Mogadiscio nightmare
La voce del muezzin si spegne con gli ultimi bagliori del tramonto: è il segnale della ritirata, quando la gente si barrica in casa e una notte popolata di incubi s’impadronisce di Mogadiscio. Le strade sono deserte. Le uniche luci sono i tremolanti neon delle insegne pubblicitarie, i tizzoni che inceneriscono nelle capanne di stracci degli sfollati e i fari dei gruppi elettronici degli accampamenti militari.
Uno sparo, poi una raffica di mitra. “Shabab” dice Hersi, che pigia sull’acceleratore mentre i ragazzi sul pianale della jeep fanno scattare la sicura dei Kalashnikov. “Dalle parti del Quarto chilometro. È meglio rientrare”.
Di Hersi mi posso fidare. Era la mia scorta negli anni della guerra civile e non è cambiato: sempre all’erta, sigaretta tra i denti, Beretta calibro 9 alla cintura. E lo stesso fatalismo nei confronti della vita anche quando mi racconta di suo figlio Yasin, ucciso da un commando integralista nel massacro del settembre 2013 ai grandi magazzini Westgate di Nairobi. Mi accompagna al Medina Gate, uno dei quattro accessi alla “zona verde” dell’aeroporto, presidiato dai soldati ugandesi dell’Amisom, la forza multinazionale africana. È qui che alloggio, in un compound difeso da barriere di cemento e guardie munite di granate e fucili automatici
Dopo le stragi del 14 e 28 ottobre (500 morti e un migliaio di feriti) Mogadiscio è di nuovo in trincea. Diplomatici e cooperanti sono asserragliati nella Fort Alamo dell’aeroporto, provvista di rifugi sotterranei a prova di bomba, dove sono confinate quasi tutte le ambasciate, le agenzie dell’Onu, le Ong, i comandi dell’Amisom e i militari americani ed europei che addestrano le forze somale. Nella “zona rossa” gli Shabab sono fantasmi. Ma sono dappertutto e in grado di colpire ovunque: alberghi, caserme della polizia, posti di blocco, ministeri, ristoranti, uffici pubblici.
Dalla caduta di Siad Barre nel 1991, decenni di ininterrotta guerra clanica e di lotte intestine hanno trasformato la Somalia nello stato fallito per antonomasia: un Paese che esiste solo sulla carta, distrutto nel tessuto sociale e nelle infrastrutture, minato dalla corruzione, frantumato dalle rivalità regionali, flagellato dalla siccità e dalle epidemie, spolpato delle sue scarse risorse, invaso da truppe straniere. In questo buco nero, nominalmente amministrato da una successione di governi in ostaggio alle milizie armate, sono scomparsi quattro milioni di somali: un milione e mezzo, in maggioranza civili, finiti al cimitero e nelle fosse comuni; due milioni e mezzo dispersi nella diaspora e nelle baraccopoli dei senzatetto.
A poco son serviti gli interventi della comunità internazionale, le fallimentari operazioni Restore Hope e Continue Hope, le conferenze di pace, gli sterili tentativi di riconciliazione, il costoso dispiegamento dei caschi blu delle Nazioni Unite e dell’Unione africana. Nel vuoto di potere hanno preso il sopravvento trafficanti d’ogni risma, profittatori, banditi prezzolati e la sola compagine organizzata del Paese: i fondamentalisti di al-Shabab. Gli emuli di al-Qaida, respinti dopo cruenti combattimenti ai margini dei principali centri urbani, non sono affatto sconfitti. Controllano le strade e i villaggi nel sud del Paese, il Basso Scebeli, il corridoio di Afgoye, le zone rurali a ridosso di Baidoa, Chisimaio, Johar, Balad. Le loro cellule, e i loro sponsor, sono ancora a Mogadiscio.
“La città pullula di spie e di infiltrati: nelle moschee, nella polizia, nel governo, in parlamento” sostiene Amin, ex dirigente dei servizi segreti. “Nessuno parla. Chi apre bocca è condannato a morte”. La sicurezza è uno dei grandi business della capitale. Amin ha fiutato l’affare e ha fondato una società privata: affitta scorte e auto blindate con i finestrini oscurati a mille dollari al giorno. Ministri, funzionari e commercianti vivono in case convertite in bunker, circondate da muraglie sormontate da reticolati di concertina, telecamere a circuito chiuso, altane di osservazione e nidi di mitragliatrici.
La “zona rossa” ostenta un’aria d’ingannevole normalità. Nuove costruzioni, palazzine imbiancate di fresco, scuole che funzionano. Ruspe e operai sono al lavoro per rimuovere le macerie degli edifici sbriciolati dalle ultime autobombe. Ma basta spingersi oltre i posti di blocco e inoltrarsi nei quartieri di Shingani e Hamar Weyne, nel cuore della vecchia città coloniale, per raggiungere le mura scheletriche della Cattedrale e i ruderi dei palazzi umbertini sul lungomare.
Resta ben poco della Mogadiscio italiana devastata dalla guerra. Qualche restauro è stato fatto: l’hotel Croce del Sud, l’ex palazzo del Governatore e l’ospedale De Martino, ristrutturato dai tecnici della nostra Cooperazione, che nelle intenzioni della ministra della Sanità Fawziya Abikar Nur dovrebbe diventare “il primo policlinico universitario del Paese”. Ma i caseggiati sfondati dalle bombe che si affacciano sull’ex corso Vittorio Emanuele sono in rovina. Gli sfollati hanno occupato gli uffici delle Poste, una banca, le aule dell’istituto Regina Elena.
Quella che avanza, inarrestabile, è la Mogadiscio turca. Le bandiere con la mezzaluna sventolano sul porto e sull’aeroporto, gestiti da società di Ankara; sull’ospedale Digfer, ribattezzato Erdogan in onore dell’unico capo di stato non africano ad aver messo piede in Somalia dai tempi di Siad Barre; sulla mastodontica nuova ambasciata al Lido; e sull’Anatolia Military Training Academy, la più grande base militare turca all’estero, inaugurata l’1 ottobre per addestrare diecimila soldati dell’esercito somalo.
Ankara ha sborsato 400 milioni di dollari per fronteggiare l’emergenza carestia, spedito migliaia di tonnellate di alimenti, inviato medici e aerei-ambulanza per soccorrere le vittime degli attentati, costruito scuole, strade, orfanotrofi. Non si tratta solo di aiuti disinteressati e di opportunità commerciali. Nell’ottica neo-ottomana di Recep Erdogan, la Somalia è un’utile pedina nella competizione con l’Arabia Saudita e gli Emirati per la supremazia geopolitica nel mondo arabo.
È il tardo pomeriggio e i ragazzi della scorta hanno cominciato a masticare il qat. Non fanno una piega quando dal finestrino di una Land Cruiser sbucata da un incrocio parte verso il cielo una secca raffica di Ak-47. Ma sono nervosi. Dobbiamo andare al Medina Hospital e ci sono quartieri che è meglio evitare anche di giorno: il Pastificio, il mercato del bestiame, il Quinto chilometro.
Al Medina arrivano i feriti: soldati caduti in un’imboscata alle porte di Mogadiscio, militari trafitti da schegge di granate. Il sottotenente Abdiwali ha un ginocchio spappolato. Mohamed Shek e Irat Farah hanno una pallottola nell’addome: il loro convoglio è stato attaccato a Basrah, sulla strada per Balad. Il sergente Ahmed Gosaar è saltato su una mina mentre era in pattuglia con le forze speciali americane nella foresta di Bulo Gudud. Poi ci sono i civili, centrati dai proiettili vaganti, dall’esplosione di un’autobomba o di un ordigno artigianale imbottito di chiodi e di bulloni. Come Liban, 14 anni, lustrascarpe, che ha perso la gamba destra nell’attentato del 28 ottobre. Come Bashara, 15 anni, che sta entrando in sala operatoria con un frammento di metallo nel cervello.
I bambini denutriti, i malati di aids, i pazienti affetti dalle malattie endemiche della Somalia – malaria, colera, tubercolosi – languono nei malconci reparti dell’unico ospedale pubblico della città, il Benadir, costruito quarant’anni fa dai cinesi: attrezzature arcaiche, spazzini che ramazzano i calcinacci nelle corsie danneggiate da un’autobomba, medici e infermieri senza stipendio. “È un disastro” sbotta il direttore, Abderizak Hassan Ali. “Non abbiamo un soldo. Compriamo i medicinali al mercato. Ci tassiamo per pagare le guardie. Qui a nessuno interessa la vita della gente: la sanità è un pretesto per rubare. E la mortalità infantile è tra le più elevate al mondo!”
Il senatore Osman Mohamud Dufle, un gastroenterologo che per il suo impegno umanitario è stato nominato al premio Nobel per la pace, non si dà per vinto. “Dobbiamo rifondare le basi della società” dice. “Spezzare l’intreccio tra affarismo, corruzione e criminalità. È la miseria a spingere i giovani nelle braccia di al-Shabab”.
Mohamed Jama, sei fratelli, disoccupato, non è mai andato a scuola. Aveva 12 anni quando è stato arruolato. Lo incontro nel centro di riabilitazione dell’ong Iida, sventrato dal camion-bomba del 14 ottobre (“Braccia, piedi, una testa mozzata: troviamo di tutto tra i rottami” dice Maryam, volontaria dell’Iida). “È stato un amico a convincermi” racconta Mohamed. “Diceva che se uccidevamo gli infedeli saremmo andati in paradiso. Ci davano dei soldi per bastonare chi non andava in moschea. I più grandi avevano pistole e bombe a mano. Nel nostro gruppo eravamo in sei. Stavamo dalle parti del mercato, ma cambiavamo spesso alloggio”. Mohamed si è tirato fuori, ma centinaia di ragazzi alla deriva finiscono nella rete jihadista: manovalanza a basso costo, inconsapevoli pedine destinate al martirio. Perché a Mogadiscio sono sempre i warlords a comandare, anche se è passato il tempo delle cannonate e delle “tecniche” con la mitragliatrice sul cofano.
Oggi i signori della guerra vestono giacca e cravatta, viaggiano in business class tra la Somalia e gli Stati Uniti, l’Europa, Dubai. E fanno soldi a palate col commercio, l’edilizia, i trasporti, le telecomunicazioni. Ma i metodi non sono cambiati: estorsioni, sequestri, esecuzioni sommarie. Al mercato di Bakara non si trovano più granate e munizioni: se serve un AK-47 o un lanciarazzi basta una telefonata. Servizio a domicilio, come ordinare una pizza o un cappuccino.
Il dollaro regna sovrano. I bisunti scellini somali si vedono solo nei campi profughi. E nel caos, gli affari vanno a gonfie vele. Il presidente Abdullahi Mohamed “Farmajo” e il primo ministro Ali Khayre, tecnocrati laici e pragmatici, subiscono forti pressioni dalle lobby che prosperano nell’economia di guerra e puntano a indebolire il governo federale in carica dalla scorsa primavera. “I vecchi warlords si sono riciclati” sogghigna Hersi. “Mussa Sudi e Abdi Qaybdid si sono comprati un seggio in parlamento; e Bashir Raghe ha vinto un appalto per la sicurezza con l’Amisom”. Arricchirsi è facile nel Paese fallito diventato il Paese di Bengodi: niente tasse, fatture, interessi bancari, niente fastidiosi controlli doganali. La protezione è garantita da al-Shabab, che su ogni attività riscuote il pizzo: dai politici, dai commercianti, dalla società telefonica, dai camionisti, dagli impiegati, dai poliziotti. Chi non paga, paga col sangue.
Anche la fame è un affare. Al-Shabab ricatta le organizzazioni umanitarie e impone pesanti imposte sul trasporto e la distribuzione degli aiuti, che solo in minima parte arrivano a destinazione. Senza contare le altre fonti di reddito: pirateria, traffico di droga, armi, avorio e medicinali; finanziamenti elargiti dalle associazioni “benefiche” wahhabite; e i 12 milioni di dollari l’anno del contrabbando di carbone di legna, in cui sono coinvolti i militari kenyoti di stanza a Chisimaio.
Da qualche mese gli Stati Uniti hanno intensificato l’impiego dei droni e irrobustito le unità speciali dispiegate in Somalia. Con scarso successo. Nel Puntland la fazione dissidente di al-Shabab dello sceicco Abdulkadir Mumin, che ha giurato fedeltà all’Isis, si rafforza reclutando i transfughi dello stato islamico sconfitto in Siria e in Iraq. E in Kenya è guerra aperta tra l’esercito e i gruppi jihadisti che dai loro covi nella foresta al confine somalo e nelle città rivierasche attaccano caserme e veicoli della polizia, autobus, chiese, negozi, campus universitari, alberghi frequentati da “infedeli”. Da Lamu a Mombasa, e più a sud in Tanzania, moschee e madrase salafite si moltiplicano e fanno proseliti.
All’aeroporto di Malindi, dove gli alberghi chiudono e la comunità italiana fa le valigie, decollano gli elicotteri delle squadre antiterrorismo addestrate dagli israeliani. Ma nessuno sembra in grado di estirpare la metastasi che da trent’anni affligge la Somalia e si propaga lungo le torride coste dell’Oceano Indiano.