Mosul frontline
È un colosso dai piedi d’argilla. Il bastione della diga di Mosul, costruita da un consorzio italo-tedesco e inaugurata nel 1984, poggia su un substrato di terreno gessoso che assorbe le infiltrazioni dell’immenso lago sovrastante. Per arginare l’erosione ed evitare il cedimento, 600 operai iracheni hanno per trent’anni consolidato le fondamenta con quotidiane iniezioni di cemento. Ma da quando nell’agosto del 2014 i miliziani di Daesh si sono impadroniti della diga, riconquistata dai peshmerga dopo 11 giorni di accaniti scontri e di raid aerei americani, i lavori di manutenzione si sono interrotti. E l’intera struttura di 3.600 metri rischia di crollare provocando un’immane catastrofe.
Gli ingegneri militari del Pentagono hanno installato 92 sensori per monitorare la pressione sulla diga e i sedimenti nell’acqua. Ma il tempo stringe. Le giunture delle due principali saracinesche di sfiato sono danneggiate. Lo scioglimento delle nevi e l’innalzamento del livello idrico, ha avvertito il generale Sean MacFarland, comandante delle forze statunitensi in Iraq, potrebbero risultare fatali. Se la diga dovesse franare un’onda di piena alta 15 metri si abbatterebbe su Mosul inondando la pianura del Tigri, travolgendo città e campi coltivati: uno tsunami che sommergerebbe anche Baghdad, dove le ambasciate nella Zona Verde hanno già approntato i piani di evacuazione. Bilancio ipotizzato: da 500 mila a un milione di morti.
L’invio di 400-600 militari italiani a protezione dei tecnici della Trevi, la società di Cesena che ha vinto l’appalto per la messa in sicurezza della diga, è dunque quanto mai urgente e si inscrive nel quadro del crescente impegno dell’Italia nel teatro iracheno. A Baghdad sono operativi 50 incursori delle forze speciali e un centinaio di carabinieri che addestrano le forze di polizia locali e federali. “Con l’obiettivo” spiega l’ambasciatore Marco Carnelos “di garantire la sicurezza nelle aree riconquistate a Daesh, di consentire il rientro degli sfollati e di ripristinare i servizi essenziali: luce, acqua, fognature, piccolo commercio”.
A Erbil 200 paracadutisti della Folgore addestrano le forze di sicurezza curde: tremila peshmerga sono già stati istruiti nelle tecniche di sminamento, combattimento nei centri urbani, procedure anti-sniper e anti-IED, soccorso sanitario. Con i 400 avieri presenti in Kuwait a supporto delle missioni dei droni Predator e dei Tornado da ricognizione, il contingente italiano ammonta a 1.300 militari: il più consistente dopo quello americano, che conta circa quattromila uomini ai quali dovrebbe aggiungersi in marzo un battaglione della 101ma Divisione aviotrasportata.
I militari che saranno dispiegati nell’area della diga si troveranno a operare a ridosso di Mosul, roccaforte di Daesh a meno di 20 chilometri di distanza: la linea di difesa presidiata dai peshmerga segue da vicino il confine settentrionale del Califfato islamico. La percorro in auto, con il convoglio dell’ong curda Heevie che trasporta medicinali per i combattenti al fronte. Sembra il day after di un devastante terremoto: ponti distrutti, case sbriciolate, tralicci abbattuti, villaggi fantasma. I caccia dell’aviazione americana e l’artiglieria curda hanno strappato al Califfato un’ampia fascia della piana settentrionale di Ninive, dai sobborghi di Mosul al confine siriano. Ma l’hanno trasformata in una desolata terra di nessuno.
Il fronte è una trincea di 20 chilometri che da Tall Afar, in mano a Daesh, serpeggia tra le colline e la pianura fino alle pendici del monte Sinjar. Ogni 500 metri c’è una base peshmerga: un container e un paio di tende difese da un muro di sacchetti di sabbia, filo spinato e nidi di mitragliatrici. Il freddo è intenso e gli uomini sono stanchi, chiedono antibiotici, sedativi, aspirine. Il soldo è di 400 dollari al mese e il rancio è pane e legumi.
Il colonnello Sardar, comandante di zona, ci scorta alle postazioni più avanzate, lungo una pista di fango che s’inerpica sulle alture, aride e rocciose. “Daesh” dice “è a cinque minuti da qui. Vediamo con i binocoli le loro jeep. Siamo a tiro dei loro mortai. Ma siamo in posizione elevata: il terreno è a nostro favore”. Sembra una guerra d’altri tempi: le trincee, i reticolati, le mine, gli scontri rarefatti, le lunghe attese.
Basta scendere nel villaggio “liberato” di Hardan per tornare al presente. Non c’è anima viva. Solo ruderi carbonizzati, edifici polverizzati dai missili, macerie da cui emergono scarpe, brandelli di vestiti, giochi di bambini. Non c’è nient’altro a ricordare gli Yazidi di Hardan. I tagliagole del Califfo li hanno spazzati via, trucidati o costretti alla fuga. Nel nome di Allah hanno ridotto in schiavitù le loro donne. E le bombe dei liberatori hanno cancellato la loro memoria.
Diga di Mosul, 09.02.16