Misurata, Libya
Misurata, 2 settembre.
All’ultimo check point – quattro container uno sull’altro, una catasta di auto bruciate, un terrapieno e due bulldozer di traverso – i thowar ci fanno segno di deviare in una strada sterrata. Il viale d’accesso è bloccato. Sul muro di una casa bombardata, una freccia indica la direzione e un graffito di vernice nera annuncia che siamo a Misurata, la città martire dove si è combattuto per oltre due mesi, dove i morti sono stati duemila, 1.300 i mutilati, mille i feriti.
“Non c’è famiglia che non sia in lutto” dice Walid, fino allo scorso febbraio giornalista in una delle gazzette ufficiali del regime. I segni della più accanita e prolungata battaglia combattuta dalla rivoluzione libica sono ovunque. Sembra di entrare a Grozny, a Baghdad, a Kabul, nella Beirut della guerra civile: case sbriciolate, carri armati carbonizzati, negozi incendiati, palazzi sventrati dagli obici e dagli Rpg, casse di munizioni ed elmetti abbandonati, caserme e ospedali crivellati di colpi. Su un lungo muro dipinto di bianco, i thowar hanno scritto centinaia di nomi: i caduti della “città degli eroi”. Il memoriale di Misurata, come quello di Washington ai morti americani in Vietnam.
Il fronte era nella centrale via Tripoli, ora ridotta a un cumulo di macerie, bossoli, vetri rotti, schegge di granate, calcinacci. A un incrocio, accanto a un tank dell’esercito di Gheddafi colpito da un missile, il consiglio municipale ha organizzato una specie di monumento ai martiri, radunando foto, uniformi insanguinate, cariche di mortai, razzi, bombe inesplose.
Più avanti un vecchio seduto sullo stipite di quella che un tempo era la sua casa alza le dita nel simbolo della vittoria. Una famiglia di sfollati si aggira per le strade in cerca di un posto dove fermarsi. Ma Misurata è in ginocchio. Non c’è carburante. Il cibo e l’acqua sono scarsi. Mancano i medicinali. I combattenti, con le loro armi e le loro jeep, sono andati al fronte, verso Sirte o verso Bani Walid. Lasciandosi alle spalle una città fantasma.
Misurata, 2 settembre, notte.
Abdallah Mohammed Shaka racconta la sua storia seduto su una seggiola di plastica sistemata tra i ruderi della casa di famiglia in via Tripoli. Altri uomini, amici, parenti, vicini, ascoltano in silenzio, passando di tanto in tanto il bicchierino del caffè. “Questa” dice “è la foto di mio figlio Mohammed, 18 anni, ucciso a Zlitan all’inizio della rivolta, in febbraio. Quest’altra è di mio cognato Ibrahim, 48 anni, ex militare, pure lui ammazzato a Zlitan. Era un comandante dei thowar, aveva combattuto in Ciad nella legione araba di Gheddafi”.
Abdallah non ha rimpianti. E’ orgoglioso di suo figlio, che era partito per il fronte pieno di entusiasmo con gli amici della scuola di Misurata. Anche sua moglie, adesso, è tranquilla, si è rassegnata al destino e al volere di Allah. “Mia madre, invece, è morta di dolore quando mio fratello è scomparso, nel 1981, inghiottito dalle prigioni del Mukhabarat”.
Il braccio destro di Abdallah è infilato in una calza. Lentamente, con fatica, la solleva e la srotola mostrando il polso segnato da una cicatrice fresca, ancora sanguinante. Anche sul polso sinistro ha uno sfregio violaceo. Poi si piega in avanti e scopre le caviglie, marchiate da due cicatrici gonfie, doloranti. “Mi hanno tenuto legato mani e piedi per cinque mesi” dice. “Sono venuti a prendermi dopo la morte di Mohammed, hanno devastato la casa, mi hanno caricato su un furgone e mi hanno portato a Tripoli, nel carcere di Zahra”.
Nessun contatto con la famiglia: “Pensavano che fossi morto”. L’accusa: padre di un terrorista. Lo hanno torturato per settimane con sbarre di ferro e scariche elettriche. Ma Abdallah non aveva niente da confessare.
E’ tornato tra i vivi domenica 21 agosto, quando i thowar hanno attaccato il carcere e liberato i detenuti. Ora, finalmente, può ricevere le condoglianze per Mohammed, uno “shahid”, uno dei martiri di Misurata.