Talibanistan
Le strade dell’Afghanistan erano off limits durante la guerra. Si potevano tentare sortite nei dintorni di Kabul o nel Panjshir controllato dalle milizie tajike. Ma nelle aree più calde si andava solo “embedded” con le forze della coalizione, col giubbotto antiproiettile e su blindati a prova di Ied, i micidiali ordigni artigianali. Adesso a Herat, prima tappa del mio viaggio, non ho bisogno della scorta. Heysan, che studia legge e per arrotondare fa il tassista, si è tolto i jeans per indossare il sirwal kamiz: “Misura precauzionale” dice. “Non si sa mai con i taliban, molti sono istruiti ma con quelli che vengono dalle montagne è impossibile parlare”.
Andiamo a Shaydai, uno dei campi dove si sono sistemate novemila famiglie di sfollati. Abituri di fango, galline, qualche pecora. Gli anziani, seduti in cerchio, elencano i problemi: niente cibo, poca acqua, niente soldi. Dentro le casupole, piene di ragazzini scalzi e malnutriti, gl’infermi giacciono su stuoie o sulla nuda terra. Babur Pashtuk è in lacrime: suo figlio Ulam è stato ucciso al confine dalla polizia iraniana e lui non ha il denaro per recuperare la salma e seppellirla.
Il vento dell’inverno solleva nuvole di polvere giallastra. La siccità si è mangiata la metà dei raccolti e milioni di afghani sono alla fame. Medici senza frontiere gestisce un centro per bambini denutriti all’ospedale di Herat: il reparto di terapia intensiva registra un aumento del 40 per cento dei casi. Quasi tutti i piccoli ricoverati hanno anche altre patologie: anemia, danni cerebrali, meningite, malformazioni cardiache. Monawwara, una mamma della provincia di Ghor, tiene in braccio Mahdi, 2 anni, ultimo dei suoi sei figli, cerebroleso e cardiopatico. “È meglio se muore” dice piangendo. “Non posso fare niente per lui”.
Quando lo scorso agosto i taliban hanno conquistato Kabul gli aiuti internazionali, il 75 per cento della spesa pubblica, sono di colpo cessati: le casse dello stato sono vuote, il sistema sanitario è al collasso, impiegati, insegnanti, medici e infermieri sono senza stipendio, mentre i prezzi della farina e della benzina sono raddoppiati. Nelle campagne è anche peggio.
Il villaggio di Chappata è la roccaforte della “rete Mukhtar”: il suo emiro, Safiullah, ucciso da un drone, comandava oltre 300 insorti. Un talib mi guida tra i ruderi delle case e i minuscoli appezzamenti seminati a zafferano, l’unico prodotto che rende quanto l’oppio, fino alla necropoli dei martiri: un recinto di lapidi conficcate in tumuli di pietre su cui sventolano foulard multicolori. L’Afghanistan rurale è un Paese di cimiteri e di case in rovina. Ci sono tombe ovunque, lungo le strade, sui fianchi delle colline, tra gli orti, nel deserto.
“Gli americani hanno ucciso tanta gente” dice l’ottantenne maulawi Abdel Sattar, l’autorità religiosa locale. “Sono felice che la guerra sia finita. Però non c’è lavoro e da mangiare abbiamo solo un po’ di pane”. Nella scuola non ci sono bambini: devono zappare la terra o salire a far legna sui monti.
Alla biglietteria dell’autobus per Lashkar Gah parlano solo il pashtu. Mi aiuta Nasir, che per anni ha gestito lo spaccio nella base italiana di Camp Arena. Sono una quarantina i collaboratori del nostro esercito che non hanno potuto essere evacuati nei giorni caotici della caduta di Kabul. Hanno i documenti, i contratti, gli attestati di benemerenza firmati da colonnelli e marescialli. “Siamo stati dimenticati e abbiamo paura delle rappresaglie” protestano. “Dalla Farnesina e dal ministero della Difesa abbiamo ricevuto solo una mail con vaghe rassicurazioni”.
Sull’autobus non ci sono altri stranieri. Il traffico è scarso: poche auto e camion che procedono con lentezza sotto il peso di balle di cotone, carburante e informi ammassi di rifornimenti. Poco è cambiato su questa carrozzabile negli ultimi vent’anni: l’asfalto, i taliban ai check point, i pannelli solari per le pompe d’irrigazione e i cellulari costantemente accesi dei viaggiatori. I villaggi sono sempre senza luce elettrica, i bazaar di catapecchie vendono badili, attrezzi da lavoro, abiti usati e benzina in bottiglie da un litro.
A Farah, teatro di sanguinosi scontri con i militari italiani, si fa sosta per la preghiera. Gli uomini scendono in fretta, fanno le abluzioni e s’inginocchiano verso la Mecca. Io resto a bordo con le donne e i bambini. Qui la strada si biforca: un ramo piega a ovest verso Zaranj e il confine iraniano, una delle principali rotte del contrabbando di droga; l’altro prosegue per Lashkar Gah. In città il conducente cambia le frequenze della radio: al posto della musica, versetti del Corano.
Il responsabile della sanità pubblica dell’Helmand, Al-Ghazi Mawli, barba nero pece, naso adunco e longi immacolato, mi offre un’auto, un interprete e un consiglio: “Se vuole vedere come siamo ridotti deve andare a Marjah”.
Era il febbraio 2010 quando 15.000 soldati afghani e dei contingenti ISAF furono dispiegati a Marjah con l’obiettivo di eliminare il bastione della resistenza talibana nel sud del Paese. Nelle intenzioni dei comandi l’Operazione Moshtarak, la più imponente offensiva dell’intero conflitto, doveva segnare “l’inizio della fine” per gli insorti. Segnò invece la fine delle illusioni. Dopo dieci mesi di combattimenti, le forze Nato ripiegarono e i taliban ripresero il controllo del territorio. Da quel momento fu chiaro, anche alla Casa Bianca, che la guerra non poteva essere vinta: Barack Obama abbandonò la strategia del “surge” caldeggiata dal Pentagono in favore di un graduale disimpegno.
Ora a Marjah, sulle macerie del bazaar e sulle torrette di un ex avamposto della polizia, sventolano le bandiere bianche dell’Emirato. La scuola bombardata non è mai stata ricostruita. E nell’unica clinica un medico e due infermieri si arrangiano con i pochi farmaci a disposizione, accatastati alla rinfusa su un polveroso scaffale. Le pareti sono sforacchiate dai proiettili, i vetri sono andati in frantumi, i bagni non funzionano, non ci sono letti e non c’è corrente elettrica. “Non abbiamo antibiotici” lamenta il dottor Nakibullah Naim. “E nemmeno l’acqua per lavarci le mani”.
Nell’Helmand la principale risorsa è il taryak, l’oppio: l’Afghanistan produce quasi il 90 per cento del totale mondiale e le piantagioni hanno continuato a espandersi durante il conflitto alimentando la sola industria del Paese che non è mai andata in crisi. Ma i contadini tirano la cinghia. Nel suo terreno, Hayatullah coltiva frumento e papaveri: “Un chilo di grano vale mezzo dollaro, un di oppio 100. L’anno scorso abbiamo venduto 28 chili, ma i costi sono elevati: dobbiamo usare i pannelli solari per attingere l’acqua dai pozzi, che sono sempre più profondi. Siamo molto poveri. Mangiamo pane, yogurt, un po’ di fagioli e verdure. Ai miei figli non posso dare né riso né carne né frutta. Costano troppo”.
Hayatullah ricorda bene il giorno del raid, quando un caccia sganciò il missile. Aveva 8 anni e in una frazione di secondo perse i nonni, lo zio, tre sorelle e due fratelli. “Con i taliban c’è più sicurezza” dice. “Ma la povertà aumenta di giorno in giorno. Gli americani hanno speso miliardi di dollari per distruggere l’Afghanistan ma non hanno fatto niente per aiutarci. I soldi per le scuole e gli ospedali sono finiti nelle tasche dei governanti corrotti di Kabul. Per noi, solo missili e pallottole”.
A Lashkar, nonostante la fine dei combattimenti, i feriti continuano ad arrivare all’ospedale di Emergency: coltellate, armi da fuoco, traumi da caduta, proiettili vaganti, mine antiuomo. E al Boost Hospital, il più grande della regione, lo staff è in emergenza: 70 parti al giorno, 700 visite ogni 24 ore. Nel reparto malnutrizione le mamme cullano tra le braccia bambini con la pelle incollata allo scheletro, il ventre gonfio e le pupille dilatate. Le incubatrici ospitano fino a tre neonati. Un’infermiera fa il possibile per salvare una piccola dalla carnagione cerea: massaggio cardiaco, ossigeno, adrenalina. Poi si deve arrendere.
Nel taxi siamo in otto, due nel baule, e in tre ore siamo a Kandahar, la “capitale del sud” dove il mullah Omar si proclamò Amir al-Muminin, Comandante dei Credenti. Il vasto mondo pashtun ha accolto con sollievo la vittoria talibana e la fine delle ostilità. Soprattutto nelle zone rurali, dove le guerre, la calata e la partenza degli eserciti stranieri non hanno modificato le secolari condizioni di abietta povertà. È nelle città più sviluppate, a Kabul come a Herat e a Mazar-i Sharif, che i taliban avranno difficoltà a imporsi. Il loro islam, intriso di precetti mutuati dal pashtunwali, il millenario codice di vita e di comportamento delle tribù pashtun, è estraneo alle altre etnie e intollerabile per l’emergente ceto medio urbano e per i giovani nati dopo il 2001. In vent’anni decine di migliaia di ragazze hanno ricevuto un’istruzione: internet e i nuovi media hanno abbattuto molte barriere sociali e culturali.
Mohammed, l’autista che mi porta a Kabul, ha solo 23 anni ma ha già una moglie scelta dalla famiglia e due figli. Siamo partiti alle 5 e all’alba la luce fredda del mattino svela le devastazioni della guerra: case diroccate, ponti crollati, tralicci abbattuti, veicoli carbonizzati, caserme sventrate dai bombardamenti. Incrociamo jeep cariche di miliziani armati, ma ai check point passiamo senza problemi: “Kharijì!”, straniero! Una stretta di mano e ci fanno proseguire.
La ritirata dell’Occidente apre incerti scenari strategici. L’India ha perso un alleato a vantaggio del Pakistan e della Cina, che consolida il proprio ruolo di potenza regionale. Nel nuovo Great Game si affacciano anche Russia e Turchia, mentre Stati Uniti ed Europa restano, per ora, alla finestra. Il bislacco proposito di trasformare l’Afghanistan in uno stato centralizzato è fallito, come tutti i tentativi in tal senso fin dai tempi delle infauste spedizioni britanniche del XIX secolo. L’Afghanistan è sempre stato un territorio frammentato, controllato da capi tribali la cui autorità si fonda su legami di sangue ed precarie alleanze. Una logica alla quale non si sottraggono neppure i taliban: i contrasti, per ora sopiti, tra i moderati dell’ala politica e della shura di Quetta e i leader delle fazioni più intransigenti, come il network Haqqani, possono riesplodere in qualsiasi momento.
A fare vittime, adesso, sono le “bombe magnetiche”, ordigni posizionati da mani ignote sotto i veicoli. Quasi ogni giorno a Kabul ne esplode una, squarciando un’auto, un minivan, una jeep della polizia islamica. Difficile individuare i responsabili. L’Ispk, il ramo afghano dello Stato islamico, prende generalmente di mira i luoghi affollati, ma non si può escludere che stia ricorrendo anche a omicidi mirati. Altri indiziati sono i panjshiri dell’effimera resistenza anti-talibana, ma non ci sono prove. E c’è già chi accusa i soliti sospetti: agenti di potenze straniere interessate a destabilizzare il Paese. Ci sono poi, inevitabile strascico della guerra civile, le vendette e le esecuzioni sommarie.
Sami Jahesh, inviato di Ariana News, mostra sul suo smartphone l’editto che condanna a morte i reporter sgraditi: nell’elenco c’è anche il suo nome. “Più di cento giornalisti sono stati uccisi negli ultimi vent’anni” racconta. “Venti solo nel 2021, di cui quattro della nostra tv. Io sono stato arrestato tre volte, mi hanno torturato e mi hanno intimato di non andare più in video”.
Marina Nasery, cinque figli, il marito morto nell’esplosione di un’autobomba, deve nascondersi: era un soldato e indossava la divisa dell’esercito. “Una mia collega” dice “è stata assassinata. Al ministero della Difesa ci sono i files con i nostri nomi e indirizzi. Devo cambiare di frequente abitazione e quando esco di casa mi copro con il burqa. Mi aiutano gli amici e l’ong italiana Nove”. Marina ripiega l’uniforme militare e la chiude nella fodera di un cuscino. Le chiedo se non è rischioso tenerla in casa. “Se i taliban la trovano sono finita. Ma chissà, forse un giorno mi potrà servire”.
Sono in molti, e non solo le donne, a soffrire col nuovo regime. Sportivi come Abdul Razaq Ayam, 21 anni, medaglia di bronzo ai Giochi islamici di Baku del 2017 nell’arte marziale del wushu: la palestra dove si allenava è chiusa e non potendo ottenere i visti (nessun Paese ha ancora riconosciuto il governo talibano) non può partecipare alle competizioni all’estero. Artisti come Ehsan Azizi, disoccupato e costretto a cantare sottovoce tra le mura di casa ora che i taliban hanno vietato la musica nei locali pubblici.
Kart-e-Naw è uno dei quartieri più poveri della città. Tra mucchi di rifiuti e fetidi canali di scolo un vecchio autobus funge da clinica mobile: “Forniamo un’assistenza di base” spiega la dottoressa Arzo Azizi, responsabile del progetto “Abbiamo un team che garantisce un parto sicuro in casa. Cerchiamo soprattutto di cambiare la mentalità della gente. Qui le donne fanno un figlio dopo l’altro, sono malnutrite e le famiglie non vogliono che le ragazze vadano a scuola”.
Nel distretto 12 Nove Onlus distribuisce viveri a 200 famiglie vulnerabili: olio, farina, zucchero, riso e fagioli. Ma il numero degli indigenti è impressionante. Secondo l’Unhcr i rifugiati interni sono più di 4 milioni e almeno 20 milioni di afghani non hanno cibo a sufficienza: molti sfollati, nonostante un decreto del leader supremo dei taliban Hibatullah Akhunzada che vieta i matrimoni forzati, danno in spose le figlie minorenni in cambio di denaro per sfamarsi.
Entro in una catapecchia di mattoni crudi dove vivono 10 persone. Le porte sono lenzuoli sudici inchiodati agli stipiti, le finestre sono fogli di plastica. Non c’è acqua, non c’è luce, non ci sono servizi igienici. E la stufa è spenta. “Non ho i soldi per la legna” dice il capofamiglia, che guadagna un euro al giorno come facchino. “Scaldiamo l’acqua bruciando la carta che troviamo nella spazzatura”.
Ultima tappa è il Panjshir. L’accesso alla valle, feudo di Massud e forche caudine dell’Armata Rossa, è un budello stretto tra scoscese pareti rocciose. L’arco di granito che segna l’ingresso, fiancheggiato da due pezzi d’artiglieria, è presidiato dai taliban, che hanno strappato i ritratti del leggendario comandante tajiko. Per visitare la sua tomba devo munirmi di un lasciapassare, un foglietto vergato a mano dal mullah Haji Musafer: i suoi mujahiddin sono i nuovi padroni e scorrazzano trionfanti per la valle a bordo di Toyota con le bandiere dell’Emirato.
Il mausoleo è deserto e i taliban di guardia mi seguono sospettosi. Le fontane sono asciutte, i marmi sbrecciati, nella moschea e nell’ostello bivaccano uomini armati, il negozio di souvenir è stato saccheggiato e nel parcheggio stazionano una batteria di Katiuscia e mezzi militari crivellati di colpi. Nel sepolcro la pietra tombale, profanata durante i combattimenti di agosto, è stata sostituita. Ma sulle alture di Bazarak non c’è più traccia delle gigantografie e dei trofei bellici che celebravano le gesta del Leone del Panjshir.