Narco wars
“Da qui in avanti niente musica, niente foto e finestrini abbassati: se sparano dobbiamo sentirli”, avverte Sergio Ferrer, responsabile delle attività di Medici senza frontiere nella zona. “Stiamo entrando in un territorio controllato dai gruppi armati”.
In Colombia la guerra civile, che dopo oltre mezzo secolo di scontri, 300 mila morti e sei milioni di sfollati si credeva conclusa con l’accordo di pace del 2016 e la smobiltazione delle Farc, la più longeva guerriglia latinoamericana, non è mai finita. Omicidi, massacri, sequestri, reclutamento di minori, migrazioni forzate sono in aumento. E il Catatumbo, un’impervia regione del Norte de Santander che è stata definita “la repubblica indipendente della cocaina”, è sulla linea del fuoco.
Lo stato cessa di esistere all’ultimo posto di blocco dell’esercito nei pressi di Tibú, il municipio con la più estesa superficie coltivata a coca del Paese. La strada sterrata s'incunea tra i contrafforti della cordillera orientale e il confine venezuelano: sulle colline i campi di coca, in pianura pozzi petroliferi e distese di palme da olio. Vent’anni fa le grandi imprese hanno imposto la monocoltura della palma cacciando i campesinos e occupando i terreni abbandonati a causa del conflitto. I leader comunitari, gli attivisti sociali che si battono contro la violenza, la distruzione delle foreste e l’economia della droga rischiano la pelle.
La Colombia è il Paese più pericoloso al mondo per i difensori dell’ambiente e dei diritti umani. Almeno mille, secondo Indepaz, l’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace di Bogotà, sono stati assassinati dal 2016, più di 300 nel 2020, 30 nei primi due mesi di quest’anno.
A La Gabarra, un remoto villaggio su una ansa del rio Catatumbo, le firme sui muri e sulle saracinesche dei negozi non lasciano dubbi su chi è al comando: “ELN-52 anni di lotta”, “Farc-D”. I poliziotti non si fanno vedere e i militari, asserragliati in un bunker di sacchetti di sabbia e filo spinato su un’altura isolata, non escono dalla loro base. Le sentinelle, mitra spianato e auricolari collegati alla ricetrasmittente, si limitano a osservare il passaggio dei contadini con il machete alla cintura e i raspachines, i raccoglitori di foglie di coca, che tornano dalle piantagioni.
È ancora viva la memoria del massacro del 21 agosto 1999, quando i paracos, i paramilitari, fecero strage degli abitanti. E il sangue continua a scorrere. Di notte si sentono spari ed esplosioni. Cadaveri crivellati di colpi, a volte smembrati e decapitati, affiorano nel fitto della giungla o nelle acque del fiume: i cimiteri sono pieni di tombe senza nome.
Don José Luis, vicepresidente della giunta comunitaria, è un referente della guerriglia. “La Gabarra ha una pessima fama” dice. “Ma qui puoi stare tranquillo: non ci sono furti, non serve chiudere a chiave le porte di casa”. La gente tollera la presenza dei gruppi armati, che in assenza delle forze dell’ordine suppliscono al vuoto di potere imponendo la loro legge e amministrando in modo brutale la giustizia: esecuzioni sommarie per ladri, stupratori, trafficanti di droga che non pagano il pizzo e per chiunque violi o si opponga alle regole stabilite.
Nel villaggio si respira un’aria da avamposto di frontiera. Per le vie polverose transitano vecchi autocarri Ford, moto da cross e Suv con i vetri oscurati. La benzina di frodo si vende sui marciapiedi in taniche e bottiglie di plastica. Nei fine settimana i bar si riempiono di ubriachi e di puttane e le sale da biliardo diffondono a tutto volume i narcocorridos messicani dei Tigres del Norte, che esaltano le gesta del Chapo Guzmán e di Pablo Escobar. Giù al porto, intanto, contrabbandieri, facchini e spedizioneri riempiono le lunghe lance fuoribordo che fanno la spola col Venezuela. Trasportano qualsiasi cosa: beni di consumo, carburante, oro, coltan, armi, migranti e soprattutto cocaina e pasta di coca.
Il rio Catatumbo è l’autostrada della droga. Con una produzione annuale di oltre 280 tonnellate di pasta base di coca, il Norte de Santander è oggi, con il Chocó e il Putumayo, la regione più redditizia nel Paese che detiene il record mondiale di esportazione di cocaina. In barca lungo il fiume o a spalla sulle tortuose trochas, i sentieri frontalieri, i carichi raggiungono le piste di atterraggio clandestine in Venezuela e proseguono in avionetas verso i Caraibi e il Nordamerica.
Altri ingenti quantitativi diretti in Africa e in Europa viaggiano nei container delle navi che salpano dai porti dell’Atlantico e del Pacifico: in febbraio a Rotterdam e ad Anversa sono state confiscate 23 tonnellate di cocaina per valore commerciale 4 miliardi di euro, il più grande sequestro di droga mai effettuato nell’Ue. I trafficanti si servono anche di “narcosommergibili”. Nell’ultimo anno la guardia costiera colombiana ne ha intercettati cinquanta, alcuni lunghi più di venti metri e in grado di trasportare dalle 3 alle 10 tonnellate di droga fino alle coste della Galizia.
Sul mercato di New York un chilo di cocaina che in Colombia si compra a meno di 5.000 dollari ne spunta almeno 150.000: un giro d’affari che non poteva sfuggire ai messicani. Gli emissari dei cartelli di Sinaloa, Los Zetas e Jalisco Nueva Generación mantengono un basso profilo ma ormai si sono impadroniti dell’80 per cento del business: comprando direttamente, e in contanti, dai proprietari delle fincas, saltano la catena degli intermediari e abbattono il costo delle forniture offrendo ai cocaleros un prezzo più elevato. I gruppi armati, debitamente ricompensati, garantiscono la sicurezza e il controllo del territorio.
La pandemia di Covid-19 ha costretto il governo a spostare risorse per contenere il virus e le milizie ne hanno approfittato per espandere la loro influenza. Il Catatumbo è di fatto nelle mani del Frente 33, una delle frange dissidenti delle Farc che hanno rifiutato l’accordo del 2016, e dell’ELN, l’Esercito di liberazione nazionale, che si avvale del tacito supporto del Venezuela. Ma altre numerose formazioni sono in lotta per imporsi o accaparrarsi una fetta del racket: l’Esercito popolare di liberazione (Los Pelusos), i paramilitari (Autodefensas Gaitanistas, Los Urabeños, Clan del Golfo) e bande criminali come Los Rastrojos, La Linea, El Tren de Aragua. Gli scontri e gli omicidi mirati mietono ogni anno centinaia di vittime. Anche tra i combattenti delle Farc tornati alla vita civile: negli ultimi quattro anni, in Catatumbo e nel resto del Paese, sono stati assassinati 260 ex guerriglieri.
I gruppi armati non si limitano a gestire il traffico di droga e a incentivare il disboscamento di migliaia di ettari di foresta per fare spazio alla coca: sabotano gli oleodotti per distillare il greggio e procurarsi le sostanze chimiche necessarie all’estrazione dell’alcaloide, circondano di mine antiuomo le piantagioni, costringono le comunità indigene a collaborare o a emigrare, impongono con la forza misure di confinamento alle popolazioni rurali e dettano persino le regole da rispettare per il coronavirus, decretando condanne a morte per i trasgressori.
In queste condizioni, l’eradicazione della coca e i piani di sostituzione con colture lecite sono destinati al fallimento. L’aspersione aerea delle piantagioni con il micidiale glisofato della Monsanto è stata vietata dopo i disastri umani e ambientali provocati in passato dai piloti della società di sicurezza americana DynCorp. Ma la fumigazione terrestre, autorizzata quest’anno dal governo, e l’eradicazione manuale sono ferocemente contrastate dai gruppi armati. E a farne le spese, oltre ai militari, sono i campesinos, gli attivisti sociali e le centinaia di migliaia di famiglie vittime dei trasferimenti forzati.
La Colombia è il primo Paese al mondo per numero di sfollati interni, 8 milioni. Quattrocento famiglie sono accampate nel Divino Niño, uno dei quattro insediamenti informali cresciuti intorno a La Gabarra: baracche di assi, lamiera e fogli di plastica senza servizi igienici dove la malaria è endemica. In molte abitazioni ci sono solo bambini e neonati: i genitori sono al lavoro nei campi di coca. I desplazados scavano fosse settiche lungo i ripidi fianchi della collina e lavano i panni nel letto fangoso di un ruscello. “Ho smesso di raccogliere foglie di coca” dice Valentina. “È dura. Si prendono funghi alle mani e alle gambe. Ora lo fanno i miei ragazzi, di 19 e 21 anni. Partono domenica sera e tornano sabato. Ma ho paura quando vanno a raspare, a tre ore di cammino da qui. Ci sono sempre attacchi, incidenti, sparatorie”.
Wilmer Quintero, una moglie e otto figli, si è preso un giorno di riposo. “Questo” spiega “è il mio equipaggiamento: stivali di gomma, sacchi di tela e un nastro per proteggere le dita. Nella piantagione mi danno da mangiare e un’amaca per dormire. Per ogni sacco di 12 chili mi pagano 8.000 pesos e alla fine della giornata mi metto in tasca 50.000 pesos, circa 14 dollari. Non mi piace fare il raspacho, ma da queste parti non ci sono alternative”.
Nel Catatumbo dimenticato dallo stato la coca è una benedizione: crea posti di lavoro e garantisce la sopravvivenza della popolazione locale, dei migranti e degli sfollati. Tutti ne beneficiano: raspachines, proprietari terrieri, gruppi armati, ufficiali corrotti, contrabbandieri, politici senza scupoli. E lo stesso governo, che ha incassato miliardi di dollari per la lotta al narcotraffico. “Nessuno ha interesse a distruggere l’economia della coca” afferma Wilmer Quintero.
Sulla strada del ritorno dobbiamo fermarci. È in corso un’operazione militare nella zona dove un convoglio è caduto in una sanguinosa imboscata: due morti e undici feriti. Un semplice contrattempo, in questa parte del mondo.