Giovanni Porzio – da Kabul (13.04.10)
Per raggiungere l’ospedale gli basta attraversare la strada. L’abitazione di Marco Garatti e dello staff di Emergency, a Kabul, è a due passi dall’ingresso principale del “Centro chirurgico per le vittime di guerra” su cui campeggiano, ben visibili, gli adesivi con la scritta “vietato introdurre armi” e dove tutti vengono perquisiti: procedura standard in un paese infestato da Kalashnikov, granate e kamikaze pronti a farsi esplodere.
Quando una mattina dello scorso ottobre mi precipitai all’ospedale, pochi minuti dopo un attacco suicida all’ambasciata indiana, Marco era già al capezzale dei primi feriti. Uno era in condizioni disperate: gambe maciullate, schegge nel ventre e nei polmoni, un volto tumefatto, terreo, irriconoscibile. Un civile? Un poliziotto in borghese? Uno degli attentatori? Sono domande che nessuno dello staff di Emergency si è mai posto. “Un uomo ferito” ripete Gino Strada “è un uomo che ogni medico ha il dovere di curare. Il resto non conta”.
Non contava neppure, quel giorno di ottobre, se il corpo inerte del paziente che infermieri e anestesisti stavano intubando sul tavolo operatorio fosse in grado di sopravvivere: bisognava comunque tentare di salvarlo, e bisognava farlo in fretta. Il team si mise al lavoro. Bisturi, divaricatore, pinze, lacci emostatici, ossigeno, sacche di plasma. Poche parole e gesti decisi, mille volte collaudati. Le mani di Marco, strette nel lattice dei guanti, scandagliavano gli organi interni, estraevano le schegge di metallo, tamponavano il sangue, suturavano gli strappi. D’un tratto le occhiate al display della pressione e del battito cardiaco si fecero più frequenti e nervose. “Se ne sta andando” sentenziò l’anestesista mentre iniettava un’altra fiala di adrenalina. “Non lo teniamo più”.
Per una decina di minuti Marco continuò a lavorare: sembrava non volesse arrendersi. Poi incrociò lo sguardo dell’aiuto chirurgo afghano: un cenno d’intesa. Si sfilò guanti e mascherina e si asciugò il sudore sulla fronte, allontanandosi in silenzio. Una vita persa è una sconfitta. Ma altri feriti erano in attesa. Il tempo di una sigaretta, di sciacquarsi il viso, prima di tornare in sala operatoria.
Questa era la giornata-tipo di Marco Garatti da Mompiano (Brescia), chirurgo d’urgenza e coordinatore dei progetti di Emergency in Afghanistan, 49 anni appena compiuti, fino al momento del suo arresto, sabato 11 aprile, all’ospedale di Lashkar Gah nell’Helmand. Con lui la polizia afghana e i militari dell’Isaf – la coalizione internazionale guidata da Washington – hanno fermato Matteo Dell’Aira, 41 anni, responsabile medico dell’ospedale, Matteo Pagani, 28 anni, tecnico della logistica, e sei collaboratori afghani: tutti accusati di avere ordito un complotto per uccidere il governatore della provincia, Gulab Mangal.
Una soffiata avrebbe indotto le forze di sicurezza a fare irruzione nei locali della struttura sanitaria, dove in un magazzino sono state trovate armi, granate e giubbotti esplosivi. Prima ipotesi: le armi sono state introdotte da infiltrati all’insaputa dello staff dell’ospedale per organizzare un attentato. Seconda: si tratta di una trappola per screditare l’Ong italiana e costringerla a evacuare. “Non sarebbe la prima volta” afferma Gino Strada ricordando l’esito funesto del rapimento dell’inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo nel 2007 (vedere riquadro). Strada definisce “ridicole” le accuse delle autorità afghane ed è convinto che sia in atto “una sporca manovra per togliere di mezzo un testimone scomodo” prima dell’annunciata offensiva militare contro la roccaforte talibana di Kandahar, prossimo obiettivo del comandante dell’Isaf, il generale americano Stanley McChrystal.
I testimoni, poco importa se medici o giornalisti, danno fastidio. Nelle scorse settimane oltre 6 mila soldati americani e inglesi della Nato, coadiuvati dalle forze afghane, hanno investito l’Helmand e conquistato la cittadina di Marja: il centro chirurgico di Emergency a Lashkar Gah, che da quando è stato aperto nel 2004 ha accolto più di 66 mila pazienti ed è l’unico ospedale nell’intera provincia, ha assistito centinaia di feriti senza fare alcuna distinzione di etnia o di appartenenza politica, contrariamente a quanto avviene nelle strutture sanitarie afghane. E le vittime sono quasi sempre civili: donne, vecchi e bambini che il disumano gergo del Pentagono classifica come “danni collaterali”.
Proprio nel giorno dell’arresto dei volontari italiani i soldati della Nato hanno aperto il fuoco contro un autobus che si era avvicinato a un convoglio militare nei pressi di Kandahar uccidendo quattro civili. Solo le inoppugnabili testimonianze degli altri passeggeri hanno costretto il comando Isaf di Kabul, che in un primo momento aveva negato l’episodio, ad ammettere di avere sparato e a esprimere il consueto “profondo rincrescimento”.
Mantenere un “basso profilo” è uno dei precetti dei volontari in zona di guerra: una mossa sbagliata, un gesto avventato, una parola di troppo possono mettere a repentaglio la sicurezza del personale e compromettere progetti faticosamente avviati. Marco lo sa bene. Misurato nelle dichiarazioni pubbliche, lascia volentieri a Gino la gestione dei rapporti politici e al portavoce di dell’Ong Maso Notarianni quella dei media. “Sono un chirurgo” ripete spesso “e sono qui per operare”. Solo a fine giornata, dopo una birra, mentre salta in padella un chilo di spaghetti per lo staff e per gli amici nella cucina di “casa Emergency”, Marco può dar sfogo al suo carattere estroverso e alla sua innata generosità lombarda.
Il suo percorso è simile a quello di tanti medici che mettono la loro professionalità al servizio dell’impegno umanitario. Dopo avere a lungo lavorato a Brescia, alternando le missioni all’estero ai turni nel reparto chirurgia dell’ospedale Sant’Orsola, dove si è fatto le ossa, nel 1998 Marco decide di cambiare vita: lascia la sicurezza del posto fisso per concentrarsi a tempo pieno nelle strutture che Emergency sta realizzando in sette paesi, dalla Cambogia all’Afghanistan. Specializzatosi nella chirurgia di guerra, è stato insignito di numerosi riconoscimenti ufficiali, tra cui l’Ordine al merito della Repubblica italiana.
I medici e i volontari in prima linea fanno un mestiere difficile e ad altissimo rischio. Il “terzo settore”, che nel mondo conta più di 37 mila Ong, versa ogni anno un pesante tributo di sangue: solo nel 2009 sono caduti oltre 90 operatori umanitari, di cui 18 in Afghanistan e una trentina a Gaza, in Somalia e in Darfur. Si lavora in situazioni estreme, dove compromessi e manipolazioni politiche sono spesso inevitabili. In Somalia, durante l’operazione Restore Hope, i convogli degli aiuti venivano sistematicamente saccheggiati e oggi a Mogadiscio, in preda a una sanguinosa e interminabile guerra civile, non c’è più un solo volontario straniero. In Bosnia i serbi impedivano la distribuzione di cibo e medicinali nelle zone dov’era in corso la pulizia etnica. In Pakistan i taliban taglieggiano le Ong nei campi profughi al confine afghano. L’Etiopia impone tasse sui generi di prima necessità importati dalle organizzazioni umanitarie e Medici senza frontiere ha dovuto sospendere le attività nell’Ogaden, dove l’esercito requisisce gli ambulatori e rade al suolo i villaggi.
E’ un prezzo che tutte le Ong impegnate sui fronti umanitari devono pagare. “Nelle zone di guerra” dice il direttore di Msf Italia Kostas Moschochoritis “sono i militari a controllare l’accesso alla popolazione. Sappiamo che una parte degli aiuti non arriva a destinazione. Ma il nostro compito è essere presenti. Ce ne andiamo solo quando non siamo più in grado di lavorare”.
L’Afghanistan è una zona d’intervento sempre più irta di ostacoli. Molte aree del paese, soprattutto nel sud e nell’est (Kunar, Khost, Paktika), non sono accessibili agli operatori umanitari, che subiscono intimidazioni e sono a rischio di rapimento anche nella capitale. Dopo otto anni di guerra il livello dello scontro si è alzato, il numero dei soldati della coalizione e dei civili uccisi è in costante aumento e gli insorti rappresentano una minaccia sui due terzi del territorio.
L’80 per cento delle abitazioni afghane è ancora privo di elettricità e di acqua potabile, ma numerosi progetti umanitari sono stati abbandonati per mancanza di fondi. Dei 25 miliardi di dollari stanziati dai paesi donatori nel 2002 e dei 21 aggiuntivi accordati lo scorso anno ne sono stati spesi meno di 15: il 40 per cento è stato utilizzato per addestrare le forze di sicurezza locali o è tornato al mittente sotto forma di stipendi, forniture e costi di gestione. Solo il 10 per cento è stato investito nel settore chiave dell’agricoltura. Mentre i fertili campi coltivati a papaveri dell’Helmand e di Kandahar, controllati dai taliban, continuano a produrre il 90 per cento dell’oppio e dell’eroina afghana.