Killing fields
Salvador, November 2015

“Nella strada passa lenta un’auto, è la polizia:

nel quartiere i pandilleros corrono al riparo,

hanno la morte addosso ma non sanno quando arriva.

Vai! Tatuato dalla tua storia, vivi la tua vita folle!”

(La vida loca)

 

 

“Vedevo i lampi degli spari. C’era una bambina che gridava. Hanno bloccato l’autobus a un incrocio: erano in cinque, col volto scoperto. Hanno ucciso l’autista, poi hanno versato la benzina e hanno appiccato il fuoco. Chi cercava di uscire era abbattuto a rivoltellate”. José, controllore sulla linea 1 di San Salvador, è scampato per miracolo al massacro: se l’è cavata con quattro mesi d’ospedale e il corpo scavato dai solchi delle ustioni. Ma 17 dei 35 passeggeri sono morti carbonizzati e altri sette in seguito alle ferite. José, che ha cambiato quartiere e vende acqua in bustine a una fermata del bus, vive nel terrore: “Sono un testimone. I muchachos della 18 mi stanno cercando”.

La banda del Barrio 18 e la Mara Salvatrucha (MS13) sono le gang –  maras o pandillas – in lotta per il controllo del territorio e del racket dell’estorsione che negli ultimi mesi hanno precipitato il minuscolo Paese centroamericano in un abisso di violenza che non ha precedenti dai tempi della guerra civile degli anni Ottanta. Con una media di quasi un morto ogni ora il Salvador detiene il record mondiale degli omicidi al fuori dai teatri bellici come la Siria: le vittime, a fine 2015, saranno più di 7 mila.

A San Salvador nessuno cammina per le strade. Si circola in auto, con un driver di fiducia, chi può con una guardia del corpo. E a prima vista la capitale, dove la valuta locale è il dollaro, somiglia a una confusa città della provicia americana, con gli shopping malls, le stazioni di servizio Texaco e le catene di fast food. Ma scuole, banche e uffici pubblici sono piantonati da uomini con mitra e fucili a pompa, i ricchi di San Benito e della Zona Rosa vivono asserragliati in ville difese da cani lupo, muri di cemento e matasse di filo spinato, mentre nei compound residenziali si accede da cancelli sorvegliati notte e giorno da guardiani armati.

“Vedi quelle casupole basse?” dice Toño, che mi accompagna. “È il barrio La Fosa e lì non entra neppure la polizia. L’ingresso è vigilato e dentro c’è la più grossa centrale di spaccio di droga della città”. Con Toño mi sento sicuro: è nato e cresciuto al Mejicanos, uno dei distretti più violenti, e abita in prima linea, nella strada che divide il territorio della MS13 dalla cancha presidiata dalla 18.  È lui a spiegarmi i simboli, la logistica, la struttura e il campo d’azione delle maras. La clica (cellula) della colonia Layco, dove abita il presidente Salvador Sánchez Cerén, gestisce le prostitute, i gay e i travestiti dei locali a luci rosse. I pandilleros con la capigliatura a cresta sono “numeros”, membri della 18; quelli rasati col treccino sulla nuca sono “letras”, affiliati alla MS13, e hanno smesso di tatuarsi per non dare nell’occhio. Le loro donne indossano leggings tigrati e si tingono i capelli: rossi, verdi, azzurri.

Non c’è quartiere, non c’è attività commerciale, non c’è linea di trasporti che sfugga al taglieggio sistematico delle maras. Solo il pizzo pagato dalle società che amministrano i 7 mila bus e microbus del Salvador ammonta a più di 20 milioni di dollari l’anno. Senza contare i proventi derivanti dalle rapine, dai sequestri, dal traffico di droga e di migranti: un  fiume di denaro che le gang investono nell’acquisto di armi, munizioni, auto e sistemi di comunicazione. I guadagni vengono ripartiti tra i pandilleros e i leader in carcere, o utilizzati per le spese legali e il sostegno alle famiglie dei detenuti.

Le maras (da “marabunta”, termine che in Amazzonia indica la migrazione di massa delle formiche legionarie) hanno origine nelle comunità di emigrati ispanici e messicani di Los Angeles e del sud della California, tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Quando gli accordi del 1992 posero fine alla guerra civile in Salvador, gli Stati Uniti deportarono migliaia di salvadoregni: migranti illegali, delinquenti comuni e giovani pandilleros imbevuti d’odio e di rancore, avvezzi alla brutalità della strada e all’uso delle armi. E in patria hanno trovato il terreno ideale: un Paese dissanguato dal conflitto interno (75.000 vittime su poco più di 5 milioni di abitanti), assuefatto alla violenza e alla corruzione, con un governo debole, istituzioni fragili, miseria diffusa e spaventose disuguaglianze sociali.

La Salvatrucha, la 18 e le sue due fazioni, i Sureños e i Revolucionarios, si sono spartite il territorio a colpi di mitra e di pistola. Nell’arco di vent’anni si sono organizzate e rafforzate: si calcola che i pandilleros siano 60 o 70 mila (di cui circa 10 mila in carcere) e che i fiancheggiatori siano 600 mila, un decimo della popolazione. I loro tentacoli si allungano sul Centro America, il Messico, gli Stati Uniti e persino l’Italia. Nelle scorse settimane a Milano sono stati arrestati 13 salvadoregni e due italiani affiliati alla 18: sono accusati di tentato omicidio, rapina, spaccio di droga, ricettazione, detenzione di armi da sparo e da taglio.

Il Salvador è un Paese di paradossi. Si può comprare cocaina e crack a ogni angolo di strada ma il consumo di droghe leggere è un reato. Gli stupri sono un’emergenza nazionale ma anche per un aborto terapeutico, persino spontaneo, si rischiano 30 anni di carcere. L’obitorio non riesce a smaltire i cadaveri ma le armi sono in libera vendita nei negozi.

“Qui la vita non vale niente” dice Toño mentre ordiniamo un burrito al Bella Napoles, la caffetteria del teatro dove ai tempi della guerra gli squadroni della morte venivano a cercare i giornalisti e i dirigenti clandestini del Frente Farabundo Martí. “Ci siamo abituati alla alla barbarie. Il Salvador è un Paese duro, contadino, conservatore, repressivo. La cultura del dialogo non ci appartiene. Neppure in chiesa”. La Cattedrale, a due passi dalle fatiscenti facciate del Cinema Libertad e dell’ex Società statale del caffè, è l’emblema di un’insanabile frattura politica e sociale: i fedeli “di sinistra” pregano nella cripta dove è sepolto monsignor Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador assassinato nel 1980; al piano superiore vanno alla messa domenicale i simpatizzanti della “derecha”.

Un tentativo di dialogo, per la verità, è stato fatto: una tregua tra le maras, stipulata nel 2012 col tacito assenso del precedente governo e durata 15 mesi, aveva ridotto il numero degli omicidi da 14-15 al giorno a meno di 5. Durante la tregua i 40 principali “palabreros” (capi delle gang) erano stati spostati in strutture di reclusione più morbide, dove potevano ricevere visite, comunicare con le clicas e continuare a dirigere le attività criminali. Ma al relativo decremento del tasso di violenza non ha corrisposto un alleggerimento delle estorsioni, primaria fonte di introiti delle maras, che hanno approfittato della tregua per estendere e rafforzare la loro presa sul territorio.

Lo scorso febbraio, con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali, il governo ha cominciato a fare marcia indietro. I capibanda sono stati riportati in isolamento nel famigerato settore 6 del carcere di massima sicurezza di Zacatecoluca. E in giugno Sánchez Cerén, appena insediato, ha ordinato all’esercito e alla polizia di tornare ai metodi repressivi del passato. Ma la “super mano dura” del governo ha innescato una carneficina: una media di 20 morti al giorno, con punte di 50; 911 vittime solo nel mese di agosto.

Ci sono opinioni contrastanti sulla strategia del governo. Per Raul Mijango, ex guerrigliero che ha negoziato la tregua, “lo stato ha dichiarato guerra alle gang, ma non si possono uccidere tutti, sarebbe un genocidio”. Per il nunzio apostolico Léon Badikebele “la gente seppellirebbe tutti i pandilleros in una fossa comune: i diritti umani non interessano a nessuno”. E anche il ministro della Difesa David Munguía Payés è critico: “La tregua” mi dice “è stata attuata con il sostegno della chiesa, delle Ong e delle istituzioni internazionali: un approccio pragmatico che ha ottenuto risultati concreti. È stata sabotata perché la politica dell’inclusione e del recupero sociale richiede tempo, è impopolare e non procura voti. Le maras sono un fenomeno complesso legato alla povertà e all’emarginazione: la mano dura non risolve il problema, lo aggrava”.

“La tregua era una pax mafiosa” sostiene invece il direttore dell’Istituto di medicina legale José Miguel Fortín. “E ha consentito alle maras di proliferare nell’impunità più assoluta”. Ma riconosce che la classe politica, “totalmente corrotta”, non ha fatto nulla per incorporare i giovani dei barrios nella società. L’Istituto è il termometro della violenza nel Paese. I medici eseguono le autopsie (6 mila nel 2015), registrano i decessi, esaminano le salme “fresche” e quelle rinvenute nei cimiteri clandestini.

Il dottor Saul Quijada, antropologo forense, conserva in scatoloni di cartone i resti di centinaia di corpi non identificati: femori di neonati, crani sfondati, ossa fratturate da proiettili e fendenti di machete. Su un tavolo esamina gli scheletri accuratamente ripuliti, lavati e disinfettati. “Da uno studio dettagliato” spiega “possiamo risalire al tipo di arma usato, alla causa di morte, all’età della vittima”.

All’improvviso scatta l’allarme: un “levantamiento”, un corpo da recuperare nel quartiere di Apopa. Salgo con i medici sull’ambulanza. “Ci sono giorni tranquilli” dicono “con solo tre o quattro cadaveri. Ma a volte sono più di venti”. Sul posto, un barrio-dormitorio infestato dalle maras, i militari con mitra e passamontagna stanno facendo un rastrellamento. È notte e le torce illuminano il volto devastato e insanguinato di Reynaldo Heranadez, 45 anni, il 53° poliziotto ucciso da gennaio. L’hanno ammazzato per rubargli la pistola d’ordinanza. “Tre colpi in testa” scrive nel rapporto il medico legale. “Due nella schiena e due nel torace”.

In un vicolo laterale sono già parcheggiati i pulmini dei “muerteros”, i procacciatori di salme per conto delle “funerarias”, le pompe funebri: un business che in Salvador va a gonfie vele. “Una bara fatta è una bara venduta!” esclama Julio della funeraria El Perdón, che opera 24 ore su 24, Natale compreso, con uno staff di 35 addetti e un team di tecnici specializzati nella ricomposizione dei cadaveri fatti a pezzi e smembrati. “Abbiamo casse di pino d’importazione” elenca Julio “o di legno dolce nazionale, fino a quelle più economiche di compensato pressato. Il pacchetto medio, bara, preparazione chimica e fisiologica del corpo, vestizione, maquillage, costa da 450 a 2.500 dollari, solo in contanti”. El Perdón offre anche musica pandillera, caffè e pane dolce per la veglia.

La competizione è feroce: chi arriva prima, informato dalla polizia (che esige una commissione), da twitter o dal sito paramilitare Héroe Azul El Salvador, ha la precedenza. Ma a volte i mareros, armi in pugno, pretendono il servizio gratuito. Le salme non identificate, 700 all’anno, finiscono nelle fosse comuni in un campo appartato del cimitero della Bermeja. “Qui sono sepolti molti pandilleros” dice don Salvador, uno dei becchini. “Da quattro a otto cadaveri per ogni fossa”.

Toño mi accompagna al Mejicanos. Hanno ucciso un ragazzo di 18 anni. Un’esecuzione sommaria: aveva i polsi legati con le fascette di plastica in dotazione alla polizia. Sui muri sono dipinti i simboli che marcano il territorio delle maras: un teschio, un nome, una croce. Un paio di sneaker Nike appese a un palo della luce avverte che stiamo entrando nella cancha della MS13; una fila di Adidas sospese a un filo elettrico delimitano la zona controllata dalla 18. “Qui non hai alternative” dice Toño. “Sei letra o numero. Non si sfugge. Non c’è bisogno di chiedere: sanno chi sei. Nessuno parla, nessuno vede. Se attraversi il confine sei un uomo morto”. Le sentinelle, ragazzini col cellulare in mano, ci hanno già segnalati. Mentre parliamo con il Joker, un “chavo” della 18 che lavora in un’officina meccanica, passa una moto con due uomini armati. “Sicarios” sibila Toño. “Via di qui, subito!”

Il Joker stava spiegando che dopo il “brinco”, l’iniziazione (resistere ai pugni e ai calci degli altri pandilleros), devi guadagnarti il rispetto dei capi. “Prima fai la sentinella, procuri le sigarette, la droga, le ricariche telefoniche. Poi ti affidano una missione: eliminare un chavala, un nemico”. Più sono brutali le modalità dell’omicidio, maggiore è il rispetto accumulato. Decapitazioni, mutilazioni e squartamenti degradano l’avversario. La tortura e il “trencito”, lo stupro multiplo, diventano riti collettivi che rafforzano l’identità del gruppo.

“Reclutano bambini di 7-10 anni” racconta padre Carlos, parroco della chiesa passionista del Mejicanos. “È un girone infernale. Alcuni studenti della nostra scuola sono stati assassinati. L’esercito ha licenza di uccidere. Il numero delle armi al mercato nero è in aumento. Le ragazze costrette a prostituirsi sono sempre più giovani. Le quote del pizzo sono ormai insostenibili. I pandilleros si ammazzano tra loro e uccidono inermi passanti, tassisti, madri di famiglia”.

La MS13, argomenta Ricardo Carrillos, commissario di polizia nel municipio di Ilopango, ha un’organizzazione più strutturata e gerarchica, mentre le bande della 18 sono più fluide, atomizzate. E con i leader isolati in carcere le clicas sono fuori controllo: agiscono in modo autonomo e sempre più aggressivo. Carrillos mi porta in pattuglia nei barrios lungo la carretera Panamericana: squallide baracche, chiese evangeliche, bordelli, scuole decrepite. “Mille agenti per un milione di abitanti” dice. “Cosa possiamo fare? Le maras controllano le panetterie, gli autobus, la vendita di acqua, di gas, di farina. Hanno armi pesanti, a noi mancano le munizioni e la benzina. E ci sono avvocati, politici, persino poliziotti affiliati alle pandillas”.

Proseguiamo a piedi. Gli agenti circondano una casa sospetta, una delle tante abbandonate dalla gente in fuga e usate dalle gang per spacciare o nascondere le armi. Sulle pareti i simboli della 18, sul pavimento un materasso, cicche di sigarette, vuoti di birra. Poi tre spari e un’irruzione nella stanza accanto. Arrestano tre giovani, li ammanettano, li portano in centrale e li identificano: Francisco Hernandez, 19 anni; Blanca Orellana, 18; Marisela Delgado, 17. “Sono pandilleros ma non hanno precedenti” sentenzia il commissario. “Qualche giorno in cella e poi dovremo rilasciarli”.

La carenza di mezzi e di reparti specializzati pregiudica le indagini. E i giornalisti che segnalano gli abusi della polizia, denunciano le collusioni dei politici o entrano in rapporti troppo stretti con le gang rischiano la pelle. I reporter del giornale online El Faro lavorano in una redazione semiclandestina, con una guardia armata all’ingresso. Christian Poveda, l’autore del docu-video La vida loca, è stato assassinato dai “muchachos” che aveva filmato.

Ma Israel Ticas, “el abogado de los muertos”, non ha intenzione di desistere. Pistola alla cintura, gps e computer nello zaino, gira per il Salvador a caccia di cimiteri clandestini. In 12 anni di lavoro ha esumato più di 900 desaparecidos: ora sta scendendo in un pozzo ai piedi del vulcano Santa Ana dove ha individuato i corpi di un bambino, dei suoi genitori e altri cinque cadaveri smembrati. “Il pozzo” spiega “è profondo 22 metri, bisogna scavare una galleria d’accesso per evitare gli smottamenti”. Ticas utilizza tecniche d’avanguardia, fotocamere, sensori, riprese aeree che finiscono in uno sterminato archivio: il macabro catalogo degli orrori della mattanza salvadoregna.

Si avvicina una donna. Dice che suo figlio è sparito da tre settimane: andava “a cortar café” e non è più tornato. “Può essere in quel pozzo?” chiede. “So che è morto. Ma voglio almeno seppellirlo degnamente”. Ticas fa dei calcoli, consulta gli appunti. “No signora. Non può essere qui. Però ci sono altri pozzi nei paraggi. Lo troveremo, se Dio ci aiuta”.