Intervista al generale Ray Odierno
Giovanni Porzio – da Baghdad (04.02.09)
Salta giù dal Black Hawk atterrato nel compound dell’ex ministero della Difesa, nella “zona rossa” di Baghdad, ascolta il briefing dei suoi ufficiali ed esce subito a ispezionare le strade. Vuole rendersi conto di persona dei progressi conseguiti sul campo in uno dei quartieri dove fino a pochi mesi fa sarebbe stato un suicidio avventurarsi a piedi. Scende sul lungofiume del Tigri, percorre Rashid street, stringe la mano ai poliziotti iracheni, assaggia le olive in salamoia alle bancarelle del mercato, si informa sul prezzo del pesce. Poi si siede a bere il tè con Mohammed al-Khoshalie, proprietario del Shahbender, il caffè degli artisti di via Mutanabbi, che ha perso quattro figli nell’esplosione di un’autobomba.
Il pluridecorato generale a quattro stelle Raymond Odierno, 54 anni, di Rockaway Township, New Jersey, di famiglia italo-americana (suo bisnonno era di Sarno), ex consigliere militare di Colin Powell e di Condoleezza Rice, dal 30 settembre comandante della Forza multinazionale in Iraq, è un colosso di 2 metri per 130 chili dalla voce soffice e dallo sguardo penetrante. Temuto e rispettato, dai suoi soldati e dagli iracheni.
E’ stato un capo implacabile, quando nel 2003 comandava la Quarta divisione di fanteria e dava la caccia ai terroristi di al-Qaeda nel Triangolo della morte: usando metodi pesanti, talvolta brutali. Ma furono i suoi uomini a stanare Saddam dal buco dove si era nascosto. Ed è stato lui, tra il 2007 e il 2008, a tradurre sul terreno operativo la strategia – elaborata dal generale David Petraeus – che ha trasformato la disastrosa missione irachena in un possibile successo.
E’ un duro il generale Odierno. Un militare tutto d’un pezzo. Che però si addolcisce e ha un moto di paterno orgoglio quando parla di Tony, suo figlio. Nel 2004, anch’egli militare in Iraq, pattugliava la strada dell’aeroporto quando un Rpg centrò la sua Humvee: l’autista morì sul colpo, a Tony fu amputato il braccio sinistro. “Ha superato il trauma e si è sposato con una ragazza siciliana” racconta il generale. “Sono appena tornati dal viaggio di nozze a Roma e a Firenze. Sono molto fiero di lui”.
Generale, come valuta l’attuale situazione in Iraq?
Il numero di incidenti è al livello più basso dall’inizio della guerra. Ma non è una situazione uniforme in tutto il paese: ci sono aree molto tranquille e altre problematiche, soprattutto Mosul e la provincia di Diyala dove siamo ancora duramente impegnati.
E a Baghdad?
La sicurezza è migliorata in modo significativo: lo si avverte camminando per le strade. Definirei Baghdad una città stabilizzata, ancora colpita da atti isolati di terrorismo, sempre meno frequenti. Le forze di sicurezza irachene stanno assumendo la responsabilità della sicurezza in tutti i quartieri e sono convinto che noi saremo in grado di lasciare Baghdad entro la fine di giugno come stabilito dagli accordi con il governo iracheno.
Quali sono a suo avviso le ragioni principali del miglioramento della sicurezza a Baghdad e nel resto del paese?
Il “surge”, l’incremento delle truppe, ci ha permesso di eliminare i santuari degli insorti. Il secondo elemento decisivo è stato la maggiore stabilità delle forze di sicurezza irachene, che hanno potuto crescere e rafforzarsi a un ritmo più elevato. Il terzo fattore è stato il movimento del Risveglio, che ha offerto ai sunniti una strada per uscire dal ghetto in cui i terroristi di al-Qaeda li avevano costretti e un’opportunità di collaborare con la Coalizione e di rientrare nel gioco politico.
Non ha contribuito anche un atteggiamento più attendista e meno aggressivo dell’Iran?
No. Gli iraniani non hanno cambiato atteggiamento, hanno cambiato tattica. Continuano a fornire armi letali e addestramento, ma in modo più discreto e in misura ridotta: un fatto positivo e incoraggiante, che spero si prolunghi nel tempo. Abbiamo reso più difficile per loro aiutare gli insorti in Iraq: abbiamo intensificato le operazioni lungo il confine. E non è più così facile per gli iraniani infiltrarsi a Baghdad e nel resto del paese. Il governo iracheno ha fatto molto in questo senso e ha mandato un chiaro messaggio a Teheran.
Come procede il reclutamento dei miliziani sunniti, i cosiddetti “Figli dell’Iraq”, e la loro integrazione nelle forze di sicurezza irachene?
Il governo ha cominciato a pagare gli stipendi, come previsto dagli accordi. Ma non sono soddisfatto. Molti di loro sono in attesa di ottenere impieghi civili: c’è ancora molta strada da fare per il loro inserimento. E’ la sfida che ci attende nei prossimi mesi.
E’ soddisfatto del livello di preparazione e di addestramento delle forze di sicurezza irachene?
Migliorano di giorno in giorno. Noi forniamo ancora un notevole supporto logistico, ma il miglioramento è stato esponenziale negli ultimi 12 mesi. E i risultati sul terreno si cominciano a vedere. Le elezioni del 31 gennaio per il rinnovo dei Consigli provinciali si sono svolte senza incidenti di rilievo.
Non si sono più verificati casi di infiltrazioni nella polizia e nell’esercito?
Gli iracheni hanno profuso un notevole impegno per eliminare il settarismo un tempo prevalente nelle forze di sicurezza. Non posso dire che il fenomeno sia scomparso del tutto, ma è stato ridotto in modo significativo. Questa è un’altra delle sfide che abbiamo di fronte: ci saranno fratture in seno alle forze armate, provocate dai gruppi politici sconfitti nelle urne? Sarà questo il test definitivo per sapere se avremo davvero un esercito nazionale iracheno.
State già procedendo al ritiro delle unità da combattimento previsto dagli accordi con il governo iracheno?
Un anno fa avevamo 20 Brigate, ora sono 14: l’ultima è tornata in patria nei due mesi scorsi. Le truppe americane sono scese da 175.000 a 141.000 effettivi: abbiamo già operato una riduzione significativa e continueremo su questa strada per tutto il 2009, in funzione dei progressi ottenuti sul campo. Penso che proseguiremo in modo rapido in questa direzione. Ma con la dovuta cautela.
Quali sono i maggiori rischi che vede profilarsi?
Non c’è ancora una visione del futuro condivisa dai leader iracheni. Con l’aumentare della sicurezza si intensifica la competizione tra i maggiori partiti, le cui posizioni divergono notevolmente: non è facile conciliare le aspirazioni dei curdi con quelle degli arabi, superare le diffidenze tra sciiti e sunniti o le rivalità tra il Dawa, il partito del primo ministro Nouri al-Maliki, e lo Sciri, il Consiglio supremo islamico guidato da Abdelaziz al-Hakim. E’ possibile che si producano fratture suscettibili di provocare nuove violenze. E questo mi preoccupa. In particolare mi preoccupano la crescente tensione tra curdi e arabi nelle zone contese di Kirkuk e Niniveh e le divisioni interne degli sciiti. Come pure le dinamiche tribali nella provincia sunnita di Anbar. Dopo le elezioni provinciali si terranno quelle distrettuali e a fine anno le politiche. Se riusciremo a mantenere per tutto il 2009 l’attuale livello di sicurezza, assicurando una pacifica transizione dei poteri, potremo finalmente parlare di un Iraq stabile. Potremo andarcene consegnando davvero il paese agli iracheni.
E’ questo che ha riferito al presidente Obama dopo il suo insediamento alla Casa Bianca?
Gli abbiamo illustrato la situazione in Iraq. E gli abbiamo prospettato quelli che noi chiamiamo “drivers of instability”, i fattori di instabilità. Il presidente ci ha dato alcune indicazioni sulle linee guida da seguire e su queste stiamo lavorando per mettere a punto le opzioni da sottoporgli.
Lei pensa che in Afghanistan si possa applicare la strategia impiegata in Iraq negli ultimi mesi? Anche lì può funzionare il surge?
Il teatro operativo non è comparabile. In Afghanistan le ragioni che richiedono lo spiegamento di una forza più consistente sono altre e la strategia militare deve adattarsi al contesto afghano, del tutto diverso da quello iracheno. Dovremo capire come affrontare la situazione, come lottare contro i fattori di violenza e di instabilità. E non può essere soltanto un approccio militare: è necessaria una risposta che non contempli soltanto l’uso della forza. Una delle lezioni che abbiamo imparato in Iraq è proprio questa.
Al-Qaeda in Mesopotamia è stata definitivamente sconfitta?
No. E’ stata indebolita ma è ancora presente, anche se sta solo cercando di sopravvivere, di mantenere una testa di ponte nel nord e di riorganizzarsi: il nostro compito è di impdire che ciò avvenga. I jihadisti di al-Qaeda non sono finiti: sono ancora in grado di compiere attentati in Iraq. Hanno difficoltà di reclutamento e di finanziamento ma sono ancora attivi. Abbiamo ancora del lavoro da fare.
Se potesse tornare al 2003, all’inizio della guerra, cambierebbe le tattiche e la strategia che avete utilizzato?
Senz’altro. Non eravamo preparati per questo tipo di scontro e alla contro-guerriglia, non sapevamo come affrontare i problemi di un paese sconfitto e privo di un governo. Le nostre previsioni erano errate: credevamo che tutto si sarebbe svolto pacificamente, che saremmo stati accolti come liberatori. Erano convinzioni totalmente sbagliate. E abbiamo commesso madornali errori: lo scioglimento dell’esercito e le de-baathificazione ci hanno alienato gran parte del popolo iracheno. Comunque non sono sicuro che saremmo riusciti a portare a termine la missione in tempi più brevi: con il crollo di Saddam erano affiorate tutte le devastazioni e i danni provocati dal regime, compresa l’assoluta incapacità degli iracheni di dar vita a un governo capace di funzionare. E non so se avremmo potuto stabilizzare il paese con metodi pacifici. Ora ci stiamo arrivando, ma restano molti ostacoli soprattutto di ordine politico da superare. Non dobbiamo abbassare la guardia.