Giovanni Porzio – da Tehran
“Sono più di diecimila i poliziotti e i soldati che presidiano i confini con il Pakistan e l’Afghanistan. E sono più di 3.500 i caduti nella guerra che combattiamo contro i trafficanti. Ma siamo pronti ad affrontare altri sacrifici per debellare questo flagello”. Il presidente iraniano Mohammed Khatami non nasconde la propria preoccupazione ad Antonio Maria Costa, direttore dell’Unodc, l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta al crimine e alla droga, in visita a Teheran. Il palazzo di Niavaran, l’ex residenza estiva dello scià Reza Pahlevi sulle alture della capitale, dove Khatami riceve le delegazioni ufficiali, splende di stucchi, cristalli e preziosi tappeti persiani: è lontana anni luce dalla selvaggia frontiera orientale, sterminata terra di nessuno dove transitano tonnellate di oppio e di eroina, convogli carichi di armi, taliban afghani e mujahiddin delle cellule terroristiche affiliate ad al-Qaeda.
Zahedan, capoluogo della provincia del Sistan-Baluchistan, è una polverosa cittadina sovrastata dai 4 mila metri del monte Taftan. Le tempeste di vento oscurano il cielo di sabbia. Il termometro, che d’estate segna una temperatura di oltre 50 gradi, scende sotto lo zero. Nelle piazze, accanto ai ritratti dell’imam Khomeini e del suo successore, l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo della rivoluzione, sono allineate le foto dei martiri: piloti di elicottero e agenti delle forze dell’ordine uccisi negli scontri. Zahedan, che alcuni chiamano ancora con il vecchio nome di Dozdha (in farsi: “rapinatori”), è la centrale di tutti i commerci illeciti e di tutte le mafie che operano nella Repubblica islamica. Tre turisti occidentali, due tedeschi e un irlandese, sono appena stati rapiti e i sequestratori hanno chiesto 5 milioni di euro di riscatto: l’equivalente di una partita di eroina confiscata dalla polizia.
“A pochi chilometri da qui” spiega il governatore Hossein Amini “convergono i confini di Iran, Pakistan e Afghanistan. Sono linee di demarcazione virtuali, tracciate sulle carte ma ignorate dalle popolazioni nomadi che da secoli le attraversano alla ricerca dei pascoli”. Il contrabbando è un’attività connaturata al nomadismo delle tribù baluchi: trasportare prodotti di base e oggetti di consumo oltreconfine è l’unico modo per arrotondare i magri guadagni derivanti dalla vendita degli animali. Ma negli ultimi anni il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan, il crescente attivismo in Pakistan degli ex taliban e dei terroristi vicini ad al-Qaeda e al gruppo di Gulbuddin Hekmatyar hanno trasformato la regione in una delle aree più calde e instabili del Medio Oriente. I baluchi sono sunniti, mantengono forti legami di parentela con le tribù del Baluchistan pachistano e controllano l’immenso territorio desertico e scarsamente abitato che si estende da golfo di Oman fino alle propaggini meridionali dell’Afghanistan e a Quetta, quartier generale della resistenza neotalibana dove la scorsa settimana è stata segnalata la presenza del mullah Omar.
Il posto di confine di Mir Javeh è al centro di una landa arida e desolata. Sorvolandola a bordo di un vecchio elicottero Bell della polizia si vedono catene di montagne color ocra senza una casa e senza un cespuglio, i solchi profondi dei torrenti prosciugati dalla siccità, le piste disegnate dalle ruote delle jeep sul tavolato di roccia e di sabbia dura che sale a ovest verso l’altopiano iranico e, ai margini delle strette vallate, i sentieri dei contrabbandieri. “I terroristi e i trafficanti seguono il letto asciutto dei wadi” dice il comandante della polizia di frontiera Mohammed Fedayi Mollahshahi. “Viaggiano di notte, a tutta velocità, in convogli di 50 o 60 fuoristrada: metà cariche di armi e di droga, metà di scorta, con mitragliatrici, granate, lanciarazzi e missili terra-aria Sam7 in grado di abbattere i nostri elicotteri. Contro di loro ingaggiamo vere e proprie battaglie campali”. Negli ultimi otto mesi 28 trafficanti e 17 agenti sono rimasti uccisi in 183 scontri a fuoco.
Nel tentativo di contenere le infiltrazioni gli alvei inariditi dei fiumi sono stati sbarrati da muri di cemento armato e dighe di sabbia sorvegliate da sentinelle apppostate sulle creste delle colline. Ma i trafficanti, accompagnati da guide baluchi, superano agevolmente l’ostacolo: “Passano a piedi” racconta il comandante Mollahshahi “attraverso le montagne, in carovane di muli e di cammelli. E in Iran trovano i complici con i camion e le jeep pronte al trasporto”.
Esercito e polizia, che sequestrano ogni anno centinaia di tonnellate di stupefacenti, non dispongono di mezzi e tecnologie sufficienti a sigillare la frontiera: mentre trafficanti e terroristi utilizzano telefoni satellitari e sofisticati sistemi di trasmissione radio, l’embargo impedisce a Teheran di acquistare all’estero i visori notturni di terza generazione. Il governo ha speso più di un miliardo di dollari per costruire 212 postazioni fortificate, 205 punti d’osservazione, 290 chilometri di trincee e quasi 800 chilometri di muri e di filo spinato. Ma il controllo assoluto su una zona di confine così vasta e deserta è impossibile.
Dall’elicottero il network degli sbarramenti è chiaramente visibile: una linea ininterrotta di terrapieni e di altane di avvistamento segue il tracciato di una trincea larga 4 metri e profonda altrettanto, scavata con i bulldozer nel terreno arso dal sole e battuto da un vento rabbioso. Attraverso questo ambiente ostile, lungo piste sempre diverse e imprevedibili, i trafficanti riescono comunque a passare e a inoltrarsi, con la connivenza della popolazione locale e di poliziotti corrotti, all’interno del paese. A nord, in direzione della Turchia e del Kurdistan. A sud fino ai porti del Mar Rosso, dove li attendono i motoscafi veloci che fanno la spola con il porto di Bandar Abbas e i paesi del Golfo. E a ovest per raggiungere la frontiera irachena sull’antica rotta seguita dagli eserciti di Alessandro Magno in marcia verso Babilonia: ora utilizzata dai terroristi di al-Qaeda, secondo l’intelligence americana, come “pipeline” per i finanziamenti, i rifornimenti di esplosivo e il reclutamento di martiri per la guerra santa contro gli infedeli occidentali.
“Speravamo che la caduta dei taliban e l’arrivo della forza multinazionale a Kabul avrebbero migliorato la situazione al confine” afferma il generale Ghalibaf, capo della polizia iraniana. “Purtroppo non è stato così. Al contrario, l’aumento del traffico di droga ha enormemente accresciuto l’insicurezza alla frontiere. Il numero degli omicidi, delle rapine, dei sequestri di persona è aumentato. E la popolazione è stata costretta ad abbandonare i villaggi a ridosso dell’Afghanistan e del Pakistan”. Ma tra i fattori che alimentano la criminalità, il consumo di droga e i traffici clandestini c’è anche un altro elemento decisivo, che il generale omette di citare: il dilagare della disoccupazione in un sistema economico in crisi, paralizzato dal conflitto tra i conservatori che detengono le leve del potere e le forze sociali che aspirano al rinnovamento e alle riforme. In un paese in cui la metà della popolazione ha meno di vent’anni, i giovani senza lavoro sono ufficialmente più del 30 per cento: molti di più, forse il 70 o 80 per cento, nella depressa provincia del Sistan-Baluchistan.
Nella prigione di Zahedan la maggior parte dei detenuti è dentro per droga. “Il possesso di più di 30 grammi di eroina” spiega il direttore del carcere, Alam Dar, “prevede l’impiccagione. Ma viene quasi sempre trasformata in ergastolo. E chi impara a memoria gli oltre 6.600 versetti del Corano, un’impresa che richiede due o tre anni di studio, ottiene una riduzione della pena”. Amina Jafar sconta una condanna a morte commutata in trent’anni di reclusione. Ha 15 figli, molti dei quali sono trafficanti o spacciatori, e anche suo marito è in prigione. “Avevo in casa 900 grammi di morfina” racconta. “Dovevo trasportarla in un villaggio poco lontano: mi avevano promesso 7 dollari”. Amina ha rischiato la vita per 7 dollari. Mohsen, padre di tre bambini, l’ha messa a repentaglio per 500: il prezzo che sperava di spuntare rivendendo una partita di 5 chili di eroina.
La miseria ha spinto Abdul, contadino afghano, a tentare di contrabbandare mezzo chilo di polvere bianca nello stomaco, avvolta in “caramelle” di plastica. E a convincere Nasir, 28 anni, a nascondere nel suo camion 42 chili di oppio. “Sono stato condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo, al pagamento di una multa e a 80 frustate” scrive Nasir in una lettera consegnata a Panorama. “I miei figli non hanno da mangiare. E’ questa la giustizia islamica?”
Nei bracci dell’istituto, una moderna palazzina dotata di palestra, biblioteca e sala di preghiera gestita da un energico mullah, non ci sono però solo spacciatori e narcotrafficanti. Cito, per esempio, un giovane nero di 29 anni arrestato senza documenti al confine pachistano, dice di essere mozambicano ma parla solo inglese: forse è tanzaniano o kenyota. Di sicuro, per sua stessa ammissione, ha frequantato le moschee di Karachi ed era in un convoglio che trasportava armi nel sud dell’Iran. Con quale destinazione e per conto di quale gruppo clandestino non è stato possibile accertare.
Alcune centinaia di chilometri a occidente, il confine iracheno è altrettanto poroso e assai meno sorvegliato. A nord l’impervio massiccio dei monti Zagros, già abbondantemente innevati, è una tradizionale zona di passaggio di contrabbandieri ed emigranti illegali. La frontiera meridionale si perde nelle paludi dello Shatt al-Arab. E al centro, dove l’altopiano precipita verso la pianura mesopotamica, l’asprezza del territorio ostacola le operazioni dell’esercito e della polizia. Sul versante iracheno, poi, ogni forma di controllo è assente: le forze di occupazione, impegnate nella sanguinosa battaglia contro una resistenza sempre più accanita e organizzata, non sembrano disporre di uomini e mezzi in grado di presidiare in modo puntuale i valichi con l’Iran e con gli altri paesi della regione da cui giungono armi, finanziamenti e kamikaze pronti a lanciarsi contro le basi dei marines o dei carabinieri.
Sull’“autostrada dell’imam Ali”, la principale via di comunicazione tra Teheran, Baghdad e i luoghi santi sciiti di Kerbala e Najaf, transitano ogni giorno decine di autobus stipati di pellegrini: mullah e studenti delle università islamiche di Qom, famiglie con bambini, anziani col turbante e donne infagottate nei neri chador. Ma anche commercianti, agenti segreti, agitatori politici e religiosi, capi tribali, contrabbandieri, clandestini. La polizia iraniana pattuglia come può la “zona di esclusione”, profonda una ventina di chilometri, che corre lungo la frontiera. Dopo Qasr-e-Shrin, città martire del conflitto Iran-Iraq degli anni Ottanta, pavesata di ritratti dei caduti e di striscioni inneggianti alla rivoluzione islamica, la strada prosegue tra carcasse di carri armati e tombe verniciate di fresco fino al villaggio di Khosravi, dove un gigantesco hangar con annessa moschea conduce alla sbarra del confine. Oltre la quale c’è l’Iraq in guerra.
Bisogna percorrere 130 chilometri prima di imbattersi in un check point americano: una vecchia base dell’esercito di Saddam difesa da blocchi di cemento, rotoli di concertina, tank e mezzi blindati Bradley all’imbocco della valle di D yala. Per impedire possibili infiltrazioni terroristiche dall’Iran, la coalizione guidata da Washington ha recentemente istituito una polizia di frontiera composta in gran parte da miliziani kurdi che circolano a bordo di pick-up Nissan e indossano fiammanti uniformi mimetiche. Ma neppure i peshmerga sono riusciti a fermare le autobombe che nelle scorse settimane, proprio nella valle di Dyala, hanno devastato due stazioni della polizia facendo strage di agenti e di civili iracheni.