Giovanni Porzio - da Aden
Con un governo corrotto che controlla a mala pena le principali città, un territorio montuoso nelle mani di bellicose tribù, tassi di analfabetismo e di disoccupazione che sfiorano il 50 per cento e un arsenale di 60 milioni di armi da fuoco, quasi il triplo dell’intera popolazione, lo Yemen è il santuario ideale per i terroristi di al-Qaeda: un nuovo Afghanistan alle porte del Mar Rosso, a ridosso dei campi petroliferi sauditi.
Il presidente Ali Abdullah Saleh, 67 anni, al potere dal 1978, detto “il piccolo Saddam”, sta brigando per imporre come suo successore il figlio Ahmed, capo della Guardia repubblicana e delle forze speciali, e ha piazzato i parenti più stretti sulle poltrone che contano: il figlio Amar è vicedirettore della sicurezza, Yahye guida il controspionaggio, Tarek comanda la Guardia presidenziale e il fratellastro Muhammad l’aviazione. Ma il sistema di alleanze famigliari e tribali che lo sorregge è sul punto di implodere.
Sono tre i fronti aperti nello Yemen. Al nord, nella regione di Saada, è da sei anni in corso una brutale guerra civile contro gli sciiti Houthi: un conflitto senza testimoni che ha già mietuto migliaia di vittime e provocato l’esodo di 170 mila sfollati. Nelle regioni meridionali si moltiplicano gli scontri con i separatisti del Movimento per la liberazione del sud. E nel resto del paese, a Sana’a, nei governatorati di Marib, Jawf, Shabwa, Abyan e nell’Hadramaut, la presenza jihadista è diffusa e radicata: negli ultimi mesi dozzine di operativi sono affluiti dal Pakistan, dall’Afghanistan e dall’Arabia Saudita nelle basi e nei campi di addestramento yemeniti.
All’inizio del 2009 la minaccia terrorista si è concretizzata con la formazione di Al-Qaeda nella Penisola arabica, fondata da due jihadisti fuggiti dalla prigione di Sana’a, Nasser al-Wuhayshi e Qassim al-Reimi, e dal saudita Said al-Shihri, il detenuto 372 di Guantanamo (dove 90 dei duecento reclusi sono yemeniti) consegnato nel 2007 a Riyadh e scarcerato dopo un corso di riabilitazione. E’ stato il loro mentore, l’imam Anwar al-Awlaki, un americano yemenita che si nasconde nelle montagne di Shabwa, a reclutare Omar Faruk Abdulmutallab, il nigeriano che voleva farsi esplodere sul volo di Natale da Amsterdam a Detroit, e Nidal Maliki Hasan, lo psichiatra militare che in novembre ha ucciso 13 soldati americani nella base di Fort Hood.
Quanto basta per collocare lo Yemen sull’agenda rossa della lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti hanno deciso di raddoppiare gli aiuti (140 milioni di dollari, a rafforzare la discreta presenza di consiglieri militari, agenti della Cia e dell’Fbi); l’Arabia Saudita sborserà 2 miliardi; l’Europa, alla conferenza di Londra di fine gennaio, ha promesso di stanziare fondi per lo sviluppo, mentre l’Italia (con Finmeccanica) sta realizzando il sistema radar di controllo costiero e contrasto alla pirateria e ai traffici illegali. Una boccata di ossigeno per Saleh, accusato dall’opposizione di sfruttare la carta al-Qaeda per i suoi fini politici. E una scelta senza alternative per l’Occidente, allarmato dalla saldatura tra il nucleo storico di al-Qaeda e i nuovi jihadisti sull’arco regionale che si estende dall’Afghanistan al Corno d’Africa. Gli Shebab della Somalia hanno stretto un’alleanza strategica con i discepoli di Osama. E i 200 mila rifugiati somali ammassati nei campi yemeniti come Kharaz, a ovest di Aden, una polverosa distesa di tende e di baracche arroventate dal sole e flagellate dai monsoni, rischiano di cadere nella rete dei reclutatori di al-Qaeda.