawa, il più antico partito islamico iracheno: danno la caccia a un furgone senza targa, segnalato nei paraggi. “Bisogna stare attenti” spiegano i carabinieri. “C’è molto nervosismo, non è agevole distinguere tra amici e nemici. E le forze dell’ordine locali hanno il grilletto facile”.

A Nassiriya, come a Baghdad e nel resto del paese, la sicurezza è l’incubo dei civili e dei militari della coalizione. Lo ripetono i leader religiosi e i capi delle tribù, i commercianti del bazar e i comuni cittadini che al tramonto si barricano in casa rispettando la tacita consegna di un coprifuoco imposto dal pericolo costante di assalti, rapine a mano armata, attentati, sparatorie. Ogni giorno i 1.200 soldati italiani che battono a tappeto la provincia di Dhi Qar scoprono nuovi depositi di armi, munizioni ed esplosivi: lunedì la task force Dimonios del colonnello Angelo Mura ha sequestrato 22 lanciagranate Rpg-7 di fabbricazione russa e irachena. Erano interrati in un campo nei pressi del villaggio di al-Shatra. “E’ evidente” dice il generale Bruno Stano, comandante della Brigata Sassari, che la nostra presenza sul territorio, finalizzata al ripristino delle condizioni di sicurezza necessarie per garantire la ricostruzione, non è gradita a chi punta sulla destabilizzazione”.

La guerriglia ha ampliato nelle ultime settimane il raggio delle operazioni: gli scontri a fuoco, le azioni terroristiche e gli agguati contro i militari occidentali si moltiplicano in tutte le province irachene, dal Kurdistan allo Shatt al-Arab, da Mosul a Bassora. E per la sua posizione strategica Nassiriya, che fino al 12 novembre i kamikaze della jihad avevano risparmiato, rischia di trasformarsi in uno dei fronti più caldi del dopo Saddam. Da Nassiriya passa la principale via di comunicazione tra la capitale e Bassora. A sud, oltre le paludi dell’Haur al-Hammar, in parte prosciugate da Saddam per stanare i ribelli sciiti, si stendono i giacimenti petroliferi del grande bacino peninsulare da cui pompano greggio anche il Kuwait e l’Arabia Saudita. L’Iran è a poco più di un centinaio di chilometri di distanza. E a poche ore di jeep corre il lunghissimo e incontrollato confine saudita: una frontiera incerta, mai definita con precisione sulle carte, attraversata da piste che s’inoltrano nelle propaggini settentrionali del temibile deserto del Nafud.

Spiega Sayed Abady al-Batat, presidente del consiglio municipale di Nassiriya, il “sindaco” della città, che – arrestato nel 1996 – ha passato 7 anni nella sinistra prigione di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad: “I terroristi che hanno ucciso gli italiani sono probabilmente venuti dall’estero. Nessuno è in grado di tenere sotto controllo i confini con la Siria, l’Iran, il Kuwait e soprattutto con l’Arabia Saudita. Non ci riescono gli americani, con i loro satelliti e la loro tecnologia, e tanto meno noi, che non abbiamo neppure i mezzi di trasporto. Lungo le piste che da secoli percorrono i pastori nomadi con le greggi di pecore e cammelli transitano oggi i militanti di al-Qaeda e i mujahiddin arabi, confusi con i pellegrini diretti alle città sante di Kerbala e Najaf, travestiti da commercianti di bestiame o di elettrodomestici, aiutati dai contrabbandieri che, per una mazzetta di dollari, sono disposti a chiudere gli occhi e a non fare domande”. Anche il sindaco, che dice di apprezzare i soldati italiani (“il loro è un compito tecnico, non politico: sono qui per garantire la nostra sicurezza”), ha parole durissime contro gli americani: “Hanno cacciato Saddam e questo ci sta bene. Ma se ne devono andare subito. Non accettiamo l’occupazione militare del nostro paese: se resteranno, li combatteremo armi in pugno. Tutti qui sono pronti a farlo: uomini e donne, vecchi e bambini, contadini poveri e ricchi uomini d’affari”.

Identico l’atteggiamento dell’ayatollah Mohammed Baqr al-Nasri, che mi riceva nella piccola biblioteca di testi islamici attigua alla vecchia moschea nel centro storico di Nassiriya: “Il terrorismo è un’eredità di Saddam. Ma quando sono rientrato dall’esilio in Europa e in Iran, mi sono rifiutato di collaborare con gli americani. Nei 5 mila anni della nostra storia abbiamo sempre lottato contro gli oppressori e gli invasori stranieri. Vogliamo libertà e giustizia, non elicotteri e carri armati”.

Nassiriya conta più di 800 mila abitanti, quasi tutti sciiti di stretta osservanza religiosa: non c’è una sola donna che non indossi l’abaya imposta dalla tradizione, non c’è un negozio che venda una lattina di birra e non c’è una famiglia che non sia in lutto per la morte di un parente ucciso durante le sanguinose repressioni del regime nei primi anni Novanta. Ma ovunque, negli istituti coranici e nelle stazioni della polizia, nei vicoli del bazar e nei ristoranti che alle 5 della sera si riempiono per celebrare la rottura del quotidiano digiuno, si coglie un atteggiamento ambivalente, che oscilla tra la gratitudine e lo sconforto, la delusione e la rabbia. Nassiriya è l’unica città irachena dove i ragazzini e i lustrascarpe hanno imparato a salutarti con un “ciao”. Ma la simpatia nei confronti degli italiani, e il sincero dolore per la strage della scorsa settimana, sono offuscati dal crescente risentimento verso le forze di occupazione. “Americani” è scritto sui muri e sui cartelli stradali della città “la vostra missione è finita: andatevene!” Sulle porte e ai davanzali sono stesi i drappi neri con i nomi dei martiri di questa nuova guerra, nella quale la sottile distinzione tra “costruttori di pace” e nemici anglo-americani, sempre meno comprensibile alla gente, è stata forse definitivamente seppellita sotto le macerie di Animal House.

Le critiche nei confronti degli italiani, anche se velate, del resto non mancano. “Devono aiutarci invece di sequestrarci le armi” afferma lo sceicco Ali Mohammed al-Munshid, capo della potente tribù dei Ghazi, seduto sotto una grande tenda beduina piantata di fronte alla sua casa di campagna e circondato da notabili armati di pistole e di fucili automatici. Al-Munshid, che prima dell’attentato del 12 novembre aveva segnalato alla polizia la presenza di individui sospetti (“non un preciso avvertimento come hanno scritto alcuni giornali” precisa), era entrato a Nassiriya in aprile con i tank americani e, dopo un breve periodo come governatore, è stato emarginato. “Qui, a differenza di Kerbala e Najaf, i religiosi non sono l’unico interlocutore: le tribù hanno conservato un ruolo importante ed è un errore non cercarne la collaborazione”.

Anche lo sceicco Abu Haidar, dirigente di spicco di al-Dawa, ha qualcosa da recriminare: i militari italiani hanno arrestato alcuni militanti armati del partito. “Così ci impediscono di lavorare” sostiene Abu Haidar, che organizza i comitati di sicurezza di quartiere in collaborazione con le milizie religiose. “Solo noi, che viviamo in mezzo alla gente, siamo in grado di svolgere un’efficace attività antiterroristica. Grazie a noi, a Bassora, due giorni fa è stato sventato un attentato: abbiamo bloccato due siriani e un poliziotto iracheno che stavano piazzando del tritolo sotto un ponte”. La carenza di “humint” (human intelligence), che la stessa Cia ha riconosciuto e che sta cercando di colmare, è stata una delle cause dei molti errori compiuti dall’amministrazione Bush nella gestione del dopo Saddam. Gli informatori locali e gli infiltrati sono decisivi nella prevenzione degli atti terroristici in un ambiente di guerriglia generalizzata, in cui le rivendicazioni più o meno attendibili e le sigle dei movimenti armati si moltiplicano. Il comando italiano sta intensificando i rastrellamenti casa per casa, i pattugliamenti notturni, le incursioni a sorpresa nei villaggi e i posti di blocco, ma sta soprattutto operando per rafforzare il settore dell’intelligence.

Nassiriya, infatti, pullula di individui sospetti. Nelle ultime settimane sono giunti in città, apparentemente senza motivo, numerosi wahhabiti barbuti partiti da Ramadi, nel nord sunnita: tentano di spacciarsi per predicatori itineranti, ma la polizia non esclude un loro coinvolgimento nell’attentato contro gli italiani. Altri sunniti di nazionalità irachena sono arrivati da Falluja e da Tikrit, terra natale del deposto rais, alimentando le illazioni sul “patto scellerato” che i Fedayin di Saddam avrebbero stretto con al-Qaeda e con gli integralisti sciiti del sud. Da Najaf, dove lo sceicco fondamentalista Muqtada al-Sadr recluta i futuri martiri della guerra santa contro Bush, filtrano le cellule armate dell’Esercito del Mahdi. E dal Kuwait e dall’Arabia Saudita proviene un flusso incessante di pachistani ufficialmente in cerca di lavoro. Alcuni di loro sono stati arrestati: nel loro bagaglio, insieme al Corano, sono state scoperte armi, confezioni di esplosivo e una foto di Osama Bin Laden.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad (29.09.04)

L’onda d’urto è un uragano che si abbatte sulla strada in una frazione di secondo e imprime nel cervello una sequenza di fotogrammi rallentati: il lampo dell’esplosione, i vetri e i calcinacci che schizzano come proiettili, il puzzo di benzina e di plastica bruciata, la nera spirale di fumo da cui emergono le sagome barcollanti dei feriti. Quando recuperi l’udito il tempo riprende a fluire e i frammenti si ricompongono: Kharrada street, un razzo ha colpito una jeep americana, i corpi carbonizzati di un marine e di un passante sono a terra tra i detriti e le lamiere in fiamme, gli elicotteri sorvolano il quartiere a bassa quota.

La radio menziona appena l’episodio. E’ solo uno dei 70 attacchi che ogni giorno contraddicono l’affermazione del premier Allawi, secondo il quale la violenza è circoscritta a tre delle 18 province del paese. In soli dieci giorni le autobombe, le imboscate, i raid aerei e gli scontri a fuoco hanno ucciso più di 300 iracheni e una trentina di militari della coalizione da Bassora a Mosul. Mentre anche dopo la liberazione di Simona Pari e di Simona Torretta continua l’agonia degli ostaggi: 28 dei 140 sequestrati sono stati trucidati e i loro cadaveri decapitati o crivellati di colpi gettati nella spazzatura.

Sopravvivere a Baghdad è come giocare alla roulette russa. “Esci per andare al lavoro o a fare la spesa e non sai se torni a casa” dice Hatif Khadim, 37 anni, impiegato al ministero del Commercio. “Ma alla fine ti abitui, impari i trucchi per evitare gli ingorghi del traffico, le zone più a rischio. E ti affidi alla misericordia di Allah. Cos’altro possiamo fare?”

I giornalisti sono asserragliati al Palestine Hotel e in altri due o tre alberghi difesi da barriere di cemento armato, presidiati da ex legionari ed ex commando delle forze speciali britanniche, serbe o sudafricane. Le televisioni francese e tedesca hanno evacuato il personale non iracheno e molti uffici di corrispondenza hanno chiuso i battenti. I colleghi inglesi ricevono regolarmente via e-mail aggiornati “security warnings” con le informazioni sulle aree da evitare, le precauzioni da adottare e le fasce orarie off limts nei diversi quartieri della città. Le agenzie fotografiche si avvalgono di free lance locali disposti a finire sulla lista nera dei terroristi come “spie” del nemico.

I soldati americani escono in pattuglia dalle loro basi solo in convoglio, seguiti dagli occhi elettronici degli elicotteri. L’ambasciata italiana, ripetutamente presa di mira dai mortai, è un bunker di sacchetti di sabbia e nidi di mitragliatrici: una fortezza Bastiani consegnata ai paracadutisti del battaglione Tuscania in assetto da combattimento. Numerosi diplomatici occidentali hanno uffici e alloggi all’interno della “zona verde”, sulla quale piovono comunque ogni notte missili e granate e dalle quale evadono sempe più di rado a bordo delle auto blindate.

Milioni di iracheni sono invece costretti a uscire allo scoperto sfidando la sorte. Se ti avventuri per le strade – sempre in macchina, con lo stesso vecchio autista e il telefono satellitare sotto il sedile, pronto a cambiare itinerario alla minima avvisaglia – avverti subito la nauseante sensazione di essere braccato. Ti sorprendi a controllare lo specchietto retrovisore, a guardare con diffidenza i ragazzini che tirano calci a un pallone, a cercare l’ombra di un cecchino sui tetti dei palazzi in rovina: a pensare che qualcuno ha forse già deciso il tuo destino. Magari quel giovane con la kefiya che da una Bmw senza targa ti grida beffardo: “Al-Zarkawi!”

Gli iracheni hanno imparato a convivere con la morte in agguato. A dormire con l’orecchio teso allo scoppio delle granate. A tenersi alla larga dai check point, dalle basi americane, dalle caserme della polizia, da certe moschee e da certi quartieri. “Faccio finta di essere in un film” scrive Ahmed, studente di ingegneria, in una pagina del suo blog. “Non può essere reale: non sono veri i cadaveri dilaniati, i veicoli in fiamme, i palmeti inceneriti, i caccia che attraversano il cielo”.

Baghdad è una città senza bambini, segregati in casa. E senza donne, confinate tra le mura domestiche o costrette a indossare il velo islamico. Molti genitori hanno deciso di non mandare i figli a scuola: l’inizio dell’anno scolastico, a metà ottobre, coincide con il Ramadhan, il mese prediletto dai martiri della jihad. Anche le chiese, la domenica, sono semivuote: 4 mila famiglie cristiane sono emigrate in Siria, ingrossando la diaspora degli oltre 700 mila correligionari rifugiati all’estero.

Le abitudini della gente sono cambiate. Per evitare pericolose attese ai distributori di benzina gli autisti si riforniscono al mercato nero e accumulano scorte nel garage, incrementando il rischio di incidenti involontari, causa prima delle gravissime ustioni che i volontari della Croce rossa italiana sono impegnati a curare. Nel weekend la capitale è deserta. Nei giorni feriali si spopola nel pomeriggio, quando in Rashid street e nel suq di Shorja si abbassano le saracinesche. E’ l’ora degli Ali Baba e dei rapitori di bambini: l’ignobile business fiorito nel caos del dopo Saddam.

La guerriglia ha le sue regole. I kamikaze colpiscono al mattino, quando l’affollamento garantisce il maggior numero di vittime, e si riposano nel fine settimana. L’artiglieria entra in azione soprattutto dopo il calar del sole, quando i convogli militari rientrano alla base e i miliziani, protetti dall’oscurità, hanno elevate probabilità di sfuggire alla caccia delle forze speciali americane. Le imboscate sono più frequenti sulle grandi vie di comunicazione dove si muovono i convogli e i mezzi blindati. Ma gli imprevisti non mancano: ordigni telecomandati, pallottole vaganti, tiri isolati di Rpg, rivoltellate alla nuca.

I commercianti si sono attrezzati. Hanno trasferito le famiglie all’estero, hanno cambiato indirizzo, hanno assoldato squadre di vigilantes per proteggere gli autocarri con la merce in transito dalla Turchia, dalla Giordania, dalla Siria. Mentre nel mirino dei terroristi sono entrati anche i collaboratori locali dei giornalisti, delle ambasciate e dei militari della coalizione. Almeno 40 interpreti sono stati uccisi solo a Baghdad, oltre a un numero imprecisato di guardiani, operai, tecnici, insegnanti e professionisti ingaggiati dalle società che hanno appaltato i progetti di una ricostruzione decollata solo negli studi di fattibilità delle multinazionali americane e nei sogni di una popolazione costretta a campare senza luce e senza lavoro. Ma l’obiettivo numero uno dei kamikaze sono i poliziotti e i gendarmi della guardia nazionale irachena.

Ne sono già morti più di 700, ma gli aspiranti al più pericoloso mestiere del mondo continuano ad affluire, spinti dalla fame di un impiego a qualsiasi costo. Giovani come Khaled Zumari, venuto in autobus da Bassora attratto dal miraggio di uno stipendio base di 60 dollari al mese, che può arrivare fino a 200. La scorsa settimana un’autobomba ha ucciso 47 ragazzi in fila davanti a un centro di reclutamento. “Non riesco a capire perché ci lasciano in mezzo alla strada a fare da bersaglio” dice Khaled. “Perché non possiamo stare al sicuro, all’interno delle basi americane?”

La ragione è una sola: la paura di un attentato. Tra i militi e gli ufficiali si annidano le spie, gli informatori, gli infiltrati della guerriglia. Almeno uno dei rapitori delle due Simone indossava l’uniforme e impugnava una pistola calibro 9. Il generale Talib al-Lahibi, capo della sicurezza nella provincia di Diyala, appena nominato dagli americani dopo l’omicidio del suo predecessore, è stato arrestato giovedì scorso per collusione con gli insorti.

 

Giovanni Porzio – da Baghdad

“First up!”. La prima unità in servizio della 54ma Compagnia di evacuazione medica scatta verso l’elicottero. Ogni secondo è prezioso. La squadra di soccorso agguanta i giubbotti antiproiettile, i fucili M-4, i  kit di sopravvivenza, lo zaino con la morfina e i medicinali. Le turbine sono già in funzione e le pale dei Black Hawk cominciano a girare sulla piazzola d’asfalto della base aerea di Balad.

Un convoglio del Quinto reggimento di fanteria meccanizzata è sotto attacco sulla strada per Tikrit e un soldato colpito da un scheggia è in gravi condizioni. L’allarme (“Medevac!” seguito dalle coordinate geografiche) è stato captato sulla frequenza radio 33.55 dal TOC, il Tactical operation center, un tendone irto di antenne in allerta 24 ore su 24. Sette minuti dopo i “birds” sono in volo.

Nelle cuffie dell’elmetto ricevo le stringate istruzioni del comandante: “Qui Jensen. Codice X, i bad guys stanno ancora sparando. Una sola regola: resta sempre incollato alla tua scorta”. Velocità 150 nodi. L’altimetro non supera i 50 piedi, poco sopra i fili della luce, per evitare di essere avvistati e inquadrati dai razzi degli insorti. I Black Hawk, privi di armamento pesante, dovrebbero avere la copertura aerea, ma ai Cobra e agli Apache servono una ventina di minuti per scaldare i rotori: un tempo infinito per i piloti del Medevac.

Jensen punta dritto all’obiettivo, in un’area desertica offuscata dal crepuscolo incombente: “Target a ore 13. Ready to go”. Un fumogeno rosso segnala il luogo dell’atterraggio dove una colonna di jeep e di mezzi blindati è bloccata dal fuoco nemico. Saltiamo a terra. Dalle torrette dei Bradley i mitraglieri rispondono ai tiri degli Rpg. Il sergente Robinson, infermiere specializzato, si precipita a recuperare il ferito, che sul giubbotto ha un adesivo con il nome, Spec. Harry B., e un appunto: “Scheggia alla gamba sinistra”. Corriamo a testa bassa verso l’elicottero. Le strisce verdi dei traccianti si perdono oltre le basse dune grige: uno ogni cinque colpi.

La barella gronda sangue. Mentre il Black Hawk si stacca dal suolo il sergente Robinson si mette al lavoro. Stringe i lacci emostatici, inietta una dose di morfina, misura la pressione e il battito cardiaco. “Mi senti? Riesci a vedermi? Dimmi come ti chiami!” Harry è cosciente ma è sotto shock, pallido, il torso squassato dai sussulti. Per arrestare l’emorragia Robinson deve ricorrere al “quick clot”, una polvere capace di chiudere all’istante le arterie lacerate. “Per stabilizzare i pazienti in preda a convulsioni” mi urla nelle cuffie “possiamo usare un farmaco paralizzante”.

In meno di mezz’ora la missione si è conclusa. Harry è sotto i ferri in una delle tre sale operatorie del 21mo CASH (Combat Army Support Hospital) di Balad: 84 brande in tende con aria condizionata e apparecchiature sanitarie in grado di far fronte a qualsiasi emergenza.

I bollettini militari si accontentano di redigere il gelido bilancio dei caduti: nome, grado, corpo d’appartenenza. Non raccontano le loro storie. Né quelle dei piloti e degli infermieri che ogni giorno rischiano la vita per salvare i compagni colpiti dai cecchini o dilaniati dai frammenti delle bombe. Non descrivono i blitz notturni, le disperate corse fino all’emergency room, l’abnegazione dei chirurghi e degli anestesisti, l’agonia dei mutilati. Quasi 2.900 soldati americani sono morti in combattimento. Ma altri 20.000 sono stati feriti. E molti resi invalidi per sempre. A migliaia di reduci sono stati diagnosticati disturbi mentali da vario genere, dall’amnesia alla psicosi. “Viviamo con addosso l’odore del sangue” dice Jensen. “Dopo ogni missione ci resta attaccato alla pelle, alle divise, agli scarponi”.

Il magazzino è zeppo di grucce e di sedie a rotelle. Il numero degli amputati e dei paraplegici è in continuo aumento: gli Ied (Improvised explosive device), i proiettili d’artiglieria e le granate che esplodono al passaggio dei convogli hanno effetti devastanti sugli arti inferiori e superiori. “Non è roba che si vede in televisione” dice uno dei chirurghi. “Ragazzi di 19 anni con le gambe spappolate, con una dozzina di pallottole nel corpo, con le facce sfigurate dagli shrapnel”.

La base è una delle più grandi del Paese: sulle piste atterrano gli F-16 e i giganteschi C-17. Negli hangar gli addetti alla manutenzione riparano gli elicotteri. Nei bunker di cemento armato dei generali di Saddam sono all’opera i comandi e i centri di comunicazione del Pentagono. “Facciamo turni di 12 ore” racconta Mike, 26 anni di Palm Springs, in California. “Copriamo le province di Samarra, Tikrit e Baquba, fino al confine iraniano. Nell’ultima settimana siamo usciti ventidue volte”. Suo bisnonno, di cognome Carilli, partì da Napoli nel 1902: clandestino su un piroscafo diretto a Ellis Island.

“Dustoff 843” mi riporta nella zona verde. “Dustoff” è il termine convenzionale assegnato agli elicotteri del Medevac ai tempi della guerra in Vietnam quando, nel ‘62, giunsero in Indocina le ambulanze volanti: nell’arco del conflitto evacuarono quasi un milione di soldati. “In Vietnam” spiega il colonnello Edgar Erin, comandante del 28mo CASH dell’82ma Divisione aviotrasportata di Fort Bragg, l’ospedale di guerra della Green Zone, “meno della metà dei feriti riusciva a sopravvivere. Ora la percentuale supera il 90 per cento: grazie alle nuove tecnologie e alla rapidità d’intervento”.

L’ospedale è dedicato a Ibn Sina, Avicenna, il grande medico, filosofo e scienziato musulmano del Decimo secolo. Era la clinica privata di Saddam e dei gerarchi del regime, con pavimenti e pareti di marmo e un intero reparto attrezzato per un solo paziente.

In terapia intensiva sono ricoverati un bambino di tre anni con un proiettile nel torace e una ragazzina di otto, Iman, con la pelvi squarciata dalle schegge di una bomba. In una stanza asettica s’intravede la mummia avvolta nelle garze di un soldato bruciato dall’esplosione di una granata. Più avanti c’è il lettino di Ajeed Mohammed, poliziotto di 25 anni centrato da una raffica nel ventre. Se non sono in pericolo di vita gli iracheni vengono trasferiti negli ospedali locali. Ma il ministero della Sanità è controllato dalle milizie di Moqtada al-Sadr: i sunniti corrono seri rischi.

“Di fronte ai bambini è difficile riuscire a non piangere” racconta la giovane infermiera Ausha Partido di El Paso, Texas. “E la medicazione dei grandi ustionati è terribilmente dolorosa. Dobbiamo usare dosi massicce di narcotici e analgesici”. Nelle bacheche, accanto agli auguri per il Giorno del ringraziamento, ai messaggi dei famigliari e delle fidanzate, alle bandiere americane, agli orari della mensa e dei turni, sono affissi manifesti sugli effetti della morfina e sui rischi della dipendenza. Un team di psicologi e di psichiatri offre assistenza allo staff e ai pazienti che manifestano sintomi da Post-traumatic stress disorder, la sindrome da stress post traumatico: ipersensibilità, incubi, comportamenti di fuga, depressione, inappetenza, instabilità caratteriale. “Vogliamo che i ragazzi tornino a casa come erano prima” spiega il colonnello Erin. “Ma non sempre è possibile”.

Il centro dell’azione è l’emergency room diretta dal tenente McKenzie, californiano di Los Angeles, sempre incollato alla radio e all’armadietto dei farmaci. Arriva la prima segnalazione. Un Black Hawk sta atterrando all’eliporto con due soldati in condizioni critiche. I barellieri partono a bordo dei “gaters”, i carrelli motorizzati per il trasporto dei feriti gravi, e in pochi minuti l’ER è pronta ad accoglierli: plasma, flebo, siringhe, farmaci, ossigeno, bende, tamponi, bisturi, apparecchiature elettroniche.

Penso ai dilapidati e sinistri ospedali di Baghdad, senza luce, senza acqua corrente e senza medicinali, con i parenti che aspettano rassegnati davanti ai cancelli e le casse di legno che si allineano di fronte all’obitorio. Qui è un altro pianeta. Attorno ai due soldati si muove in perfetta sincronia un’equipe di infermieri e di specialisti: chirurgo, anestesista, cardiologo, radiologo. Non manca il conforto del cappellano militare, il maggiore Kwon Pyo. Uno dei due marines, colpito alla testa, è in coma: dovrà essere evacuato in Germania o al nosocomio militare Walter Reed di Washington.

C’è appena il tempo di infilare nei sacchi di plastica i brandelli insanguinati delle divise e gli elmetti di kevlar. Altri due feriti entrano al pronto soccorso. Epw, Enemy prisoners of war, prigionieri di guerra. Niente foto: lo stabilisce la Convenzione di Ginevra. “Hanno diritto a un identico trattamento” spiega McKenzie. “Ma a volte è duro dover curare i bad guys”. Sono a pochi metri uno dall’altro: il soldato americano con la scheggia nel cervello e il terrorista con le mani spappolate e il volto carbonizzato dallo scoppio dell’ordigno che stava fabbricando.

Il cappellano mi sussurra qualcosa nell’orecchio. “Angel’s flight, il volo dell’angelo. E’ il nome in codice”. L’angelo della morte arriva senza preavviso. Massima sicurezza. E ha le ali d’acciaio di un Sikorsky UH-60A. Oggi si porta via due bare d’alluminio nel cielo di Baghdad.