Giovanni Porzio – da Beirut
Sulle alture di Khiam il posto d’osservazione dell’Unifil era inconfondibile: un edificio dipinto di bianco, circondato da un muro e da un reticolo di filo spinato, con il vessillo azzurro delle Nazioni Unite issato sulla torretta d’avvistamento. Le sue coordinate erano note dal 1978, quando i caschi blu presero posizione nella “fascia di sicurezza” conquistata da Tsahal. Ma il 26 luglio l’indifesa base dei peacekeeper, nonostante i ripetuti avvertimenti lanciati dai comandi Onu, è stata centrata da un missile israeliano: quattro morti, un canadese, un austriaco, un cinese e un finlandese, che si aggiungono ai 244 militari stranieri caduti nell’adempimento della loro missione.
I rischi, per i soldati italiani in partenza per il Libano, sono elevatissimi. Dovranno presidiare il fronte più caldo del Medio Oriente: una zona grigia che i 20 mila miliziani di Hezbollah hanno trasformato in un campo di battaglia da cui non intendono smobilitare e su cui Israele è decisa a mantenere una assoluta supremazia aerea e terrestre. “La fascia a sud del Litani è una polveriera” spiega Timur Goksel, che è stato per vent’anni portavoce dell’Unifil. “La tregua è già stata violata. E il ruolo dei caschi blu non è chiaro: se cercheranno di interporsi con le armi, saranno considerati dagli sciiti forze di occupazione. E finiranno nel mirino della guerriglia”.
La strada che da Marjayoun sale a El-Khiam, verso le montagne della Siria, è sventrata dai crateri delle bombe. E il villaggio è un cumulo di rovine. I caccia si sono accaniti contro il carcere dove negli anni Novanta gli israeliani avevano rinchiuso centinaia di libanesi. “Era diventato un museo” dice Bilal, responsabile locale di Hezbollah. “Hanno voluto cancellare la memoria dell’occupazione”. Ma la prigione era anche qualcos’altro: nel piazzale sono ancora posizionati un mortaio da 120 millimetri e una batteria di Katyusha.
Lungo la “linea blu” a ridosso del confine le distruzioni sono impressionanti. Interi villaggi sono rasi al suolo: case, scuole, moschee, ospedali, ponti, caserme, edifici pubblici, pompe di benzina. Le vie sono deserte e il silenzio è agghiacciante: si sente solo il ronzio dei droni, gli invisibili aerei spia senza pilota, che scrutano e registrano ogni movimento sospetto. Dalle macerie esala un fetore di morte: cadaveri insepolti, gasolio, immondizia, cibo avariato.
A Kfar Kila la strada rasenta l’Alta Galilea. La Porta di Fatima, il varco che per 22 anni aveva permesso a migliaia di libanesi di recarsi a lavorare in Israele, è chiuso da una barriera di blocchi di cemento. Le villette dell’insediamento di Metulla e le altane del kibbutz di Manara sono a poche centinaia di metri: a tiro di Kalashnikov e di Katyusha. Sulle creste delle colline s’intravedono le postazioni dell’artiglieria e dei reparti corazzati. Nel cielo volteggiano i palloni aerostatici equipaggiati con sistemi elettronici di rilevamento radar. Nella vallata corre la linea del confine: campi minati e sbarramenti elettrificati, piste percorse da mezzi blindati, reticolati che tagliano gli uliveti e le coltivazioni abbandonate.
Maha, la giornalista del quotidiano libanese Al-Akhbar che mi accompagna, è in apprensione: ci stiamo avvicinando a Markaba, il suo villaggio, teatro di violenti combattimenti. Sui casolari sbriciolati dalle granate, sui bunker, su ogni altura e su ogni scheletro di minareto sventola la bandiera gialla con il Kalashnikov del Partito di Allah. Qui l’esercito libanese non è ancora arrivato. L’asfalto è divelto dai cingoli dei Merkava. Camminiamo su un tappeto di bossoli e di schegge di proiettili, scavalcando i rottami dei veicoli carbonizzati: la casa di Maha è ancora in piedi, sforacchiata dai colpi, ma risparmiata dai missili. Riusciamo persino a preparare un tè, nella cucina ingombra di detriti, vetri rotti e calcinacci. “Mio padre insegna letteratura araba all’università di Beirut” racconta Maha, che insiste per innaffiare il giardino. “Ha piantato lui gli alberi da frutto, dopo il ritiro degli israeliani nel 2000. Questa è la nostra terra, ma solo Hezbollah è stato in grado di difenderla”.
Più a sud, nei pressi di Ait Aroun, incrociamo una pattuglia di soldati israeliani. Avanzano con circospezione, a piedi, lungo il corso di un wadi in secca in direzione del confine. Nascosti da un edificio diroccato i miliziani sciiti li osservano con potenti binocoli militari. “Non ci fanno paura” dice Selim, che indossa una T-shirt con il ritratto dell’imam Khomeini. “Li abbiamo già sconfitti due volte: li sconfiggeremo ancora. Nessuno riuscirà a disarmarci, né i caschi blu né l’esercito libanese. Se ci proveranno ne pagheranno le conseguenze”.
I bombardamenti israeliani non hanno fiaccato la determinazione dei miliziani di Hassan Nasrallah e non hanno inferto il preventivato colpo mortale al potenziale offensivo di Hezbollah, che dallo scontro è uscito rafforzato (insieme ai suoi padrini iraniani) sullo scacchiere politico arabo e nazionale. Decine di bunker e di postazioni sono state distrutti e le linee di rifornimento con la Siria sono per ora interrotte. Ma la struttura armata del Partito di Allah, la più grande, disciplinata e meglio addestrata forza paramilitare nella regione, sembra in grado di riequipaggiare in fretta il micidiale arsenale di Rpg, mortai, esplosivi al plastico, mine telecomandate del tipo Claymore, a raggi laser o a cellula fotoelettrica, e missili anticarro a elevata precisione forniti dall’Iran.
I soldi non sono un problema. Alle generose sovvenzioni degli ayatollah di Teheran si aggiungono i proventi delle innumerevoli attività economiche, commerciali e finanziarie del Partito, che ha cominciato a distribuire consistenti aiuti agli sfollati e a ricostruire gli edifici bombardati nel sud e nei quartieri meridionale di Beirut. Le ruspe sciite sono già al lavoro. A una settimana dalla fine delle ostilità i militanti di Hezbollah, armati di telecamere, lap top e mappe catastali, hanno completato il censimento dei danni: 200 edifici distrutti e 300 sinistrati nella capitale, 260 nella Bekaa, 20 mila nel sud del Paese. A ogni famiglia vengono garantiti 12 mila dollari per l’affitto di un appartamento, con la promessa di una nuova casa entro un anno: un’efficienza organizzativa e una tempestività che stridono con l’immobilismo del governo di Beirut, paralizzato dalle divisioni interne e costretto a riconoscere in Hassan Nasrallah, come ha detto il presidente filosiriano Emile Lahoud, “l’artefice di una vittoria per tutti i libanesi e i popoli arabi”.
Anche Aicha, 60 anni e due figli “martiri” nei combattimenti, non ha dubbi. Seduta di fronte alla sua casa sbriciolata dai missili alza le dita in segno di vittoria: “Allah è il più grande! Possono distruggere gli edifici ma non la nostra volontà di resistenza”. Bint Jbeil è una città fantasma. Un asino ferito si aggira tra le rovine. Un vecchio osserva quel che resta del suo negozio di verdura. Un bambino rovista tra le macerie da cui affiorano orsacchiotti di pezza, quaderni di scuola e bambole senza testa. All’ospedale bombardato, privo d’acqua e di corrente elettrica, un medico cerca di infilare l’ago di una flebo nel braccio rinsecchito di una donna di 85 anni rimasta per sei giorni senza bere e senza mangiare. “Vogliamo vivere in pace” dice il dottor Abed Raraj, dirigente di Hezbollah. “Ma se saremo attaccati risponderemo colpo su colpo. E non sarà certo l’Onu a fermarci”.
Sulla strada tra Ait ech-Chaab e Naqoura, quartier generale dell’Unifil, incontriamo le avanguardie dell’esercito libanese in fase di dispiegamento e qualche jeep di spaesati caschi blu indiani e pachistani. Gli unici a muoversi con disinvoltura sono i miliziani di Hezbollah. Qui sono nati e cresciuti, tra le aride valli e le colline di cui conoscono ogni anfratto. Qui hanno combattuto per quasi trent’anni. Qui il Partito di Allah, in asseza di un potere centrale, ha costruito il suo stato semi-indipendente, con la sua giustizia islamica e le sue scuole religiose, ma anche con gli ospedali, gli asili, la polizia, i giornali, la tv, i centri di assistenza per le vedove e gli anziani: la rete di protezione sociale che costituisce la base del crescente consenso popolare di cui gode.
Ad Aalma ech-Chaab, a poche centinaia di metri dal confine, abitava un’esigua comunità maronita. Padre Maroun Ghafary è angosciato: “Sono fuggiti tutti e non so se torneranno. Noi cristiani siamo tra due fuochi: appoggiamo la resistenza ma al tempo stesso temiamo che le correnti integraliste puntino alla creazione di una repubblica islamica. Speriamo che i soldati italiani possano contribuire a riportare la pace”. Ma intanto la guerra continua a uccidere i civili. Cinque bambini sono già morti nei dintorni di Nabatiya per lo scoppio di alcuni ordigni inesplosi.
Tra le macerie di Saddiquin, dove gli sfollati cominciano a tornare, e a Qana, dove un raid aereo ha seppellito il 30 luglio 28 civili (16 bambini), dobbiamo fare attenzione a dove mettiamo i piedi: l’artiglieria israeliana ha disseminato migliaia di “cluster bombs”. Di forma cilindrica e di piccole dimensioni, con un nastrino di stoffa attaccato alla spoletta detonante, sono difficili da individuare e letali come le mine antiuomo: un’altra insidia di cui i militari della forza multinazionale dovranno tener conto nei loro spostamenti.
Ma la minaccia più seria per i caschi blu è il probabile deterioramento del contesto politico libanese. Se Washington non abbandonerà la chimera del “nuovo Medio Oriente” impegnandosi in un dialogo costruttivo con Teheran e Damasco, un nuovo conflitto sarà inevitabile. Una strategia puramente militare, imperniata sul rafforzamento dell’esercito libanese, finirebbe per spingere Hezbollah e le forze armate regolari in una pericolosa rotta di collisione.