Sinking Jakarta
Lo scenario è da film catastrofico: Jakarta, una delle metropoli costiere più densamente popolate del pianeta, 10 milioni di abitanti, 32 con i tentacolari sobborghi, sta sprofondando a una velocità senza precedenti e rischia di essere inghiottita dal mare. Il 40 per cento della città è già sotto il livello dell’oceano che circonda Giava. I distretti rivieraschi della zona settentrionale sono affondati di 2,5 metri nell’ultimo decennio e continuano ad abbassarsi di 25 centimetri ogni dodici mesi (Venezia cala di un millimetro l’anno).
Jakarta sembra destinata, se non a scomparire, a perdere il ruolo centrale che oggi occupa nell’economia e nella politica del più grande Paese musulmano al mondo. Il presidente Joko Widodo, che nelle elezioni del 17 maggio ha ottenuto un secondo mandato, ha infatti annunciato di volere trasferire la capitale altrove, probabilmente a Palangkaraya, capoluogo del Kalimantan centrale, nel Borneo indonesiano.
Lo spostamento del baricentro politico da Giava, che produce da sola il 58 per cento del pil, è visto con favore dai numerosi gruppi etnici che popolano le 17 mila isole dell’arcipelago indonesiano, in gran parte rimaste ai margini dello sviluppo. Ma è osteggiato dagli oligarchi che hanno investito miliardi nei mastodontici progetti immobiliari a Jakarta e, nel Kalimantan, dagli ambientalisti, allarmati dall’impatto che potrebbe avere una nuova megalopoli su un ecosistema già devastato dalla deforestazione, dalle attività minerarie e dalle piantagioni di palme da olio. Il trasferimento della capitale non garantirà comunque la sopravvivenza dell’antica Batavia olandese.
Ground zero è Muara Baru. Qui il mare si è già impadronito del quartiere. Le onde lambiscono i muri di una moschea semi-sommersa. L’argine di pietre e cemento, rinforzato dopo le inondazioni del 2007 e del 2013 (130 morti, mezzo milione di senzatetto, danni per 500 milioni di dollari), si sta sgretolando: dalle crepe filtrano rivoli d’acqua e di fango che hanno allagato stabilimenti e magazzini, ormai deserti. Ma il kampung, il “villaggio tradizionale”, uno slum di palafitte in precario equilibrio sulla laguna di Pluit, è sovraffollato. “Abito qui dal 1980” dice Batari, un’anziana vedova che vive in una baracca di compensato e lamiere tenute insieme da funi e fil di ferro. “Ma non so se potrò restarvi a lungo. L’acqua è sempre più alta. Quando la marea sale, mi entra in casa”.
Batari lotta ogni giorno contro il mare. Con un palo di bambù scava un solco nello spesso strato di spazzatura che forma l’argine della laguna: un’effimera difesa di plastica, lattine e rottami. “Qui non ci sono latrine e fognature” spiega. “Per non annegare devo tenere aperto un canale di scolo”. Ma è una battaglia persa in partenza: entro il 2050, si legge in uno studio del Bandung Institute of Technology, il 95 per cento di Jakarta-nord sarà invaso dall’acqua.
Nei kampung lungo la costa, a Muara Baru, Marunda, Angke, Ancol, Cilincing, dove vivono 4 milioni di persone, le condizioni igieniche sono estreme. Le scintillanti torri di vetro e acciaio dei compound residenziali, delle banche, delle compagnie di assicurazione e dei centri commerciali incombono sulle miserabili distese degli slum, dove le capre brucano l’immondizia e i bambini rincorrono i topi nelle putride paludi di acque infette, che s’innalzano senza sosta. “Di notte mi corico con mio figlio in braccio” dice Subaya, 28 anni, che lavora al mercato del pesce di Angke. “C’è solo un muretto di mattoni tra la mia casa e il mare”.
Le inondazioni hanno rappresentato nei secoli una minaccia per la città portuale di Jayakarta, ribattezzata Batavia nel 1619 dai conquistatori olandesi che per conto della VOC, la Compagnia delle Indie orientali, scipparono ai portoghesi le rotte del commercio con le isole delle spezie. Gli ingegneri della VOC scavarono una rete di canali nel tentativo di controllare il flusso dei tredici fiumi che sfociano nella baia e di bonificare le paludi malariche. Con scarso successo, se un secolo e mezzo più tardi l’esploratore inglese James Cook annotava nel suo diario: “Se si sarà costretti a toccare questo porto, sarà bene cercare di abbreviare il più possibile il soggiorno, altrimenti presto si faranno sentire gli effetti dell’aria malsana, che fa di questa città una vera e propria tomba per gli europei, peggio di qualsiasi altro posto del globo”.
Dopo l’indipendenza nel 1945 lo sviluppo di Jakarta è stato tumultuoso e mal gestito. Il massiccio inurbamento, l’afflusso di milioni di contadini espulsi dalle compagnie minerarie e dalle monocolture del tabacco e della palma da olio, il boom delle costruzioni, l’assenza di un piano regolatore e la corruzione endemica hanno finito per soffocare la metropoli: il 97 per cento della città è oggi coperto dal cemento e dall’asfalto. I kampung e i palazzi sul litorale hanno distrutto le foreste di mangrovie che assorbivano le piogge, mentre montagne di spazzatura intasano le stazioni di pompaggio destinate ad alleggerire la portata dei fiumi e dei canali che non riescono più a defluire naturalmente perché le loro foci sono ormai più in basso rispetto al mare.
Gli effetti del cambiamento climatico, l’innalzamento del livello degli oceani e la maggiore intensità dei fenomeni atmosferici, hanno reso Jakarta più vulnerabile. Ma la causa principale dello sprofondamento della città è un’altra.
Suhali fa l’acquaiolo. Riempie taniche da 20 litri ai pozzi, le carica su un carretto di legno che spinge nei vicoli degli slum, se ne mette in spalla due alla volta su un rudimentale bilanciere e le distribuisce a pagamento nelle baracche. “I kampung sono sommersi dall’acqua ma non c’è acqua potabile” dice tirando una boccata al suo kretek, la sigaretta aromatizzata ai chiodi di garofano. “Anche questa è meglio non berla, serve solo per lavare e cucinare”. Gli spacci vendono CocaCola e altri soft drinks, meno costosi dell’acqua minerale: non è un caso se il diabete è una malattia endemica negli slum.
Metà della popolazione attinge l’acqua potabile da migliaia di pozzi illegali. E immensi quantitativi sono consumati da uffici, alberghi, condomini, shopping malls. Il risultato è il fenomeno della subsidenza: l’estrazione profonda delle acque sotterranee prosciuga la falda provocando il collasso degli strati superiori. Il terreno, appesantito da milioni di tonnellate di cemento, cede. E la città affonda.
Il governo, che ha dato la priorità alle difese a mare, ha lanciato un megaprogetto da 40 miliardi di dollari affidato a un consorzio di società olandesi guidato dalla Witteveen+Bos: un gigantesco muro marittimo di 35 chilometri a nord della baia di Jakarta al cui interno dovevano sorgere 17 isole artificiali nella forma di un Garuda, l’uccello mitologico che è il simbolo nazionale. Ma il “Great Garuda project” stenta a spiccare il volo, impantanato in una serie di scandali finanziari e di battaglie legali.
“È un progetto costoso e inefficace” afferma Alan Koropitan, docente di oceanografia alla Bogor Agricultural University. “La diga e le isole finirebbero per craere un’immensa laguna di acque stagnanti e inquinate”. Gli abitanti dei kampung e i 22 mila pescatori di Jakarta contestano il progetto, che rischia di distruggere le attività tradizionali delle comunità locali a vantaggio degli speculatori immobiliari e degli investitori cinesi.
I lavori in corso hanno già causato pesanti conseguenze. A Muara Angke i pescatori lamentano il calo della produzione. “Prima portavo a casa 200 chili al giorno di cozze” dice Khalil, che ha da poco trovato un impiego in un impianto per la salatura delle sardine. “Da quando hanno iniziato a dragare non ne prendo più di 50”. Sul litorale dove Khalil era solito pescare sono sorti gli appartamenti di lusso e i grattacieli di Pluit City, Green City e Regatta. Alla foce del fiume Ciliwung il kampung di Akuarium è stato raso al suolo dai bulldozer e gli abitanti sono stati trasferiti in alloggi a 15 chilometri di distanza.
Alla fine, il Grande Garuda è stato ridimensionato. “Per ora stiamo innalzando e rafforzando le barriere esistenti” spiega Victor Coenen, direttore della Witteveen+Bos Indonesia. “Ma con il mare a tre metri sopra la linea di costa è indispensabile realizzare nuove difese, anche se ci vorranno anni e non sarà una soluzione definitiva”. Dighe e stazioni di pompaggio possono ridurre per alcuni anni il rischio di inondazioni e di erosione, ma non impediranno alla città di sprofondare.
Per contenere la subsidenza c’è una sola strada: chiudere i pozzi che prosciugano la falda sotterranea, garantire alla città acqua potabile creando una capillare rete di condotte e di distribuzione, drenare e bonificare il sistema dei canali e delle fognature. Ma il tempo stringe. Se non saranno attuati interventi drastici e strutturali, avvertono gli idrologi, non basterà un muro per salvare Jakarta dalle onde del mare di Giava.