Giovanni Porzio – da Nzara, Sud Sudan (15.01.11)
Gli orrori di una guerra insensata lampeggiano nello sguardo di Giovanna Calabria, superiora della missione comboniana di Nzara, cittadina di 20 mila anime nella remota regione sudanese dell’Equatoria, al confine con la Repubblica democratica del Congo: “Gli attacchi dei miliziani ugandesi dell’Lra, il Lord’s Resistance Army, sono cominciati nel 2008 e non sono mai cessati. Qui i profughi sono più di 80 mila. Arrivano sfiniti da giorni di cammino nella foresta. Raccontano di villaggi rasi al suolo, di bambini bruciati vivi nelle capanne, di ragazze stuprate, di donne incinte tagliate a pezzi”.
Suor Giovanna, 66 anni, veronese, conosce bene i ribelli dell’Lra: prima di trasferirsi a Nzara, nel 2002, ha trascorso 13 anni nel nord dell’Uganda. “Rapiscono i ragazzini” dice trattenendo a stento la rabbia “e li addestrano a uccidere senza pietà; se tentano la fuga e vengono ripresi non hanno scampo, li sopprimono immediatamente. Obbligano i figli a bastonare a morte i genitori. Costringono le madri a ridurre in poltiglia i neonati pestandoli nei mortai che si usano per frantumare la cassava. E’ il diavolo che li guida!”
Un demonio che fin dal 1986 ha il nome di un invasato che si attribuisce poteri magici e che vagheggia uno stato fondato sui Dieci comandamenti: Joseph Kony, ricercato per crimini contro l’umanità dal Tribunale internazionale dell’Aja. Il suo Esercito di resistenza del Signore è sconfinato dall’Uganda, seminando il terrore in Congo, Repubblica centraficana e Sud Sudan con un bilancio, solo negli ultimi due anni, di 2.300 morti, 400 mila sfollati e 3 mila civili rapiti.
Le sette suore della missione cattolica di Nzara sono l’unica speranza per le vittime del conflitto. “Abbiamo un programma di distribuzione del cibo” spiega suor Giovanna. “Gestiamo una scuola e un asilo per mille bambini e all’ospedale della diocesi combattiamo la lebbra, la malaria, la tubercolosi, l’hiv. Molti bambini sono sieropositivi. E il tasso di aids è elevato tra le ragazze violentate dai miliziani: somministriamo farmaci antiretrovirali a più di duemila donne”.
Maria è una ragazzina tornata dall’inferno: è riuscita a scappare dopo un anno passato in balìa dell’Lra. E’ stata stuprata e picchiata. L’Unicef l’ha affidata a una famiglia nel campo profughi di Makpandu. Ha solo 14 anni. “Mi hanno rapita mentre andavo al fiume” racconta. “C’erano molti bambini nella foresta. Camminavamo sempre e dormivamo negli accampamenti. I maschi dovevano combattere. Le femmine dovevano cucinare e andare nelle tende dei soldati per il sesso. Ho visto uccidere molta gente. Legavano i prigionieri agli alberi e li finivano a bastonate, per non sprecare le munizioni”.
Le incursioni dell’Lra nell’Equatoria non sono una priorità per il governo autonomo del Sud Sudan. Dopo 22 anni di guerra civile e oltre 2 milioni di morti il referendum del 9 gennaio, che a scrutinio ultimato sancirà la secessione del sud cristiano dal nord musulmano, è infatti destinato a lasciare irrisolti quasi tutti i problemi che affliggono il più grande paese del continente africano: la definizione dei confini tra le due nuove entità politiche, la gestione delle acque del Nilo, la spartizione dei proventi petroliferi, il conflitto nel Darfur, i radicati antagonismi tribali. E il presidente nordista Omar al-Bashir, anch’egli inseguito da un mandato di cattura del Tribunale dell’Aja per i crimini commessi in Darfur e costretto dalle pressioni internazionali a firmare nel 2005 gli accordi che hanno portato al referendum, non sembra disposto ad agevolare l’immane compito assunto da Salva Kiir, l’ex guerrigliero del Southern people’s liberation army che in luglio sarà proclamato presidente del nuovo stato a maggioranza cristiana.
Fino a cinque anni fa Juba, la futura capitale, era un villaggio di capanne. Oggi è un cantiere dove si costruiscono a tappe forzate ministeri, banche, alberghi, scuole. Ma nonostante i 6 miliardi di dollari elargiti da Washington, il Sud Sudan resta una delle zone più depresse al mondo: l’80 per cento della popolazione è analfabeta e più del 60 per cento vive sotto la soglia di povertà; le strade asfaltate – in un paese vasto come la Francia e privo di sbocchi al mare – sono inesistenti e la maggior parte delle derrate viaggia in chiatte sul Nilo come ai tempi di Gordon Pasha; la corruzione e l’incompetenza della polizia e del personale amministrativo sono già proverbiali; e la malnutrizione è endemica: nei primi dieci mesi del 2010 Medici senza frontiere ha ricoverato 13.800 persone affette da grave malnutrizione, il 20 per cento in più rispetto al 2009. E nel distretto di Malakal è in scoppiata un’epidemia di Kala-azar: una malattia che se non curata è fatale in quasi il 100 per cento dei casi.
A Nzara, lo scorso anno, i ribelli sono arrivati a tre chilometri dalla missione di suor Giovanna. “Ma se siamo ancora vive” dice “lo dobbiamo ai militari ugandesi e agli Arrow Boys, le milizie di autodifesa. Non certo all’esercito del Sud Sudan, che qui è del tutto assente”.
Bangui, a tre ore di cammino dalla missione, è una delle basi degli Arrow Boys, che oltre ai pochi Kalashnikov, ai machete e ai rudimentali fucili fatti in casa utilizzano archi e frecce avvelenate. Sono una ventina: bivaccano sotto il tetto di paglia di una chiesa saccheggiata assieme a un reparto militari ugandesi. Peter Kassu, il loro capo, spiega a Panorama: “Perlustriamo la zona di confine alla caccia dei ribelli. La gente è fuggita, ha paura. In foresta le imboscate sono improvvise: la scorsa settimana sono scomparsi altri due ragazzi”.
I profughi dicono di avere visto piccoli aerei ed elicotteri atterrare nelle radure e scaricare armi per le bande di Kony. Suor Giovanna non si dà pace: “Non si vede una fine, e non si capisce perché. A pagare sono i più deboli: civili innocenti che non sanno neppure perché vengono uccisi, perché devono scappare. Non possiamo chiudere gli occhi. Come è possibile che un gruppo senza legge e senza uno scopo possa massacrare dei bambini e bruciare interi villaggi nella più assoluta impunità? Bisogna por fine a tutto questo. E io prego che qualcuno lo faccia”.