Giovanni Porzio – da Rafah (03.11.08)
Ci si cala nel buco imbragati da funi che scorrono su una carrucola azionata da un motore a scoppio: venti, trenta metri di discesa a piombo nel buio claustrofobico di un pozzo cieco, che termina dove la sabbia si rapprende in uno strato di argilla. E’ la bocca del tunnel. Walid, uno degli scavatori, mi fa segno di seguirlo nello stretto budello sotterraneo: un metro per 70 centimetri e un chilometro da strisciare carponi per rivedere il cielo in Egitto, dall’altra parte del confine di Gaza.
L’aria umida sa di fango e di muffa. Si respira a fatica: il tubo di ventilazione, collegato a un compressore in superficie, eroga appena il necessario per non soffocare. “Ci si abitua a tutto” scherza Walid, che ha solo 19 anni. “Anche a vivere come le talpe. Anche alla paura dei crolli. Anche al rischio di finire sepolti vivi”. Le lampadine appese ai fili del rudimentale impianto elettrico emanano una fioca luce gialla: quanto basta per illuminare i telefoni della linea terrestre indispensabili per comunicare con l’esterno.
Gli otto “shabab” della squadra di Walid hanno sudato quattro mesi per scavare la galleria, inaugurata in marzo. Ma ne è valsa la pena. Gli “anfaq”, i tunnel, sono una miniera d’oro: il contrabbando, l’unica fiorente industria della Striscia di Gaza, genera enormi profitti e offre la sola opportunità d’impiego ai giovani della città frontaliera di Rafah.
Il Philadelphia Corridor, i 12 chilometri che corrono lungo il confine, sono un termitaio in perpetuo fermento. Le torri d’osservazione, la barriera metallica e i muri di cemento costruiti dai militari israeliani sono stati smantellati. E ovunque, tra le macerie degli edifici rasi al suolo dai bulldozer di Tel Aviv, in piena vista o al riparo di recinti di plastica e lamiera, un esercito di minatori è al lavoro, armato di pale, picconi, secchi, carrelli. I tunnel sono più di seicento. E danno da vivere ad almeno seimila famiglie palestinesi.
Le prime gallerie clandestine, scavate nei cortili e nelle cantine delle case, risalgono al 1982, quando la metà meridionale di Rafah fu restituita dagli israeliani all’Egitto insieme alla penisola del Sinai e la città, con la sua popolazione, si trovò spaccata in due. “Trasportavamo soprattutto oro, valuta e sigarette” racconta Abu Ibrahim, uno dei boss del mercato nero. “Poi, durante la seconda intifada, è cresciuta la domanda di armi”. Attraverso i tunnel i servizi di sicurezza palestinesi e Hamas si sono riforniti di Kalashnikov, lanciarazzi, esplosivo, mine anticarro, granate, munizioni. E a nulla è servita la demolizione da parte di Tsahal di centinaia di abitazioni lungo la frontiera. Il contrabbando si è intensificato dopo l’evacuazione israeliana del Philadelphia Corridor nell’estate del 2005 e ha subito un’ulteriore accelerazione con l’embargo imposto alla Striscia di Gaza dopo il “golpe” di Hamas del giugno 2007.
La chiusura dei valichi con lo stato ebraico ha paralizzato il commercio, congelato il 95 per cento delle attività economiche, quadruplicato il costo della vita e gettato nella disoccupazione 70 mila operai e 40 mila agricoltori. Per il milione e mezzo di abitanti delle Striscia i tunnel sono diventati l’unico legame con il resto del mondo, la vena giugulare che ne garantisce la sopravvivenza. Passa di tutto: farina e carburante, pneumatici e olio di semi, droga e detersivi, computer e fertilizzanti, telefonini e motociclette, scarpe e confezioni di Viagra. “I medicinali arrivano in contenitori refrigerati” spiega Abu Ibrahim. “Alcuni tunnel sono attrezzati con pipeline per pompare benzina e gasolio, altri sono stati allargati per far transitare mucche e altri animali. Siamo alla vigilia dell’Aid al-Adha, la festa del montone, e ci aspettiamo grossi ordinativi: un agnello che in Egitto costa 100 euro qui ne vale 500”.
Nei mesi scorsi sono sbucate dal sottosuolo anche quattro signore russe, decise a ricongiungersi con i mariti palestinesi conosciuti anni addietro all’università di Mosca. E due giovani leonesse, debitamente narcotizzate, che ora sonnecchiano in una gabbia dello zoo di Rafah, accanto a linci, struzzi, gazzelle, scimmie e serpenti: “Tutti” assicura il gestore, Ashraf Abu Husun, “acquistati in Egitto”.
Abu Mohammed, 40 anni, è il supervisore di una galleria. “Ci sono due tipi di tunnel” dice. “Quelli commerciali e quelli, rigidamente sorvegliati, delle fazioni armate, Hamas, Jihad islamica e Comitati di resistenza popolare, da cui transitano armi e munizioni”. Dal giugno 2007, secondo l’intelligence israeliana, sarebbero entrati a Gaza 10 milioni di proiettili, 175 tonnellate di esplosivo, missili di fabbricazione iraniana e persino istruttori per i campi di addestramento militare di Hamas. I margini di profitto sono esorbitanti. Un Kalashnikov comprato a 150 euro dai beduini del Sinai viene rivenduto a 900. Un cartone di 500 pacchetti di sigarette vale 500 euro in Egitto e 1.500 a Gaza.
Le dispute commerciali e le frequenti diatribe sul tracciato delle gallerie, che spesso si incrociano a diversi livelli di profondità, sono demandate a tre “mukhtar”, anziani e rispettati pionieri del business negli anni Ottanta. Ma ad arricchirsi sono le “teste di serpente”: i titolari dei tunnel in società con i proprietari del terreno, che hanno investito 20-30 mila euro per scavare la galleria e che in media incassano non meno di duemila euro a giornata. Un gradino al di sotto ci sono i supervisori come Abu Mohammed, che organizzano il traffico, pagano gli scavatori (12 euro ogni metro di avanzamento), prendono gli ordinativi, smistano la merce. Sullo scalino più basso, pagati a cottimo, ci sono i manovali che si occupano della manutenzione e i contrabbandieri che fanno la spola sotterranea con l’Egitto.
Come Abdul, 17 anni, assunto da un mese, che vive accampato in una tenda. “Quando arriva un carico” racconta “sto sotto anche tre giorni, senza mai uscire. In 48 ore riusciamo a trasportare 300 sacchi da 50 chili: circa 15 tonnellate. Utilizziamo delle slitte: bidoni di plastica tagliati, agganciati a un cavo d’acciaio e trainati da verricelli a motore. Quanto guadagno? Se va bene, una quindicina di euro al giorno”.
Nessuno è intenzionato a chiudere i tunnel. Hamas non è implicata direttamente nel contrabbando commerciale. Ma ne trae cospicui benefici fiscali: tra imposte sul valore aggiunto per ogni tonnellata importata, tasse di esercizio per i proprietari dei tunnel, gabelle sulla benzina e assicurazioni obbligatorie sulla distribuzione dei carburanti, l’utile netto quotidiano del movimento islamico è stimato in oltre settemila euro. Israele non interviene: i traffici illeciti servono da pretesto per non incrementare il transito delle merci dirette a Gaza dai valichi ufficiali. E l’Egitto, che pure ha sottoscritto con Stati Uniti e Israele un impegno a controllare il confine e ha ricevuto da Washington 200 milioni di dollari per la lotta al contrabbando, preferisce non guardare: ogni tanto, su pressione americana, le guardie di frontiera fanno saltare con la dinamite la bocca di una galleria, la allagano o la inondano di gas. Ma è uno show per le telecamere. Il Cairo è fin troppo consapevole che senza la valvola di sfogo economica e sociale del mercato nero migliaia di palestinesi affamati si riverserebbero in Egitto.
Uscendo dal tunnel vedo allontanarsi nella polvere un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Non ho sentito l’esplosione che ha ucciso Khalil, 18 anni, quarto dei 12 figli disoccupati di Aid Tabasi, contadino di Khan Younis. La corsa all’ospedale è inutile. Poche ore dopo Khalil, avvolto in un sudario bianco, il viso devastato dal fuoco, è disteso sul nudo pavimento di un’abitazione del quartiere di Batn as-Samin. Una misera casa di blocchi di cemento, con una porta di ferro, il tetto sormontato da un’antenna arrugginita e da un bidone di plastica per l’acqua, i fili della luce rubati a un palo sulla strada. Una casa di due stanze separate da una tenda, piena di dolore e di pianti di donne.
“La galleria era satura di gas” racconta Salman, uno dei sopravvissuti. “Una fuga da una delle bombole che stavamo trasportando. Sono riuscito a chiuderla e a trascinarla per un centinaio di metri. Poi una scintilla, un boato, una fiammata. Abbiamo gettato acqua e sabbia, ma Khalil è rimasto intrappolato. Là sotto è un inferno. Ci scaviamo la fossa con le nostre mani. Ogni giorno ci sono incidenti: ogni due o tre giorni un morto. Eppure dovrò tornarci. Non ho alternative. Nessuno di noi scenderebbe in quelle maledette caverne se ci fosse un altro lavoro”.
Anche Khalil voleva una vita diversa. Aveva finito le scuole superiori e sognava l’università. “Andava nei tunnel per pagarsi gli studi e aiutare la famiglia” dice suo padre, con la voce spezzata. “Ma siamo a Gaza. E qui la vita vale meno di niente”.