Lost souls
Una vanga, una bottiglia d’acqua e un sombrero di paglia per proteggersi dal sole. Non serve altro a María de Jesús e alle cinque madri che l’accompagnano sui sentieri e nelle forre della Sierra de Guerrero in cerca dei corpi dei figli e dei mariti. “Scavare” dice “mi aiuta a sopportare la disperazione”.
Le fosse sono dappertutto, annunciate dalle mosche e dall’odore della morte, scoperchiate per caso dall’aratro di un campesino, svelate dalla pioggia che trascina a valle un femore, una mandibola, una scarpa, il brandello di un vestito. “Questo Paese è un cimitero” sospira María, che dissotterra resti di cadaveri nella speranza di trovare qualche traccia di Roberto, 23 anni, sequestrato sotto casa in un sobborgo di Chilpancingo.
A un anno dall’elezione di Andrés Manuel López-Obrador, la sua promessa di combattere le cause della violenza che insanguina il Messico non si è tradotta in risultati apprezzabili. Nei primi nove mesi del 2019 si sono registrati 22.059 omicidi, 810 femminicidi, 310 poliziotti assassinati. Il 15 ottobre 13 militari hanno perso la vita in un’imboscata a El Aguaje, nel Michoacán, un territorio controllato dal potente cartello della droga Jalisco Nueva Generación. Il giorno dopo 14 civili e un soldato sono caduti in uno scontro a fuoco tra bande rivali a Tepochica, stato di Guerrero.
Il 18 ottobre a Culiacán, roccaforte del cartello di Sinaloa, un’improvvisata operazione per arrestare Ovidio Guzmán López, El Ratón, uno dei figli del boss Joaquín El Chapo Guzmán, sotto processo negli Usa, ha scatenato una battaglia campale con otto morti e decine di feriti: di fronte alla reazione dei narcos, piombati in città con armi di grosso calibro, le forze dell’ordine hanno dovuto liberare Ovidio e battere in ritirata. “Abbiamo evitato una strage” si è difeso il presidente. “La cattura di un criminale non vale quanto la vita dei cittadini”. Parole vanificate, il 4 novembre, dal massacro di nove americani della comunità mormona Langford-LeBarón, da un secolo stabilitasi in Messico: tre donne e sei bambini che viaggiavano tra gli stati di Sonora e di Chihuahua sono stati trucidati e bruciati vivi nelle loro auto da una gang di killer senza volto.
I governi conservatori hanno lasciato sulle spalle di López-Obrador una pesante eredità: i 150 mila morti e i 30 mila scomparsi della fallimentare guerra al narcotraffico dichiarata nel 2006 da Felipe Calderón; i quasi 80 mila omicidi impuniti commessi dal crimine organizzato nei sei anni della presidenza Peña Nieto; la connivenza coi narcos, che hanno infiltrato la polizia, l’esercito, l’amministrazione pubblica, il sistema giudiziario. “Ci vogliono anni per eliminare la corruzione, bonificare e riformare la magistratura e gli apparati di sicurezza” afferma lo scrittore Paco Taibo. La violenza si può sradicare solo con programmi sociali per ridurre la disoccupazione, migliorare l’istruzione, i servizi sanitari e le condizioni di vita della popolazione. Questo governo lo sta facendo, ma incontra enormi resistenze”.
I famigliari dei martiri, però, non possono aspettare. I parenti degli oltre 40 mila desaparecidos, delle migliaia di ragazze stuprate e assassinate, delle vittime di sequestri, torture, sparizioni forzate, esecuzioni sommarie, non vogliono aspettare. Si sono riuniti in collettivi, hanno creato comitati e gruppi di pressione. Hanno imbracciato i badili e hanno cominciato a scavare.
Nel Sinaloa le madres buscadoras, le madri cercatrici, hanno trovato i resti di 200 corpi, metà dei quali identificati con l’esame del dna. Nel Guerrero hanno esumato 179 cadaveri e di ciascuno hanno determinato il profilo genetico. Nella Sierra de Cucharas, stato di Tamaulipas, il collettivo Milynali ha esplorato sette fosse utilizzate come discariche umane dai narcos del cartello Los Zetas: un campo di sterminio dove i sequestrati venivano uccisi, mutilati e bruciati. Lo scorso settembre in un “pozzo degli orrori” scoperto nello stato di Jalisco, sono stati rinvenuti 119 sacchi della spazzatura con i corpi smembrati di decine di persone.
Secondo Alejandro Encinas, sottosegretario ai Diritti umani, sono 1.100 le fosse clandestine finora individuate, almeno 26 mila i cadaveri senza nome negli obitori del Paese e decine di migliaia i frammenti ossei che si accumulano negli scantinati degli istituti di medicina legale. Ma di migliaia di desaparecidos è stata ormai cancellata ogni traccia. Solo nel Jalisco, terra di conquista dell’ex poliziotto Nemesio Oseguera Cervantes El Mencho, capo di Nueva Generación, il cartello che ha in pochi anni allungato i tentacoli in 22 stati messicani, 1.559 corpi sono stati inceneriti nel forno crematorio della morgue di Guadalajara, chiuso nel 2015: quasi tutti ridotti in polvere senza effettuare i prelievi necessari alla successiva identificazione.
La stessa fine hanno fatto con ogni probabilità i 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, sequestrati il 26 settembre 2014 a Iguala, nel Guerrero, e mai più ritrovati: un episodio diventato il simbolo della tragedia messicana, della corruzione delle autorità e della magistratura, delle connivenze tra il potere politico, i militari e i cartelli della droga. Ma anche una bandiera per i famigliari dei desaparecidos e per López-Obrador, che ha istituito una commissione d’inchiesta, nominato un procuratore speciale e ordinato una nuova indagine. Perché la versione ufficiale dell’epoca faceva acqua da tutte le parti.
Si sosteneva che i responsabili del massacro fossero dei poliziotti locali corrotti in combutta con una banda di narcotrafficanti. Avrebbero sequestrato gli studenti, che avevano requisito alcuni autobus, per poi ucciderli e incenerirli in una discarica di rifiuti: ipotesi ritenuta scientificamente impossibile dagli esperti internazionali nominati dalla Commissione interamericana dei diritti umani. Le confessioni degli indagati furono estorte con la tortura, tanto che 77 dei 142 presunti sequestratori e assassini sono poi stati rilasciati.
“È emerso con chiarezza” afferma Paco Taibo “il coinvolgimento dell’esercito, della polizia federale, dei servizi segreti e dell’apparato statale. La destra reazionaria ha sempre demonizzato le scuole rurali, ritenute pericolose perché formano insegnanti radicati nelle comunità più povere. I corpi sono stati quasi certamente inceneriti in una base militare. Si illudevano di insabbiare tutto facendo sparire i cadaveri, invece hanno provocato una reazione immensa: oggi in tutto il Messico risuona lo slogan dei genitori dei desaparecidos, Vivos los llevaron, vivos los queremos!”
L’ormai celebre parola d’ordine fu coniata da Rosario Ibarra de Piedra, 93 anni, quattro volte candidata al premio Nobel per la pace, quando suo figlio Jesús fu sequestrato nel 1975 durante la guerra sucia contro la sinistra rivoluzionaria. “Le sparizioni forzate” spiega Héctor Cerezo Contreras, che nel 2001 è stato arrestato con l’accusa di insurrezione armata e ha passato sette anni e mezzo in un carcere di massima sicurezza, “sono sempre state utilizzate in Messico per terrorizzare la popolazione e controllare il territorio. La repressione non colpisce solo i dissidenti politici ma anche gli attivisti sociali, i migranti, gli studenti, le donne, gli operai delle maquilas”.
Julio César Mondragón era soprannominato El Chilango, uno della capitale, perché la sua famiglia vive non lontano da Città del Messico, nel pueblo di Tecomatlán. Sua madre, Afrodita, sta cambiando i fiori sulla tomba nel cimitero del paese. “Sono fortunata” dice. “Almeno l’ho potuto seppellire. Era venuto a casa per vedere sua figlia, appena nata: l’ultima volta che l’ho visto vivo”. Due settimane dopo Julio era su uno degli autobus con gli studenti di Ayotzinapa. Lo hanno trovato in una strada di Iguala con la “faccia della morte”, gli occhi cavati e il volto scuoiato.
Da Chilpancingo la strada sale tortuosa tra monti della Sierra de Guerrero. È una terra di rivolte contadine, di lotte armate, di narcos, di sicarios e di antica povertà: il 60 per cento della popolazione è analfabeta, il 90 per cento delle case è senza fognature e il 50 per cento è privo di elettricità e di acqua potabile. Le coltivazioni di marijuana e di papaveri da oppio hanno soppiantato le piantagioni di caffè: da qui transitano enormi quantitativi di droga destinati al mercato americano.
Nel cortile della scuola rurale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, nel comune di Tixtla, gli studenti hanno allineato 43 sedie vuote in memoria dei compagni scomparsi. Luz María, madre di Christian Telumbre, uno dei desaparecidos, vive poco lontano in una modesta abitazione al numero 2 di Lázaro Cárdenas, un viottolo che si arrampica sulla collina tra file di casupole dai colori sbiaditi. Vende tortillas che prepara sul forno a legna nella cucina all’aperto. Sull’altare di Christian ci sono fiori, un peluche, una candela accesa e una bottiglia di mezcal. “Aveva solo 19 anni” sospira doña Luz. “Gli piaceva ballare ed era goloso di cioccolato. Il dolore per la sua scomparsa, l’assenza, l’incertezza, sono una tortura. Mio marito voleva suicidarsi”.
Un’altra madre, Cristina Bautista, abita con le due figlie in una zona semiagricola alla periferia di Tixtla. “Non è un posto sicuro” spiega. “Tre mesi fa una ragazzina di 13 anni è stata violentata e uccisa. Hanno trovato il cadavere nella laguna. La polizia è corrotta e le milizie di autodifesa sono al soldo dei narcos”. Sta ricamando su una tovaglia il viso di suo figlio Benjamín, uno dei 43 di Ayotzinapa. Voleva fare il maestro e per farlo studiare, Cristina è emigrata e ha lavorato sei anni, dalle 7 di mattino a mezzanotte, nei McDonald’s e Burger King del Connecticut. Adesso si guadagna il pane vendendo a Città del Messico borse e orecchini prodotti artigianalmente nei villaggi della Sierra ed è una dei membri più attivi del Comitato Padres y Madres de Ayotzinapa.
“López-Obrador ci ha promesso di andare a fondo nella ricerca della verità” dice doña Cristina. “Ci aspettiamo dei fatti. Finora non sono arrivati, ma noi non smetteremo mai di lottare. Anche se i nostri figli non sono vivi, per noi non sono morti finché non li potremo seppellire”.