Outpost in the sand
Djibouti, april 2024

Soffia il monsone di nordest. E nella controra, quando il vento incattivisce sullo stretto di Bab al-Mandab,  la “porta dei  lamenti”, la città si svuota: sotto l’incudine del sole le bianche arcate dei palazzi coloniali francesi si affacciano su strade inanimate, piazze metafisiche, edifici corrosi dal tempo dove la gente si rinchiude in attesa del sollievo della notte, masticando il qat.

Djibouti, un arroventato spicchio di roccia vulcanica all’imboccatura del Mar Rosso, è un luogo inospitale, privo di risorse naturali, abitato da tribù nomadi e da un’esigua popolazione urbana. La vegetazione è quasi del tutto assente. Le piogge e l’umidità rendono il caldo insopportabile sulla costa, mentre nelle depressioni desertiche e sugli altopiani basaltici dell’interno la temperatura raggiunge picchi tra i più elevati al mondo. Ma il minuscolo ex “Territorio degli Afar e Issa”, indipendente dal 1977, grande quanto l’Emilia Romagna, schiacciato tra la Somalia, l’Eritrea e il gigante etiopico, possiede un tesoro inestimabile: una posizione geografica di cruciale importanza strategica, non solo per l’Occidente.

Nel braccio di mare antistante Djibouti, che a Bab al-Mandab non supera le 16 miglia nautiche, transitano il 30 per cento del volume dei container del trasporto marittimo internazionale, tre quarti degli idrocarburi del Golfo Persico per l’Europa, due terzi delle importazioni italiane e un terzo del nostro export.

Dopo l’inizio della guerra a Gaza, i ripetuti attacchi degli Houthi yemeniti contro i mercantili diretti in Israele o di presunta proprietà israeliana hanno costretto molte compagnie di navigazione a optare per la rotta del Capo di Buona Speranza, con un aggravio considerevole dei costi e dei tempi di consegna. E hanno indotto l’Unione Europea a schierare una task force navale (operazione Aspides a guida italo-greca) per garantire la sicurezza delle vie d’acqua del Mar Rosso e del Golfo di Aden: intervento che affianca un analogo dispiegamento multinazionale, a carattere più offensivo, gestito dal Pentagono. Ma la storia di Djibouti come avamposto militare ha origini più antiche.

Furono i francesi, nel 1884, a farne la testa di ponte dei loro interessi oltremare. Era l’epoca del confronto con gli inglesi e i turchi ottomani, delle nuove rotte aperte dal canale di Suez, dei commerci di armi, avorio e schiavi con l’Abissinia dei ras: traffici che videro coinvolto anche il poeta Arthur Rimbaud. Trent’anni dopo approdò a Djibouti un altro scrittore e avventuriero francese, Henry de Monfreid, che nei suoi romanzi autobiografici ci ha lasciato un’immagine vivida della “Costa dei Somali” del tempo. Anche allora le navi militari pattugliavano il Mar Rosso infestato da pirati e da contrabbandieri di armi destinate alle tribù yemenite in rivolta.

Nel secondo dopoguerra è la Legione straniera a prendere possesso di Djibouti. Non un reparto qualsiasi ma la Tredicesima Demi-brigade, l’ultima a lasciare il Tonchino, la più eroica a Dien-Bien-Phu, la prima a unirsi alle forze alleate in Norvegia e in Italia. I legionari se ne sono andati nel 2011, subito rimpiazzati da un contingente di tremila uomini, oggi ridimensionato nel quadro del generale disimpegno francese dallo scacchiere africano. Nel frattempo, e soprattutto dopo l’attentato di al-Qaida alle Torri gemelle nel settembre 2001, la piccola ma stabile repubblica presidenziale del Corno d’Africa si è trasformata in una fortezza armata: una mega-caserma che alloggia il più elevato numero di basi militari estere sul pianeta. Il solo posto al mondo dove le due grandi superpotenze rivali, Cina e Stati Uniti, si fronteggiano e si spiano da vicino.

Camp Lemonnier, all’aeroporto, unica base americana permanente in Africa e sede di Africom, il comando centrale per le operazioni sul continente, ospita quattromila soldati e contractor, dozzine di elicotteri, caccia F-15, velivoli a decollo verticale, aerei da pattugliamento marittimo P-3 Orion, mentre i droni Preadator e Reaper sono dislocati nella vicina base di Chabelley. A Camp Lemonnier sono anche di stanza i commando delle unità speciali antiterrorismo e della forza di intervento rapido del Pentagono, impegnate nel contrasto alla pirateria e nei raid in Yemen e in Somalia.

A pochi chilometri di distanza, su un tratto di costa adiacente al nuovo porto, la bandiera rossa dell’Esercito popolare di liberazione sventola sulla prima e unica base militare estera nella storia della Cina: duemila uomini (ma una capacità di diecimila), un molo capace di accogliere quasi tutte le navi della flotta di Pechino e un bunker sotterraneo attrezzato per operazioni di guerra cibernetica.

Djibouti è un cardine della strategia di penetrazione cinese in Africa: la porta verso l’Etiopia, uno dei principali partner di Pechino nella regione. La Cina detiene ormai il 70 per cento del debito estero di Djibouti e investe miliardi di dollari nelle infrastrutture del Paese: il porto multiuso di Doraleh, la zona franca commerciale, l’acquedotto, la ferrovia ad alta velocità per Addis Abeba, oltre a strade, banche, alberghi, industrie di trasformazione.

Con forze aeree e navali e un contingente militare è sbarcato anche il Giappone. La prima base estera nipponica dopo la Seconda guerra mondiale mira a contenere la crescente influenza cinese nell’area e a proteggere le rotte marittime. Non mancano i tedeschi e gli spagnoli, che dalle suite dello Sheraton e del Kempinski coordinano le attività dei loro mezzi aeronavali impegnati nell’operazione anti-pirateria “Atalanta” dell’Ue, il cui comando è oggi affidato all’Italia.

La base italiana interforze intitolata ad Amedeo Guillet, il “Comandante Diavolo” che nel gennaio 1941 in Eritrea si lanciò contro gli inglesi nell’ultima carica di cavalleria della storia africana, si trova a ridosso del confine somalo ed è operativa dal 2012. “Svolgiamo attività di supporto logistico per le missioni Atalanta e Aspides” spiega il tenente colonnello Maurizio Buscaino. “Mentre i nostri carabinieri addestrano la polizia somala e gibutina”.

Visto che a Djibouti una base militare non si rifiuta a nessuno (solo da Usa e Cina il governo intasca 100 milioni di dollari l’anno) si apprestano a piantare la bandiera anche l’Arabia Saudita e la Turchia, che in febbraio ha siglato ad Ankara un accordo di cooperazione militare con gli emissari di Ismail Omar Guelleh, al potere dal 1999 e al suo quinto mandato presidenziale. Il grande assente è la Russia, che si appoggia al porto eritreo di Massaua e tenta da anni di negoziare con Khartoum l’apertura di uno scalo navale a Port Sudan.

C’è chi – l’ex ambasciatore americano Thomas Kelly – paragona Djibouti alla Casablanca degli anni Quaranta: un torbido microcosmo di spie, militari di ogni nazionalità, diplomatici, mercenari, cambiavalute, contrabbandieri, prostitute e faccendieri dediti a traffici leciti e illeciti. Gli espatriati s’incontrano al ristorante La Chaumière, nell’ex piazza Menelik, semidistrutto nel 2014 da un attacco kamikaze di al-Shabab e subito ricostruito dal proprietario, Abouye Wang, che sorveglia la clientela da un tavolo defilato. In un’atmosfera da intrigo, tra un Johnnie Walker e una birra ghiacciata, gli avventori si scambiano confidenze, discutono i contratti, firmano gli assegni. E la notte, come in ogni città-guarnigione, i contractor, i marinai e i militari in libera uscita affollano i night a luci rosse di rue d’Éthiopie in cerca di ragazze da portarsi a letto.

Alla luce del giorno i cantieri dei nuovi shopping center e dei grattacieli prefigurano una “Singapore dell’Africa orientale” dove parenti e sodali dell’autocrate al potere, appaltatori, concessionari e imprenditori stranieri si arricchiscono grazie a una legislazione che incentiva gli investimenti esteri, agli sgravi fiscali e all’endemica corruzione. La speculazione ha raggiunto persino Moucha, l’isola-rifugio di Monfreid: capitali arabi ed etiopici hanno preso d’assalto le spiagge coralline per realizzare alberghi, resort di lusso e ville private. Ma Djibouti ha anche un altro volto: quello delle miserabili bidonville del quartiere di Balbala, quello dei migranti in fuga dai Paesi in guerra, inseguiti dall’insicurezza, dalla fame e dalle periodiche siccità.

Lungo la carrozzabile per Obock, verso il golfo di Tadjoura, arrancano interminabili file di autotreni: il 95 per cento delle importazioni di Addis Abeba proviene da Djibouti. Il paesaggio è riarso, desolato: da queste parti Dino Buzzati, inviato del Corriere della Sera sul fronte abissino, vide il fortino abbandonato che gl’ispirò Il deserto dei tartari. In fondo al golfo si spalanca l’accecante distesa salata del lago Assal. Lo sfruttamento industriale del sale è oggi appannaggio di una società cinese, ma resiste un’attività artigianale: si scava a picconate nella crosta rovente e si riempiono sacchi per le carovane di dromedari dirette a Dire Dawa. Un lavoro da schiavi per un guadagno risibile: un euro e mezzo per un sacco da 5 chili.

È ad Assal che gli autocarri arrivano con il bagaglio di migranti etiopici. Il passaggio costa 10.000 birr, 160 dollari. Altri ne serviranno per arrivare a Obock e per pagare il capitano del sambuco che li scaricherà a Dhubab, sulla costa yemenita: l’ultima tappa del viaggio verso l’eldorado saudita. Chi non ha soldi cammina, con una bottiglia d’acqua in mano e un fazzoletto in testa per ripararsi dal sole. Molti muoiono di stenti sulla strada dissestata che s’incunea tra le montagne e la piana di Tadjoura, dove un albergo si chiama “Corto Maltese” (anche Hugo Pratt frequentò questi luoghi) e i profughi si abbeverano ai pozzi.

A Obock le barche dei trafficanti si sono diradate: il Mar Rosso è pattugliato dalle navi militari e gli etiopi, i somali e gli yemeniti fuggiti dalla guerra sono costretti ad aspettare, accampati negli slum che circondano la cittadina portuale: baracche di stracci, lamiera e pietra lavica infestati dal colera. La casa dove visse Rimbaud, indicata da un cartello scolorito, è un rudere consumato dalla salsedine. In quella di Monfreid, affacciata sul porto, due suore della Consolata hanno aperto una scuola elementare per i bambini delle bidonville.

Deshta Shifale Awala, 39 anni, affetto da tubercolosi, è appena sbarcato dallo Yemen su un sambuco. Ha in mano un attestato di richiedente asilo rilasciato dall’Unhcr ma non sa cosa farsene. “Sono partito dall’Etiopia in cerca di un impiego” racconta. “Ma alla frontiera saudita i soldati hanno aperto il fuoco e mi hanno ferito. In Yemen ho lavorato per quattro anni, poi mi hanno espulso. Non ho in tasca nemmeno un soldo e non so come tornare a casa”.

Il prefetto di Obock, Moussa Aden Migane, è in allarme: “Gli attacchi degli Houthi e i raid dell’aviazione americana rischiano di provocare un nuovo esodo di profughi dallo Yemen. E qui abbiamo già 122 mila migranti di cui occuparci”.

Più a nord, seguendo le tracce dei camion su una pista di sabbia tra il deserto e il mare, si arriva al villaggio di Mulhula, quasi al confine eritreo: il collo di bottiglia dello stretto di Bab al-Mandab. Un gruppo di una trentina di migranti, esausti e assetati, con mogli, figli e sorelle, si è sistemato sotto ripari di teli e rami di acacia. Al crepuscolo guardano con angoscia le luci verdi e rosse delle navi in transito, mentre i barconi attraccano sulla spiaggia in attesa di un nuovo carico umano.