Giovanni Porzio – da Lagos (aprile 2007)
Cattedrali delle dimensioni di San Pietro e moschee che rivaleggiano con i santuari della Mecca. Una miriade di chiese semiclandestine e luoghi di culto musulmani che prolificano nelle periferie urbane. Missionari che si spingono nelle foreste brandendo il Vangelo e predicatori che setacciano i villaggi armati del Corano: la croce di Cristo contro la mezzaluna dell’Islam.
La guerra per la conquista dell’anima africana è in pieno svolgimento e la Nigeria, 140 milioni di abitanti che professano equamente le due religioni, è in prima linea: a cavallo di quella faglia culturale, non segnata sulle carte geografiche, che separa l’Africa berbera, araba e musulmana dall’Africa nera, cristiana e animista. Non è un confine netto. E religione è un termine riduttivo, una categoria che il sincretismo sviluppatosi nelle regioni subsahariane assimila alle tradizioni e alle credenze ancestrali: il fatalismo, la convinzione che il destino dell’uomo sia governato da forze inconoscibili, la devozione agli antenati, l’immanenza degli spiriti, benevoli o malvagi, capaci di determinare il corso degli eventi.
Nei villaggi più remoti i missionari cristiani e i marabutti musulmani sono spesso considerati alla stregua degli stregoni versati nelle arti magiche e dei guaritori che esorcizzano disgrazie e malattie con le pozioni di erbe e i talismani: al collo di un africano stanno appesi, indifferentemente, juju di pelli di capra, denti di leopardo, medagliette con l’immagine della Madonna e astucci con i versetti del Corano. Ma negli ultimi anni la spinta all’evangelizzazione e la propaganda islamica hanno assunto toni più aggressivi. Il fondamentalismo si diffonde anche tra i popoli africani più tolleranti e meno inclini al dogmatismo ideologico. E la competizione tra le due grandi fedi monoteistiche sfocia sempre più spesso in sanguinosi tumulti confessionali.
La storia recente della Nigeria è costellata di massacri e di sommosse a sfondo religioso. Nel maggio 2004 non meno di 630 musulmani furono trucidati da una folla di cristiani inferociti a Yelwa, 300 chilometri a ovest di Abuja. Nel novembre 2002, a Kaduna, gli scontri furono innescati dalle proteste contro il concorso di Miss Mondo: 250 vittime in tre giorni. Due anni prima, sempre a Kaduna, l’adozione della sharia nel popoloso stato del nord aveva provocato una strage: più di duemila morti, cristiani e musulmani. Dall’indipendenza (1960) a oggi, si calcola che le vittime siano state oltre diecimila nel solo stato dell’Altopiano, dove è sorta Abuja, la nuova capitale.
A scatenare i conflitti, più che l’appartenenza confessionale, sono quasi sempre ragioni economiche, politiche e sociali. In Sudan, da secoli terra di predicazione dei mistici musulmani e dei visionari sufi, la ventennale guerra santa contro il sud cristiano è stata un efficace strumento di propaganda del regime integralista di Khartoum e il paravento di una spietata lotta politica per lo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie del paese. In Nigeria i fulani e gli haussa, etnie islamizzate nel tardo Medioevo, si erano installati due secoli fa sull’Altopiano cacciando da quelle terre i cristiani tarok, che ora pretendono di rientrare in possesso delle terre ancestrali.
La religione, potente fattore di riconoscimento identitario, finisce tuttavia per agire da catalizzatore delle frustrazioni e delle aspirazioni etniche e tribali in paesi afflitti da crescenti disparità sociali, dove le élite al potere si arricchiscono a dismisura e la maggioranza degli abitanti sopravvive a stento. In Nigeria, ottavo esportatore di greggio al mondo e il terzo fornitore degli Stati Uniti, il 70 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno: gli oltre 380 miliardi di dollari in royalties petrolifere incassati in 40 anni dal governo federale sono stati sperperati o semplicemente rubati da una nomenklatura tra le più corrotte del pianeta.
Nel 1999, l’introduzione della sharia nei 12 stati musulmani del nord era stata accolta con favore: la nuova giurisdizione riempiva il vuoto lasciato dal collasso dell’amministrazione e dei servizi locali e prometteva di ristabilire ordine e moralità dove dilagavano arbitrio e corruzione. Ma accanto agli ulama moderati e pragmatici apparvero ben presto gli islamisti più intransigenti, fautori di un’applicazione letterale della legge coranica: velo alle donne, amputazione degli arti per i ladri, lapidazione per le adultere. Safiya Huseini e Amina Lawal, condannate a morte per avere avuto figli fuori dal matrimonio, sono state salvate dalla mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. Mentre continuano le discriminazioni a danno dei cristiani: a Kano non possono costruire luoghi di culto e il governo finanzia solo le madrasa islamiche. Decine di chiese sono state bruciate. Come pure numerose moschee, per vendetta e ritorsione.
La penetrazione dell’integralismo islamico nell’Africa nera ha messo in allarme i servizi segreti occidentali, già alle prese con i gruppi terroristici attivi a nord del Sahara, dal Maghreb al Libano. Movimenti fondamentalisti armati sono attivi in Uganda, Kenya, Etiopia, Eritrea. Cellule vicine ad al-Qaida sono state segnalate in Ciad, Mali, Mauritania, Niger e Somalia. Tanto che gli Stati Uniti hanno investito 500 milioni di dollari nella Trans-Sahara counter-terrorism initiative, destinata a fornire aiuti militari a nove paesi africani definiti a rischio.
L’organizzazione di Bin Laden non fa del resto mistero delle proprie intenzioni. Decine di jihadisti reduci dall’Afghanistan e addestrati in Pakistan sono stati inviati a combattere la guerra santa nel continente africano. E nel giugno 2006, in un lungo articolo pubblicato in Arabia Saudita su Sada al-Jihad (L’Eco del jihad), l’ideologo di al-Qaida Abu Azzam al-Ansari spiegava i vantaggi del nuovo “campo di battaglia contro i crociati”: la povertà dell’Africa “consente ai nostri guerrieri di guadagnare influenza attraverso donazioni e attività umanitarie”; la sua contiguità con il Nordafrica ne fa la base ideale “per attaccare i nostri obiettivi in Europa”; e la sua ricchezza in idrocarburi e materie prime “ci sarà di grande utilità nel medio e nel lungo termine”.
Solo un africano su tre, a sud del Sahara, si inginocchia in direzione della Mecca. Il cristianesimo, radicato in Etiopia fin dai primordi della nostra era e poi utilizzato in epoca coloniale per fermare l’espansione dell’islam, è ancora la religione più diffusa. Ma non costituisce un insieme omogeneo. Cattolici e metodisti, anglicani e protestanti delle chiese indipendenti, avventisti e seguaci delle innumerevoli sette autoctone sono spesso in concorrenza tra loro. L’islam al contrario, benché ramificato nelle diverse scuole giuridiche, si presenta come un insieme di valori e di norme organico e coerente. In Nigeria, i musulmani sono sempre più numerosi anche nel sud cristiano.
“E’ logico” dice Rahaj Younus Ibrahim, imam di una delle 14 moschee di Port Harcourt. “Tutte quelle chiese cristiane, tutti quei predicatori…Sono dei truffatori! Fanno il business delle anime. Non hanno niente a che vedere con Dio e la religione. Promettono salvezza in cambio di denaro. Sfruttano l’ignoranza e la disperazione della gente”. Ma Rahaj Younus non è da meno. Seduto nella penombra umida della sala di preghiere scrive il nome di Allah su una tavoletta di legno intingendo il calamo in un succo di radici e foglie cotte. Poi versa acqua sulla tavola e il preparato è pronto da bere: “Protegge da tutti i mali” assicura. “Da Satana e dalle malattie”.
Più convincente è l’imam supremo Haji Sulayman Abdussalam, uno yoruba da 35 anni impiantato nella capitale nigeriana del petrolio: “Qui non siamo fanatici come gli haussa del nord. Non vogliamo imporre la sharia e non obblighiamo nessuno a convertirsi. Chi abbraccia l’islam, e sono in molti, lo fa spontaneamente”.
La chiesa ufficiale è in difficoltà. Non solo per l’espansione dell’islam africano ma anche per la proliferazione delle sette che si richiamano al cristianesimo. Miseria e ignoranza facilitano la diffusione di culti esoterici e movimenti millenaristici, messi al bando dalle gerarchie ecclesiastiche, che tuttavia radunano migliaia di fedeli. Chiese evangeliche e carismatiche dai nomi improbabili: Chiesa dell’ultimo messaggio, Chiesa della Vittoria, Chiesa dell’Eterno ordine sacro, Legioni di Maria, Chiesa di Zion, Montagna di Beatitudine, Assemblea di Dio, Cappella internazionale di Cristo. E “ministri” che dagli enormi cartelloni pubblicitari garantiscono miracolose guarigioni, felicità, ricchezza, figli maschi e persini una “last minute redemption”.
Nell’Africa subsahariana le cosiddette chiese indipendenti sarebbero più di 10 mila. Sorte come reazione alle chiese ufficiali associate al colonialismo, amalgamano elementi mutuati dal cristianesimo con riti magici, esoterici e animisti che sfociano talvolta in terribili tragedie. Come nel marzo 2000 in Uganda, dove due psicopatici alla guida del Movimento per la restaurazione dei Dieci comandamenti, l’ex venditrice di banane e prostituta part-time Credonia Mwerinde e l’ex ispettore scolastico Joseph Kibwetere, diedero fuoco alla chiesa del villaggio di Kanungu: più di 500 devoti, la maggior parte donne e bambini, morirono carbonizzati.
In grande espansione sono anche le comunità pentecostali. Nate all’inizio del secolo scorso negli Stati Uniti ed esportate in America Latina negli anni Venti, hanno poi attecchito in tutto il continenete nero. Dalla Nigeria, dove sono ricche e numerose, stanno ora dilagando in Camerun: non sono legalmente registrate e ai pastori bene intenzionati si mescolano ciarlatani e imbonitori da strapazzo. Ma i fedeli accorrono a migliaia. Come nel capannone della Chiesa dei cherubini e dei serafini di Port Harcourt, fondata nel 1925 da Moses Orimolade Tunolase, che ha oggi succursali negli Usa, a Londra, in Olanda e in tutta l’Africa.
La cerimonia è appena iniziata. Accompagnati da canti, ossessivi rulli di tamburi e barriti di trombe gli adepti in ampie vesti bianche si lanciano in una danza forsennata attorno al corpo inerte di un ragazzino, adagiato dal padre in mezzo al corridoio della chiesa. Gli officianti recitano preghiere incomprensibili e gli sfiorano il capo con gli scettri d’ebano scuro. Si alzano dense volute d’incenso. Alcune donne in trance gridano formule salvifiche. Poi tutto tace. In silenzio, l’uomo prende in braccio il figlio e scompare tra le catapecchie della bidonville.